venerdì 28 dicembre 2018

Il Fatto 28.12.18
Silenzio, c’è Vermeer
Come la luce su oggetti, vestiti e volti svela mondi interiori
“La ragazza con l’orecchino di perla” – Tutti pazzi per le opere di Johannes Vermeer
di Tomaso Montanari


Ma, lasciando da parte i buffoni e gli abusivi, si tratta di una presenza o molto specifica (cioè legata al ruolo di ‘esperti’ di un tema di attualità: una mostra, una distruzione, una scoperta, etc. etc.), o connessa al dibattito sullo stato del patrimonio culturale. Molto più raro, anzi rarissimo, è il tentativo di mettere in connessione la ricerca scientifica della storia dell’arte e un discorso rivolto al più largo pubblico. Ma è invece vitale che la ricerca possa essere messa a disposizione di quell’opinione pubblica colta dalla cui esistenza dipende, tra l’altro, la salvezza del patrimonio artistico italiano: che mai – dopo la guerra – è stato in pericolo come oggi, quando una classe politica inconsapevole quanto rapace sta sradicando la storia dell’arte dalle scuole, trasformando i musei in luna park asserviti alla politica, stroncando le strutture che dovrebbero tutelare il territorio. E solo chi da anni frequenta un tema, un artista, un secolo con gli strumenti agguerriti dello specialista può davvero raccontarlo a tutti gli altri in un modo ‘semplice’. Perché solo la chiarezza di idee porta alla chiarezza delle parole.
È per questo che non potrei parlare per ore di Giotto o Picasso in tv: semplicemente non ne sarei capace. Ho invece provato a farlo sul ‘mio’ Seicento, grazie a Silvia Calandrelli, direttrice di Rai Cultura, e al suo modo di intendere il concetto di ‘servizio pubblico’: ed è così che sono nate le otto puntate della Libertà di Bernini (2015), le dodici della Vera natura di Caravaggio (2016-2017) e ora le quattro dei Silenzi di Vermeer, cui ne seguiranno a febbraio altre quattro su Velázquez (tutte con la regia sapiente di Criscenti).
Credo sia stata la prima volta che nella televisione italiana si sono dedicate a singoli artisti intere serie: una scelta che permette di recuperare la venerabile formula della monografia d’artista. La qualità della fotografia, l’indugio su ogni singola opera (e nel caso della scultura anche sul contesto), la lettura critica completa della bibliografia e la sua restituzione (seppur necessariamente parziale e filtrata dal giudizio dell’autore) sono i punti cardine di questo progetto che appare agli antipodi del ricco mainstream in fatto di arte (per tacere delle prove imbarazzanti che un ex protagonista della politica ci sta offrendo), e che esce fin qui premiato dagli ascolti (in relazione alla sede, ovviamente). Il progetto tiene conto del fatto che la fruizione solo in piccola parte sarà quella tradizionalmente televisiva (prima visione e poi repliche), ma avverrà soprattutto sulla rete, grazie al sito Raiplay che consente di vedere, rivedere, antologizzare, saltare o al contrario vedere tutto di fila. Una modalità che ha più a che fare con il rapporto attivo che si ingaggia con un libro che non con la passività imposta dalla televisione di un tempo.
Se la scelta di Bernini sgorgava direttamente dalla mia ventennale ricerca, e quella di Caravaggio dal desiderio di ‘disturbare’ la narrazione dominante su un feticcio che si avvia a fare la fine di Leonardo o Van Gogh (divorati vivi da un marketing svuotante) la decisione di presentare agli spettatori italiani Vermeer e Velázquez nasce dall’attualità più pressante.
In un momento di ripiegamento culturale avvilente, in cui la parola d’ordine è ‘prima gli italiani’ e in cui l’Europa è un cumulo di macerie culturali e politiche, è forse utile allargare la focale.
Johannes Vermeer (1632- 1675) è un artista vissuto sempre nella sua piccola Delft: nel cuore di una giovanissima Repubblica ‘democratica’, le Province Unite olandesi, che stava al centro di una straordinaria rete di commerci globali che congiungevano il Brasile all’Africa alla Cina e al Giappone (su questo si può leggere lo splendido libro scritto da uno storico dell’economia canadese che studia la Cina: Timothy Brook, Il cappello di Vermeer, Einaudi).
Il nostro pittore era un cattolico in un paese protestante in lotta mortale contro la cattolicissima Spagna. Un pittore che doveva sopravvivere in un piccolo paese capace di produrre in un secolo qualcosa come nove milioni di quadri: e infatti Johannes morì povero e pieno di debiti. Un pittore che venne probabilmente mai in Italia ma la cui opera non sarebbe neppure concepibile senza la rivoluzione di Caravaggio.
Un pittore del silenzio, capace di chiudere come in lucide gocce d’ambra scene di interno nelle quali apparentemente non succede nulla: ma in cui l’incidenza della luce su oggetti, volti e vestiti svela il mondo interiore dei protagonisti. Protagoniste, in verità: Vermeer è un pittore di donne, di figure femminili cui viene conferita una dignità e un’autonomia morale ed esistenziale prima impensabili.
Basterebbero questi pochissimi tratti a far capire l’alterità della pittura, e della stessa condizione umana, di Vermeer rispetto all’Italia di oggi e alla nostra storia dell’arte, trionfalmente legata al potere monocratico: e forse abbiamo proprio bisogno di spalancare le finestre su forme, pensieri, situazioni radicalmente altre da noi, rispondendo a questa imbambolata autarchia con l’invito a conoscere e ad amare ciò che è diverso, eppure capace di parlare di noi.
“Dicono che cercasse la luce”, scriveva di Vermeer Giuseppe Ungaretti (introducendo, nel 1967, il volume a lui dedicato da quel grande progetto culturale che sono stati i Classici dell’arte della Rizzoli): la scommessa è che un po’ di quella luce riesca a filtrare in qualche casa italiana. Perfino attraverso lo schermo della televisione.