venerdì 28 dicembre 2018


Il Fatto 28.12.18
Pacino ritrova “Shakespeare” diretto da Radford
Nicchiarelli sta lavorando a “Miss Marx”, un biopic sulla figlia più giovane del filosofo
Pacino ritrova “Shakespeare” diretto da Radford
di Fabrizio Corallo


L’iperattivo Claude Lelouch, 81 anni, ha convinto Jean-Louis Trintignant a posticipare l’annunciato addio alle scene e a interpretare insieme ad Anouk Aimée (87 anni lui, 86 lei) The Most Beautiful Years, capitolo conclusivo delle vicende sentimentali dell’ex pilota Jean-Louis e dell’ex segretaria di edizione Anne al centro 52 anni fa del celeberrimo Un uomo, una donna, Oscar per il miglior film straniero e Palma d’oro a Cannes, cui fece seguito nel 1986 Un uomo, una donna venti anni dopo. Ambientato a Deauville, in altre zone della Normandia e a Parigi, il nuovo film in uscita a maggio prevede anche un breve ruolo per Monica Bellucci.
Il 12 dicembre sono iniziate a Londra le riprese di Cats, adattamento per il cinema del musical del 1981 di Andrew Lloyd Webber su testi di T.S. Eliot, rivelatosi uno dei più grandi successi di tutti i tempi nel mondo per longevità, spettatori e incassi. Diretto da Tom Hooper (Il discorso del Re, The Danish Girl) il film è interpretato tra gli altri da Jennifer Hudson, Ian McKellen, Idris Elba e Judi Dench, e verrà lanciato da Universal Pictures nel dicembre del 2019.
A 14 anni da Il mercante di Venezia Al Pacino tornerà a recitare per Michael Radford, il regista inglese de Il postino, e il produttore Barry Navid in un nuovo adattamento cinematografico di Re Lear che segnerà un’ulteriore e importante tappa delle sue appassionate riflessioni e riletture delle pagine di Shakespeare.
Susanna Nicchiarelli dirigerà per Vivo film e Rai Cinema Miss Marx, la storia della figlia più giovane di Karl Marx, Eleanor. Brillante, colta, libera e appassionata fu una delle prime donne ad avvicinare i temi del femminismo e del socialismo incarnando le contraddizioni di un’epoca in bilico tra ragione e sentimento, sottomissione ed emancipazione.

Repubblica 28.12.18
Sì, compagni il comunismo si è realizzato
Marxisti immaginari
Dal plusvalore all’alienazione, dalla lotta di classe al capitale, ecco come si sono realizzate nell’era dei social, della globalizzazione e dei documedia le profezie di Marx in un modo del tutto inaspettato
di Maurizio Ferraris


Il cellulare con cui creiamo valore? Controllo dei mezzi di produzione Sempre connessi? Fine dell’alienazione: lavoro e tempo libero sono la stessa cosa. Dati sensibili ai privati? Fine dello Stato. Una provocazione filosofica
Il bicentenario marxiano ha prodotto un bilancio prevedibile: gran pensatore, ha capito tutto del capitale, ma il suo sogno, il comunismo, non si è realizzato. Ma ne siamo sicuri? A ben vedere, è vero il contrario: Marx ha perso un elemento centrale del capitale, il fatto che potesse trascendere la dimensione industriale e finanziaria, e proprio per questo il comunismo si è realizzato.
Incomincio a giustificare la seconda affermazione, che appare la più sorprendente.
Malgrado quello che si dice e si pensa, siamo la società più vicina al comunismo che la storia abbia mai conosciuto.
Sicuramente, più vicina di quanto lo fossero le esperienze storiche di comunismo realizzato, e senza dimenticare che la più grande esperienza di comunismo realizzato è tutt’ora in corso e tutt’altro che in crisi, visto che la Cina si sta avviando a diventare il potere egemone del XXI secolo. Conviene dunque smettere il gioco futile del condannare il capitalismo e rimpiangere il comunismo. Il comunismo è già qua, nella rivoluzione in corso. Si tratta di comprenderlo e di concettualizzarlo. Controllo dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori, fine della alienazione e della divisione del lavoro, società senza classi e senza stato, nuova internazionale, dittatura del proletariato, ossia tutte le caratteristiche che Marx attribuiva al comunismo sono una moneta corrente in moltissime società contemporanee che si credono capitaliste.
Il telefonino con cui creiamo dati, cioè ricchezza, ci appartiene (ma ce lo danno praticamente gratis, se ci impegniamo a usarlo) così come la casa che diamo in affitto con Airbnb o l’auto di cui ci serviamo per lavorare con Uber. Finisce così l’alienazione, perché vien meno la differenza tra tempo del lavoro e tempo della vita (siamo perennemente mobilitati sul web); si assottiglia la differenza tra lavoro intellettuale e lavoro manuale (una parte sempre crescente dell’umanità delle società occidentali usa le braccia e le gambe per tenersi in forma, e per lavorare usa le dita che si muovono sulla tastiera); ci si avvia verso una società senza classi, sebbene permangano e si accentuino le differenze di reddito; verso una società senza Stato (le prerogative statali della conoscenza analitica della popolazione, del batter moneta, della posta e dell’esercizio della forza passano progressivamente ad agenzie extra-statali); inoltre — malgrado i sussulti sovranisti, non meno inattuali della Restaurazione del 1814 — si è affermata una società globalizzata, ossia una nuova internazionale, questa volta effettiva: per questo fa paura, essendo una realtà e non un vago ideale romantico. Per finire, i populismi costituiscono la prima realizzazione storica di quella dittatura del proletariato che Marx vedeva come un momento di transizione tra la società borghese e la società comunista.
Questa realtà è il frutto di una rivoluzione, non meno grande della rivoluzione industriale di due secoli fa. Dalla fine del Settecento conosciamo il mondo del capitale industriale: produceva merci, generava alienazione, faceva rumore, quello delle fabbriche. Poi è stata la volta del capitale finanziario: produceva ricchezza, generava adrenalina e faceva ancora un po’ di rumore, quello delle sedute di borsa. Oggi si sta facendo avanti un nuovo capitale, il "capitale documediale": produce documenti, genera mobilitazione e non fa rumore. Il suo ambiente, e la sua condizione di possibilità, è il web, che ha prodotto quella che chiamo rivoluzione documediale, innescata dall’incontro fra una sempre più potente documentalità (la sfera di documenti da cui dipende l’esistenza della realtà sociale) e una medialità diffusa e pervasiva, sia quantitativamente (i cellulari sono due miliardi) sia qualitativamente (grazie ai social media, ogni ricettore è anche un broadcaster).
Quanto sappiamo di questa rivoluzione? Abbiamo davvero capito di che cosa si tratta? Dopo un momento di euforia, in cui il web è stato interpretato anzitutto in modo estetico, come portatore di nuova bellezza e delle esperienze di un mondo virtuale, è venuta l’ora della morale. Inteso ai suoi esordi come una prateria dove scorrazza la libertà, il web si è trasformato oggi nel Grande Fratello che spia i nostri comportamenti e prepara dossier sulle nostre vite. Per quanto importante, questa lettura non è meno settoriale di quella che si manifestava nell’incanto estetico per la rete e sembra di essere ritornati ai tempi della Società delle Nazioni e alla sua astratta illusione di governare il mondo in base alla pura produzione di norme. In taluni casi si potrebbero trasferire al web (augurando loro maggiore fortuna) i 14 punti del Presidente Wilson aggiungendo un po’ di dichiarazioni del 1789, e qualcosa delle dichiarazioni delle Nazioni Unite del 1948, compreso l’articolo 19: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione», senz’altra precisazione (ad esempio, che l’opinione sia vera, che non inciti all’odio ecc.). Il ciberspazio è pieno di etica, di buone intenzioni, cioè della materia di cui, come sappiamo, sono lastricate le vie che portano all’inferno: perché — mentre si dibatte sui principi e sulle norme — un sisma politico ed economico porta al potere, oggi come negli anni Trenta, i populisti spaventati da una trasformazione che non comprendono.
Che cosa si può fare per comprendere? L’etica è una parte importante della filosofia, come l’estetica, ma pretendere di capire davvero la rivoluzione documediale con il solo ricorso a queste due nobili branche del sapere è come mandare una carica di cavalleria contro i carri armati. È necessaria una analisi che non si limiti a sviluppare le implicazioni etiche ma affronti la trasformazione con tutti gli strumenti fornitici dalla filosofia: la metafisica, che ci aiuti a dire che cos’è il mondo della rivoluzione documediale; l’ontologia, che ci dica che cosa c’è, quali sono le componenti di questo nuovo universo in cui ci siamo trovati a vivere, e nel quale le merci sono diventate documenti; la tecnologia, che ci spieghi che cosa è diventato il lavoro, trasformatosi in una mobilitazione senza confini di spazio e di tempo, e che spessissimo produce valore senza essere retribuito; l’epistemologia, che ci aiuti a capire che cosa non va nella rivoluzione, e in particolare l’enorme asimmetria (che chiamo "plusvalore documediale") che, in quella che a torto è definita una economia della conoscenza, contrappone le informazioni ottenute da chi si mobilita e quelle che cede gratuitamente alle piattaforme; e infine la teleologia, la risposta alla domanda "che fare?", una domanda che la politica, ridotta ad analisi dei sondaggi e a una campagna elettorale senza fine, è incapace di soddisfare.
– 1. Continua


il manifesto 28.12.18
Koulibaly l’antirazzista. Ma è squalificato per due turni
Lo stadio dell’odio. «Mi dispiace per la sconfitta e soprattutto per aver lasciato i miei fratelli! Però sono orgoglioso del colore della mia pelle. Di essere francese, senegalese, napoletano: uomo»
di Nicola Sellitti


Si ferma per due turni, Kalidou Koulibaly, mentre la Serie A torna in campo tra due giorni. Come nulla fosse, dopo un morto, feriti, oltre 60 mila persone che a turno si divertono a offendere un calciatore nero, nell’inerzia e nell’ipocrisia diffusa del calcio italiano.
MA NON SI ARRESTA neppure il flusso di condivisioni per il post sui social arrivato ieri del difensore del Napoli, «Mi dispiace per la sconfitta e soprattutto per aver lasciato i miei fratelli! Però sono orgoglioso del colore della mia pelle. Di essere francese, senegalese, napoletano: uomo».
L’endorsement mediatico è arrivato da Cristiano Ronaldo, dal capitano dell’Inter, Mauro Icardi, dai compagni di squadra del Napoli, dai profili ufficiali di tanti club di Serie A, da altre vittime della follia razzista negli stadi, come l’ex milanista Boateng, che sei anni fa a Busto Arsizio, in Pro Patria-Milan, ha vissuto le sue stesse sensazioni, prima di finire all’Onu a parlare di razzismo negli stadi.
Assieme all’istituzione di un osservatorio contro le diffamazioni contro Napoli da parte dell’amministrazione cittadina partenopea e le scuse del sindaco di Milano, Beppe Sala, che ha stigmatizzato i «buu» di San Siro, proponendo che il capitano della prossima partita dell’Inter sia il ghanese Asamoah.
Anche se Koulibaly avrebbe preferito che gli altri neri dell’Inter, Keita, Miranda, Joao Mario, Dalbert, uscissero dal campo assieme a lui, dopo l’espulsione. Insomma, ora tutti lo sostengono, pacche sulla spalla, sostegno pubblico.
Un fronte compatto. In apparenza. Perché nel calcio italiano ognuno gioca solo la sua partita, tra connivenza con una fetta di pubblico per le società e l’inadeguatezza gestionale, politica dei dirigenti che si sono passate le poltrone del potere del pallone negli anni. Koulibaly è uno che ci tiene.
È DA SEI ANNI IN ITALIA, in arrivo dal Genk – una palestra di futuri campioni con origini africane – e sempre a Napoli, che in trasferta è spesso il canovaccio ideale per recitare a memoria slogan e ululati per gli strateghi dell’intolleranza.
Il Vesuvio invocato al lavaggio con il fuoco, ancora il colera. E lui prende tutti di petto, d’anticipo, il razzismo come in ogni weekend con l’attaccante di turno. Sia verso i neri che verso i napoletani, la sostanza non cambia. È ancora ed è stato un testimonial, nelle scuole italiane per i convegni sul razzismo organizzati dall’Uefa.
Anche a Milano, con gli studenti tre anni fa, dopo i cori razzisti subiti in Lazio-Napoli, con partita sospesa dall’arbitro per qualche minuto. «Da solo è molto difficile, durante quella partita anche qualche giocatore della Lazio mi diceva che erano solo due-tre stupide persone e mi aiutarono», disse il difensore al liceo Agnesi, nel capoluogo lombardo.
E nella stessa circostanza affrontò anche il tema della schiavitù in Libia, che tocca molti senegalesi.
IL SENEGAL È CASA SUA. In passato ha anche sostenuto le spese della nazionale, con le casse vuote in trasferta a Londra.
Nella battaglia contro l’intolleranza attualmente in Italia può contare su pochi compagni di squadra. Tra questi, il tecnico del suo Napoli, Carlo Ancelotti, che ha abbracciato una battaglia culturale dal suo ritorno in Italia, dopo aver allenato in Spagna, Francia, Germania, Inghilterra, che hanno affrontato e in gran parte risolto il nodo razzismo, almeno negli stadi. Stop ai cori razzisti, omofobi, di discriminazione territoriale.
Anche a costo di scegliere in autonomia di abbandonare il campo, se non tutelati dal sistema. Come ipotizzato a Bergamo, qualche settimana fa. È richiesto dai principali club al mondo, Koulibaly, una quotazione da oltre 100 milioni di euro. Presto potrebbe andar via. E trovare in uno stadio avversario solo applausi, o fischi.

Il Fatto 28.12.18
Al prossimo coro razzista, i tifosi sani se ne devono andare
di Peter Gomez

Ora che c’è scappato il morto, tutti si stracciano le vesti. E i buu e gli insulti razzisti rivolti dalla curva dell’Inter contro il difensore del Napoli, Kalidou Koulibaly, suscitano uno sdegno che senza il cadavere fuori dallo stadio sarebbe stato verosimilmente dimezzato. Sì, perché alla faccia delle leggi, per chi ogni domenica assiste al rito laico della partita di pallone la variabile razzismo è semplicemente un accidente. Un qualcosa che si ripete da anni con costanza impressionante. Un disgustoso accadimento che guadagna qualche titolo in tv o sui giornali, ma che poi viene dimenticato.
Così, nel 2005 a essere preso di mira dai tifosi è Marco André Zoro, terzino del Messina, che sbotta e butta con le mani la palla fuori campo. Nel 2010 gli insulti vengono invece rivolti a Samuel Eto’o che reagisce rivolgendosi alla curva mimando le movenze di una scimmia. Poi tocca a Kevin Prince Boateng che durante un’amichevole saluta e se ne va.
L’elenco è però cento volte più lungo. E anche se oggi a volte segue la squalifica della curva o la partita a porte chiuse (l’Inter giocherà per due giornate senza pubblico), il fenomeno viene di fatto considerato come un corollario spiacevole, ma quasi inevitabile, di uno spettacolo non privo di gravi effetti collaterali: gli scontri e i morti tra gli ultras, la delinquenza sugli spalti, gli incontri che ciclicamente si scoprono truccati.
Sarebbe però sbagliato pensare che tutto questo accada perché il football è un mondo a parte. È vero anzi il contrario. Il Parlamento che ha approvato leggi per rendere civili gli stadi, non si è mai fatto problemi ad assolvere chi in Parlamento tiene comportamenti da stadio. Ne sa qualcosa l’ex ministra Cecile Kyenge, che nel 2013 fu paragonata a “un orango” dall’ex vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli. Allora, quando si trattò di concedere l’autorizzazione a procedere per diffamazione aggravata dalla discriminazione razziale, Palazzo Madama decise di avallare il processo solo per la diffamazione semplice. Il no all’aggravante fu invece votato a larga maggioranza, con la quasi totalità del Pd che schierò assieme a Forza Italia. Una scelta così motivata dal dem Claudio Moscardelli: “Le accuse relative alle incitazioni all’odio razziale risultano infondate, atteso il contesto politico nel quale le frasi in questione sono state pronunciate e attesa anche la configurazione del movimento della Lega, nel cui ambito operano diverse persone di colore”. Una tesi surreale, poi demolita dalla Corte costituzionale, ma che ora potrebbe essere fatta propria dall’Inter nell’eventuale ricorso contro la squalifica. In fondo (potrebbero sostenere gli avvocati) gli insulti a Koulibaly erano indirizzati contro la prestazione sportiva e sia tra i nerazzurri che tra i loro tifosi non mancano persone di colore. Anche perché per fatti del genere in Italia la giustizia sportiva spesso assolve.
È accaduto, per esempio, all’ex presidente della Figc, Carlo Tavecchio, quando disse “noi (in Italia) diciamo che Opti Pobà venuto qua, che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare. In Inghilterra deve prima dimostrare il suo curriculum e pedigree (l’albero genealogico degli animali, ndr)”. Allora i giornali parlarono di gaffe. I dirigenti fecero spallucce, i giudici archiviarono e a squalificare Tavecchio fu la Uefa. Rendendo chiaro che il pesce italiano puzza, sì, ma dalla testa. E che se si vuole dire no al razzismo possiamo sperare solo nei tanti tifosi perbene. Al prossimo coro contro un giocatore di colore a lasciar sole le squadre dovrebbero essere loro.

La Stampa 28.12.18
E Di Maio fa maria indietro sul terzo settore per non perdere consensi tra i cattolici
di Ilario Lombardo


Si erano dimenticati di dirglielo, a Laura Castelli, che era tutto da rifare. Anche se non subito, direttamente nella legge di Bilancio nel suo ultimo passaggio alla Camera, per evitare di finire in esercizio provvisorio. Oppure, molto più semplicemente, la sottosegretaria davvero ci credeva, come ha detto, in una norma nata per stanare i «furbetti della finta solidarietà». Un sovrapprezzo al volontariato, a sentire le ragioni grilline, ideato anche come stratagemma per tassare la Chiesa visto che non è stato facile trovare un’altra strada sull’Imu. «Non è una norma sbagliata per come è stata concepita ma per come è stata scritta», ammette l’altro sottosegretario all’Economia del M5S, Alessio Villarosa. Sta di fatto che il cortocircuito sul passaggio più contestato della manovra ha fatto emergere nuovamente le anime opposte del M5S. Castelli a un certo punto della giornata è rimasta da sola a difendere la tassa che cancella l’Ires agevolata per il Terzo settore, portandola dall’attuale 12% al 24%: «È giusto: si presuppone che tu non faccia utili visto che sei senza scopo di lucro. Noi tassiamo i profitti mica i soldi della beneficenza».
L’Ires, l’imposta sul reddito delle imprese, è da sempre dimezzata per gli istituti di assistenza sociale, le società di mutuo soccorso, gli enti di beneficenza, ecclesiastici e non. Un’agevolazione che premia il ruolo di compensazione del no profit che interviene dove lo Stato non arriva. Ma purtroppo il governo era dominato dall’urgenza di racimolare denari per blindare il reddito di cittadinanza e tenere buona l’Europa. E, alla fine, è stato sacrificato il Terzo settore. 157,9 milioni di euro di gettito previsti, dirottati verso il sussidio simbolo del M5S, costretto, ora, a cercare altrove risorse per rattoppare il buco rimasto. Ma l’onda d’urto delle polemiche è stata più forte di tutto. Il tempo di leggere i giornali al mattino e di qualche telefonata. E così mentre Castelli parlava, il vicepremier Luigi Di Maio già la smentiva: «La norma va cambiata. Mi impegno a farlo nel primo provvedimento utile. Si volevano punire coloro che fanno finto volontariato e ne è venuta fuori una norma che punisce chi ha sempre aiutato i più deboli». Eppure nemmeno 48 ore prima il leader pentastellato rivendicava: «Con questa manovra cominciamo a ridurre tutta la partita delle agevolazioni agli enti ecclesiastici».
Il primo provvedimento utile comunque sarà il quarto decreto attuativo della riforma del Terzo settore tra gennaio e febbraio. Forza Italia e Pd chiedono di cancellare subito la norma, alla Camera. «Non possiamo intervenire nella legge di bilancio - risponde Di Maio - perché si andrebbe in esercizio provvisorio». Anche per il premier Giuseppe Conte la retromarcia è clamorosa: «La norma va ricalibrata. Gli enti no profit, alla luce del principio di sussidiarietà, rappresentano uno strumento essenziale per un’efficace politica di inclusione sociale». Solo 72 ore prima, invece, gioiva per aver «adeguato la tassazione del no profit a quella degli altri settori».
Tra pranzi e cenoni il regalo natalizio è risultato indigesto e i cattolici italiani lo hanno urlato a gran voce. Il Movimento che ha fatto della lotta alla povertà una bandiera, che si definiva il portavoce della novella francescana, viene bacchettato dal presidente dei vescovi, Gualtiero Bassetti, e dai frati, proprio quelli del Sacro convento di Assisi. Per ragioni di calcolo e di sensibilità, mentre piovono telefonate e anche il Quirinale osserva preoccupato lo svolgersi degli eventi, Conte e Di Maio ammettono: «Abbiamo fatto una cavolata». Il presidente del Consiglio è cresciuto nel prestigioso collegio di Villa Nazareth, dove è di casa il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin, e conosce bene l’opera di assistenza ai bisognosi. Così come è consapevole della forza della religione, lui devoto a Padre Pio, il santo della sua terra, Foggia, dove ha appena annunciato interventi anche per implementare il turismo dei fedeli. I cattolici sono soprattutto un consenso esteso di cui Di Maio non può fare a meno proprio ora che il M5S soffre una crisi nei sondaggi. E Matteo Salvini? Era stato il primo, il giorno di Natale, ad annunciare che si sarebbe rimediato all’errore. Così anche lui si accoda al mea culpa di governo, seppure la tassa sul no profit sia nata proprio per evitare l’innalzamento delle sue odiatissime accise sul tabacco.

Corriere 28.12.18
Tagli a imprese e istruzione, in tre anni 9 miliardi in meno
di Mario Sensini


ROMA Più fondi per le pensioni e le politiche sociali, meno risorse per la scuola, per i beni culturali, il soccorso civile e l’accoglienza degli immigrati. Una spesa decisamente più alta per gli interessi sui titoli pubblici, ma anche una sforbiciata progressiva, e assai pesante, agli incentivi concessi alle imprese. Sulle quali, come emerge dal bilancio pubblico che si delinea per il prossimo triennio, graveranno, alla fine, i costi maggiori della manovra del «cambiamento», la prima del governo giallo-verde.
Il bilancio pubblico riclassificato per «azioni politiche» che viene allegato al disegno di legge di Bilancio rende in modo evidente le scelte operate. Cioè come i nuovi stanziamenti e i tagli alla spesa necessari per finanziarli modificheranno il bilancio del prossimo triennio. Al netto di nuovi interventi che certamente ci saranno, se non altro per scongiurare gli aumenti dell’Iva con altri taglio tasse.
E sarà un impatto sostanziale: con Quota 100 la spesa per le pensioni crescerà tra il ’19 e il ’21 di 4 miliardi, mentre il Reddito spingerà la spesa per la famiglia e le politiche sociali, che aumenta di 1,5 miliardi. E poi c’è il costo degli interessi sui titoli di Stato, che cresce di ben 8,5 miliardi nel triennio (da 74,2 a 82,7 miliardi). In compenso c’è un taglio di 5 miliardi agli incentivi alle imprese, una sforbiciata di ben 4 miliardi alla scuola. Si risparmierà sul rimborso delle imposte (-3,9 miliardi, si spenderà meno per il soccorso civile (3,3 miliardi) e per l’immigrazione. Restano ferme, nel triennio, le risorse per ordine pubblico e sicurezza, giustizia, difesa, agricoltura, ricerca.
Il nuovo parametro per le uscite dal lavoro a Quota 100 ha l’effetto di proiettare oltre quota 100 miliardi la spesa per tutte le politiche previdenziali, che passa da 96,4 a 100,2 miliardi tra il 2019 e il 2021. Qui dentro la spesa vera e propria per le pensioni aumenta di 3,8 miliardi da 84,9 a 88,7 miliardi. Salgono gli stanziamenti per le politiche sociali e la famiglia, da 40,2 a 41,8 miliardi, e per il Reddito (più 1 miliardo tra il ‘19 e il ‘20), ma c’è anche 1 miliardo in più nel triennio per invalidi, disabili e non autosufficienti (da 19,6 a 20,6 miliardi).
Altro capitolo molto pesante nel bilancio pubblico è quello assorbito dall’istruzione scolastica. Che si riduce, a legislazione vigente, di 4 miliardi nel triennio, cioè di circa il 10%. Si passa da 48,3 a 44,4 miliardi nel giro di tre anni, con una riduzione delle risorse sia per l’istruzione primaria (da 29,4 a 27,1 miliardi di euro) che per quella secondaria (da 15,3 a 14,1 miliardi). A determinare la flessione contribuisce in modo decisivo la riduzione dei fondi per gli insegnanti di sostegno, un miliardo nel ciclo primario, 300 milioni in quello secondario. In compenso si spenderà qualcosa in più per l’Istruzione universitaria (da 8,3 a 8,5 miliardi tra il ‘19 e il ‘21).
La spesa per sostenere la competitività e lo sviluppo delle imprese, come detto, si riduce drasticamente, nonostante la flat tax sulle partite Iva e i nuovi sgravi Ires per quelle che reinvestono gli utili. La bolletta è molto pesante: gli stanziamenti passano da 24,7 miliardi nel 2019 a 20,6 nel 2020 e a 19,6 miliardi nel 2021. Sono 5,1 miliardi che vengono meno in gran parte proprio grazie alla riduzione degli incentivi fiscali (da 18,3 a 16 miliardi).
Bruxelles
I contributi pagati dall’Italia al bilancio Ue aumentano di oltre tre miliardi in tre anni
Non riguarda solo le imprese, ma per il prossimo triennio ci sarà da mettere in conto anche una riduzione dei rimborsi fiscali operati dallo Stato. Che passeranno dai 73 miliardi previsti per il 2019 a 69,1 nel 2021.
Sale anche il costo della partecipazione italiana al bilancio dell’Unione europea, nonostante il governo lo ritenga già ora troppo alto.
I contributi all’Unione Europea aumentano di oltre 3 miliardi nel periodo, da 20,8 a 23,9 miliardi. E salgono anche quelli dello Stato a Regioni ed enti locali, che comprendono gli stanziamenti per la sanità: da 119,9 miliardi di euro nel 2019 a 121,1 nel 2021.
Tra il 2019 e il 2020 raddoppiano gli stanziamenti per le infrastrutture (da 3,6 a 7,3 miliardi, poi scendono a 5 nel 2021), grazie a 3,5 miliardi in più per strade e autostrade in gestione Anas. Si prevede, inoltre, un incremento dei fondi per la mobilità e il trasporto pubblico di 1,3 miliardi nel triennio (in questo caso grazie al contratto di programma delle ferrovie).
A fare le spese di queste scelte politiche sono altre «missioni» pubbliche. Scendono ad esempio la spesa per l’immigrazione (da 3,3 a 2,9 miliardi), quella per la tutela dei beni culturali e del paesaggio (da 2,6 a 1,8 miliardi), come quella per il soccorso civile, che passa da 7,6 a 4,3 miliardi.
Il «sostegno alla ricostruzione» crolla tra il ‘19 e il ‘20 da 3,2 miliardi a 700 milioni, poi 380. Ma scendono anche le risorse finanziarie per la protezione civile di primo intervento, da 744 a 391 milioni di euro.

Corriere 28.12.18
L’azzardo cinese (e quello Usa)
Così l’Occidente rischia 2 volte
Nel 2019 decisivi saranno l’evoluzione politica, socioeconomica e tecnologica della Cina e il conflitto ormai aperto con l’America, pronta a contrastare la sua corsa
Il futuro del pianeta
Ma il tentativo della Cina di diventare il nuovo Paese-modello non avrà successo
di Massimo Gaggi


Facile prevedere che il prossimo sarà un altro anno mozzafiato per gli Stati Uniti, trascinati da un presidente sempre più furioso per l’assedio delle inchieste giudiziarie che lo riguardano e sempre più deciso a blindarsi dietro le politiche populiste che tanto piacciono al suo elettorato conservatore, anche a costo di destabilizzare l’economia tra guerre commerciali, scontri col Congresso e blocchi dell’attività di governo.
Da europei nel 2019 dovremo preoccuparci sempre più delle azioni con le quali Donald Trump sta minando i rapporti transatlantici indebolendo la Nato (forse la causa principale delle dimissioni di James Mattis da capo del Pentagono) e tentando addirittura di scardinare l’Unione Europea, tra attacchi continui ai suoi due partner principali — Germania e Francia — e la minaccia di negare alla Gran Bretagna accordi commerciali con gli Usa se Londra uscirà dalla Ue in modo morbido e ordinato, anziché con una rottura caotica.
Ma se vogliamo porci in una prospettiva globale e di più lungo periodo, la cosa da osservare con maggior attenzione nel 2019 sarà l’evoluzione politica, socioeconomica e tecnologica della Cina e quella del conflitto ormai aperto con l’America, decisa a contrastare la sua corsa. Un conflitto inevitabile: la Cina è l’unica area d’intervento fuori degli Usa nella quale Donald Trump sembra deciso ad andare fino in fondo, senza cambi di rotta e ripensamenti. Uno scontro destinato ad avere conseguenze pesanti, soprattutto sul piano economico.
Stiamo già vivendo una fase di rallentamento della crescita — marcata in Cina, significativa in Europa, solo agli inizi negli Usa — in gran parte legato a questi conflitti economici. La situazione potrebbe diventare assai più drammatica nel 2019 se, come temono molti, i crolli dei mercati azionari degli ultimi due mesi dovessero sfociare in una crisi finanziaria analoga a quella scoppiata a Wall Street nel 2008 e poi propagatasi in tutto il mondo. Quella «grande recessione» ha lasciato segni profondi, ma allora una ben più grave depressione economica (come quella degli anni Trenta del Novecento) fu evitata anche grazie alla cooperazione planetaria che prese forma già nel G20 che si riunì a Washington a metà del novembre 2008, due mesi dopo il fallimento della Lehman Brothers.
Nel 2019 decisivi saranno l’evoluzione politica, socioeconomica e tecnologica della Cina e il conflitto ormai aperto con l’America, pronta a contrastare la sua corsa
Quello di oggi è un mondo assai diverso, come testimoniano i resoconti del recente G20 in Argentina, ridotto a semplice occasione per una fitta serie di incontri bilaterali, vista l’impossibilità di raggiungere un consenso generale su qualunque tema rilevante. La Cina ha approfittato della defezione dell’America di Trump, che si è ritirato dall’accordo di Parigi sul clima, per prendere la guida delle politiche planetarie, almeno sulla tutela dell’ambiente.
Ma il tentativo di Pechino di diventare il nuovo Paese-modello per il futuro del pianeta difficilmente avrà successo, visti l’asprezza del suo regime e l’allarme creato ovunque dal suo espansionismo: quello militare nel Sud-Est asiatico e quello economico in Africa, America Latina e alcune parti d’Europa. Soprattutto, il 2018 è stato l’anno nel quale Xi Jinping, eliminando i limiti temporali al suo mandato presidenziale, ha creato le premesse per una dittatura a vita simile a quella di Mao Zedong. Un autoritarismo solo apparentemente diverso, algoritmico: un totalitarismo tecnologico basato su un sistema di sorveglianza dei cittadini ubiquo e governato da un’intelligenza artificiale presentata come asettica ma che, in realtà, può distribuire premi e punizioni sulla base di criteri stabiliti dal regime.
Tecnologie sofisticatissime — dall’intelligenza artificiale alla videosorveglianza incrociata con i nuovi sistemi di riconoscimento biometrico del volto dei cittadini — al servizio di un vecchio precetto maoista: solo con l’esercizio di un’autorità forte si può tenere in ordine un Paese turbolento. Deciso a seguire questa linea, Xi Jinping ha anche varato un piano che mira a garantire alla Cina il primato tecnologico entro il 2025. La volontà di Trump di contrastare questo piano può apparire velleitaria (mentre alza barriere commerciali, la Casa Bianca, tagliando l’assistenza militare al Pakistan, ha aperto a Pechino le porte di un Paese-chiave dell’Asia centrale) o basata su secondi fini (dirottare l’attenzione dell’opinione pubblica Usa dalle interferenze della Russia di Putin che ha cercato di favorire l’ascesa del presidente immobiliarista).
Il futuro del pianeta
Ma il tentativo della Cina di diventare il nuovo Paese-modello non avrà successo
In realtà, alzando le barriere doganali, il leader autoproclamatosi tariff man, cioè il Superman dei dazi, non sta soltanto proteggendo il mercato interno americano e svolgendo un’operazione mediatica: tenta anche di frenare la crescita della Cina, mettendo i bastoni tra le ruote del suo modello sociale, oltre che economico. Una strategia rischiosa, destinata ad avere conseguenze pesanti per tutti, visto il peso ormai raggiunto dalla Cina «fabbrica del mondo», ma non priva di motivazioni legittime: tante sono le distorsioni dell’economia di mercato e le vere e proprie illegalità usate per decenni dalla Cina per avvantaggiarsi nella competizione sui mercati internazionali. Dai dazi, alle manipolazioni della valuta, dallo sfruttamento illecito di tecnologie altrui alle imprese formalmente private ma in realtà sussidiate dallo Stato e al servizio del Partito comunista cinese. Fino alle aziende straniere costrette a cedere la loro tecnologia o a violare diritti politici e umani (accettando sistemi di censura o di delazione) per poter lavorare nel mercato cinese, il più vasto del mondo.
Siamo a una nuova guerra fredda, stavolta tecnologica? Forse il paragone con quella con l’Urss è eccessivo: allora tra Occidente e sistema sovietico c’erano pochi rapporti mentre oggi le economie di Cina e Usa hanno un elevato grado di interdipendenza. Ma le armi della guerra commerciale sono comunque potenti: quella lanciata da Trump ha già ridotto di un quarto il valore della Borsa cinese e fatto calare sensibilmente il tasso di crescita del Paese. Il regime di Pechino si regge su un patto sociale che promette ai cittadini più benessere e libertà di viaggiare e arricchirsi in cambio della rinuncia alla democrazia e a molti diritti politici. Cosa accadrà se, con l’arresto della crescita e un aumento della disoccupazione, verrà meno il pilastro centrale di quel patto non scritto? Per Xi questa può essere una minaccia mortale. Che non deve venire più dal solo Trump se, come notava ieri sul Corriere Danilo Taino, da qualche tempo i grandi investitori internazionali hanno cominciato a scommettere più sull’India che sulla Cina.

La Stampa 28.12.18
Germania
Mancano soldati
Il governo apre al reclutamento degli stranieri
di Letizia Tortello


Sette anni dopo l’abolizione del servizio di leva obbligatorio, la Germania è a corto di uomini e la ministra della Difesa, Ursula von der Leyen, lancia una insolita «chiamata» tra i cittadini Ue, per rinforzare le fila dell’esercito. In particolare, Berlino guarda ai giovani polacchi, italiani e romeni, per irrobustire le forze armate federali. E apre le porte soprattutto ad esperti di intelligenza artificiale e personale medico o sanitario. È tutta una questione di numeri: in Germania vivono circa 255 mila polacchi, 185 mila italiani e 155 mila romeni tra i 18 ei 40 anni. Insieme costituiscono circa la metà di tutti gli stranieri della Ue nel Paese. Il governo scommette che, se almeno il dieci per cento di loro dimostrerà interesse per la «Bundewehr», questo significherà almeno 50 mila uomini in più per le truppe.
21 mila uomini in più entro il 2025
Dopo la riunificazione, l’esercito si è gradualmente ridimensionato, passando da 486 mila uomini nel 1990 a 168 nel 2015. Poi, gli investimenti sono ricominciati: gli attuali 182 mila uomini in uniforme dovranno crescere di 6500 unità in due anni. «Entro sette anni, vogliamo arrivare a 203 mila uomini», ha detto la ministra. La Germania si è impegnata a portare il suo bilancio per la Difesa dall’1,2% del Pil all’1,5% entro il 2025, come da promessa al presidente americano Donald Trump, che invece chiedeva di innalzare la soglia al 2%. «Dobbiamo guardare in tutte le direzioni», ha spiegato il capo di Stato maggiore della Bundeswehr, Eberhard Zorn.
Assumere cittadini comunitari è l’opzione messa in campo per risolvere il prima possibile la carenza di personale militare. L’idea non è completamente nuova in Europa: Belgio, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Danimarca e Lussemburgo hanno già aperto il loro esercito agli stranieri della Ue. Secondo i piani del governo, potrebbero essere reclutati solo i giovani che vivono nel Paese da anni e parlano fluentemente tedesco. Per loro, lo Stato preparerebbe una serie di agevolazioni e incentivi. Alcuni dei Paesi coinvolti, però, non hanno reagito bene alla proposta di Berlino. Primo fra tutti, il ministro degli Esteri polacco Jacek Czaputowicz, che alla rivista «Der Spiegel» dichiara: «Il servizio militare è strettamente legato alla nazionalità». E sollecita un rapido chiarimento a Bruxelles. Critiche anche dal governo bulgaro, che fa sapere di essere sotto del 20% degli uomini necessari per il proprio esercito. Ma un sondaggio tra i tedeschi rinforza la proposta del governo: il 43% dice che bisognerebbe investire di più nella difesa armata (nel 2017 era il 32%).

il manifesto 28.12.18
Cuba si gioca la sua Carta fondamentale
Riforme. Passate al vaglio una valanga di proposte di modifica, la nuova Costituzione è pronta per andare al referendum di febbraio. Dal testo sono saltate le nozze gay, ma secondo la promotrice Mariela Castro «non è un passo indietro». E "torna" il comunismo
di Roberto Livi


L'AVANA Decine di migliaia di assemblee e riunioni alle quali hanno partecipato – secondo le cifre ufficiali – 8 milioni di cubani (su una popolazione di poco più di 11 milioni) hanno prodotto una valanga di proposte di modifica al testo della nuova Costituzione che era stato varato da una commissione speciale guidata lo scorso luglio dall’ex presidente Raúl Castro. Dopo l’esame di tali richieste è stato prodotto il nuovo progetto di Carta fondamentale approvato la settimana scorsa dall’Assemblea nazionale, il Parlamento unicamerale cubano. La nuova Costituzione sarà posta a referendun popolare alla fine di febbraio.
IL TESTO APPROVATO prevede 229 articoli, quattro più di quello originario dal quale ne sono stati cassati tre e ne sono stati modificati 34. Manca l’articolo 68 che proponeva il «matrimonio egualitario», ovvero tra persone dello stesso genere e non «tra un uomo e una donna» – come prevede la Costituzione del 1976. Il nuovo testo aveva scatenato la protesta – anche con manifestazioni pubbliche – soprattutto delle Chiese evangeliche dell’isola, ma anche un solido appoggio da vari settori della popolazione. L’articolo era stato proposto da Mariela Castro, figlia minore di Raúl, e direttrice del Cenesex, un organismo che molto ha fatto e fa per promuovere i diritti Lgbti a Cuba.
La proposta di matrimonio gay aveva avuto un grande eco internazionale ed era stata di fatto la bandiera di riforme sociali che avrebbero dimostrato cambiamenti reali nell’isola, anche se il tradizionale machismo continua soprattutto in provincia. Il nuovo articolo parla di libero matrimonio tra coniugi.
SECONDO MARIELA CASTRO «non si tratta di un passo indietro», perché il testo «mantiene la possibilità che tutte le persone possano accedere all’istituzione matrimoniale». Inoltre, ha sottolineato come «elemento di novità le unioni di fatto che già avvengono senza tener conto della differenza di genere e che, secondo le statistiche, sono le più praticate nella nostra società». Anche il blogger gay comunista francisco Rodriguer, conosciuto come Paquito de Cuba, parla di un «compromesso accettabile».
SUL TEMA DOVRÀ DECIDERE la nuova legge in materia – il Codice di famiglia – in discussione da più di dieci anni. Ma è chiaro che una parte del movimento Lgbti cubano mastica amaro. E nonostante la difesa della figlia di Raúl, la difesa del matrimonio egualitario ora viene sbandierata dai piccoli gruppi di opposizione.
Vi è chi parla anche di una «cortina di fumo», ovvero di una proposta che era destinata a suscitare polemiche per evitare che queste si riferissero ad altri temi politici. Come quello del partito unico, il Pcc , che secondo l’articolo 5 – confermato nonostante proposte di cambiamento – costituisce la forza dominante del paese e la base dello «Stato socialista di diritto» , o al controllo statale di tutti i mezzi di informazione.
ANCHE L’ELEZIONE DIRETTA del presidente della Repubblica – eletto dall’Assemblea nazionale tra i suoi membri – come pure di altri organi regionali e provinciali non è stata accettata. Rimasta lettera morta anche la richiesta di modificare la nuova legge per gli investimenti – che amplia lo spazio e le garanzie per il capitale straniero – con la possibilità che anche i piccoli e medi imprenditori cubani possano investire in progetti statali.
RITORNA INVECE IL RIFERIMENTO al comunismo – non previsto dal primo testo – che assieme al socialismo fornisce «la sola garanzia» affinché «l’essere umano raggiunga la piena dignità». E anche la conferma dello Stato socialista di diritto come regolatore del mercato e della pianificazione dell’economia, che però convive con la propietà privata.
Il presidente cubano, Miguel Diaz-Canel e il suo predecessore Raúl Castro in aula lo scorso 21 dicembre
La riforma costituzionale rafforza varie salvaguardie della società in materia di diritti umani, sostiene il sociologo Aurelio Alonso, anche se vi sono zone d’ombra come l’articolo 95 che protegge la creazione artistica solo quando sia conforme «ai valori socialisti», facendo temere una possibile fiammata di «realismo socialista». Inoltre, la riconferma del partito unico, senza concrete garanzie di un controllo popolare e senza una chiara distinzione tra partito e Stato, lascia aperto il problema di una burocrazia parassitaria.

il manifesto 28.12.18
Onu, la Palestina torna sul tavolo del Consiglio di Sicurezza
Il ministro degli esteri Riad al Malki a metà gennaio presenterà di nuovo la richiesta per il riconoscimento pieno della Palestina. Il veto Usa con ogni probabilità farà naufragare ancora una volta le aspirazioni palestinesi
di Michele Giorgio


Dopo una pausa di alcuni anni, riprende all’Onu la battaglia per il riconoscimento pieno della Palestina, che dal 2012 è già Stato non membro. Il ministro degli esteri dell’Anp, Riyad al Malki, ha annunciato che presenterà la domanda durante la discussione trimestrale del Consiglio di Sicurezza prevista a metà gennaio. Il percorso come in passato è in salita. Per poter concedere lo status di membro effettivo, almeno nove paesi dovrebbero votare a favore e nessuno dei cinque Stati permanenti del CdS (Usa, Russia, Cina, Francia e Gb) deve porre veto. È improbabile che ciò accada. Gli Stati uniti, stretti alleati di Israele, sono contrari a questa mossa che permetterebbe ai palestinesi di sottrarsi all’obbligo del negoziato bilaterale con Israele che da 25 anni a questa parte non ha prodotto alcun risultato concreto, se non quello di impedire proprio la proclamazione dell’indipendenza palestinesi nei Territori occupati di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est. Senza dimenticare che nel frattempo Israele continua la colonizzazione che rende impossibile la realizzazione della soluzione a Due Stati (Israele e Palestina).
L’ambasciatore di Israele all’Onu, Danny Danon, ha avvertito che farà di tutto per fermare l’iniziativa palestinese, aggiungendo che oltre all’Amministrazione Trump anche alcuni membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza, come la Germania e la Repubblica Dominicana, dovrebbero schierarsi contro i palestinesi.
Intanto il primo gennaio la Palestina assumerà ufficialmente la presidenza del “Gruppo dei 77 e la Cina”, fondato nel 1964 e attualmente il più grande blocco dei paesi in via di sviluppo alle Nazioni unite. Ad ottobre l’Assemblea Generale aveva votato a stragrande maggioranza – con il voto contrario di Israele, Australia e Stati uniti – per consentire ai delegati della Palestina di poter patrocinare proposte ed emendamenti, formulare dichiarazioni e sollevare mozioni procedurali.

il manifesto 28.12.18
Budapest, il difficile risveglio
Scaffale. «L'altra Ungheria» di Massimo Congiu, per Bonomo editore. Undici conversazioni con altrettante personalità politiche e culturali ungheresi per indagare tra i solchi della società
di Cristina Carpinelli

Undici personalità ungheresi provenienti da diversi settori della vita politica e culturale sono state intervistate da Massimo Congiu nel suo volume Un’altra Ungheria (Bonomo, pp. 145, euro 15). Le conversazioni corrono lungo un filo conduttore, evidenziando contraddizioni e difficoltà che affliggono la società ungherese, ostaggio – per gli intervistati – di un sistema autoritario o, per dirla alla Orbán, di una «democrazia illiberale», che – se dal punto di vista semantico è un ossimoro – empiricamente rappresenta una realtà in crescita. Per il premier ungherese, la democrazia illiberale costituisce l’unico sistema che rende grandi le nazioni e che si pone come modello alternativo a quello liberale occidentale, il quale ha pervaso il mondo attraverso i percorsi della globalizzazione, a partire dal prototipo statunitense, e che facendosi promotore del multiculturalismo, dell’immigrazione e di differenti modelli familiari ha prodotto una degenerazione delle società occidentali.
ZSÓFIA BÁN e Júlia Vásárhelyi descrivono un paese preda di clan oligarchici filogovernativi, che ne fanno uno «stato-mafia», simile a quello russo di Putin. Il controllo pressoché totale sugli organi di propaganda e sui mass media, fa sì che il ricorso ai metodi della «guerriglia culturale», con l’uso di mezzi di comunicazione insoliti, possa diventare una realtà. Più di un intervistato ipotizza la reintroduzione dei «samizdat» (dattiloscritti che in epoca sovietica venivano fatti circolare clandestinamente) quale informazione alternativa a quella ufficiale. Mária Vásárhelyi ci informa che in Ungheria, dopo le ultime elezioni, è nato il movimento «Stampa anche tu», che si basa, appunto, su una tecnica simile a quella dei samizdat.
Raggiungere l’opinione pubblica con un’informazione chiara è l’antidoto giusto per risvegliare una società civile apatica e qualunquista, soprattutto quella delle campagne, dove parole come Ue, stato di diritto, libertà di stampa sono concetti astratti, incomprensibili, che suscitano addirittura ilarità. Non mancano certo segni di risveglio ma sono piuttosto deboli e circoscritti alla capitale, Budapest. I giovani protestano se devono pagare mille fiorini di tassa per Internet, mentre vanno all’estero quelli più colti e critici verso il sistema.
L’OPPOSIZIONE POLITICA è considerata debole, priva di un programma convincente e incapace di dar vita a una rete nazionale, come ha fatto, invece, il partito di Orbán, Fidesz, con l’idea di creare i circoli cittadini. Né i due partiti d’opposizione emergenti, l’ironico e sarcastico, Cane a due code, e quello dei giovani della classe media borghese di Budapest, Momentum, che guarda con simpatia alle riforme di Macron, hanno reali chance di successo. Per gran parte degli ungheresi le forze liberal-socialiste sono state, insieme alle banche straniere occidentali, responsabili della crisi finanziaria del 2008, per via dei prestiti incautamente concessi a circa un milione di famiglie ungheresi, che avevano contratto mutui per la casa a tassi variabili e in moneta straniera (franchi svizzeri), poiché i tassi d’interesse erano tre volte inferiori rispetto ai mutui in valuta nazionale. Tuttavia, con la crisi, la moneta elvetica era salita alle stelle, il fiorino era crollato, e c’era stata di conseguenza un’impennata dei tassi di cambio.
MOLTE DI QUESTE FAMIGLIE non erano state più in grado di rimborsare i mutui. A quei tempi, il governo socialista per evitare la bancarotta aveva chiesto al Fmi un piano di aiuti di 20 miliardi di euro, in cambio di misure di rigore. Pungente è la critica verso una classe intellettuale «autoreferenziale», incapace di elaborare un linguaggio innovativo in grado di arrivare al cuore della gente, e pervasa da un sentimento di frustrazione e impotenza.
Come afferma Péter Magyar, corale è l’idea che sul breve e medio periodo la situazione non cambierà, poiché la spinta nazional-populista non si è esaurita ed è una tendenza mondiale. Lo scontro è tra forze illiberali (i «veri ungheresi») e liberali («i non ungheresi»), e non tra ricchi e poveri.
Fa riflettere, tuttavia, quello che afferma, László Kordás, secondo cui il sindacato non è ben visto né dal mondo illiberale «corporativista», né dal mondo liberale paladino delle libertà dei cittadini, ma che poi affida tutto il resto al mercato. Ci vorrà, come sostiene Congiu in conclusione del suo libro, un paziente e tenace investimento in democrazia e solidarietà per ribaltare lo stato delle cose.

La Stampa 28.12.18
Tra morti, feriti e violenze
Il Bangladesh scivola verso l’autoritarismo
di Francesco Radicioni


La strategia è consolidata: una ventina di giovani con volto coperto, mazze e bastoni in mano, attacca le manifestazioni dell’opposizione, malmenando gli attivisti del Jatiya Oikya Front.

Mentre mancano pochi giorni alle elezioni generali del 30 dicembre per il rinnovo del parlamento di Dacca, nelle strade del Bangladesh è tornata a infuriare la violenza politica. «Non ho mai visto una situazione simile in vita mia» dice, nella sede del Bangladesh Nationalist Party, Moshihour Rahman, dirigente della principale forza d’opposizione del Paese dell’Asia meridionale. Mentre i feriti sono centinaia e le vittime almeno otto, il Bnp denuncia «il clima di paura» creato dall’amministrazione e dalla polizia per spingere gli elettori a non andare a votare. «Al di là di chi vincerà le elezioni - aggiunge Moshihour Rahman - a perdere sarà il Bangladesh: senza più diritti costituzionali e libertà democratiche». Se l’opposizione dice di non poter condurre la propria campagna elettorale, in realtà a Dacca c’è un forte fermento politico.
Nelle polverose e caotiche strade intorno alla Moschea Baitul Mukarram spuntano dal nulla i cortei dei sostenitori di un partito. Nella tentacolare città vecchia i manifesti elettorali assomigliano a festoni appesi per animare i vicoli fatiscenti. Anche nel quartiere diplomatico di Gulshan i megafoni sui risciò gracchiano incessanti il nome di un candidato. Solo osservando con attenzione si nota che quasi sempre c’è il simbolo della Lega Awami al governo: una barca tradizionale del Bangladesh. Pochi si aspettano una sorpresa dalle urne.
Nessuna sorpresa
Stando ai sondaggi, la coalizione della Lega Awami di Sheikh Hasina potrebbe raccogliere il 60% dei consensi. Capo del governo e figlia dell’eroe del nazionalismo bengalese Mujibur Rahman, Hasina è già stata primo ministro dal ’96 al 2001, poi ininterrottamente negli ultimi dieci anni. I risultati delle sue amministrazioni sono evidenti: l’economia è cresciuta a una media del 6%o l’anno, milioni di bengalesi stanno uscendo dalla povertà, il Paese è un sempre più importante hub nelle catene globali del valore del tessile.
Luci ed ombre
Nell’ultimo anno davanti alla comunità internazionale Hasina ha presentato se stessa come «la madre dell’umanità» dopo che il Bangladesh ha accolto quasi un milione di rifugiati Rohingya in fuga dalle violenze in Myanmar. Come però denunciano le organizzazioni internazionali, mentre si restringono gli spazi per la libertà di espressione, il Bangladesh sta lentamente scivolando verso l’autoritarismo. Leggi draconiane sulla stampa, omicidi extra-giudiziali e sparizioni forzate, mentre dall’inizio di novembre sarebbero oltre 10 mila i candidati e gli attivisti del Bnp e del movimento islamista Jamaat-e-Islami finiti in manette. Uso politico della giustizia che secondo l’opposizione è diventato ancor più evidente dopo il processo a Khaleda Zia - due volte primo ministro e storica leader del Bnp - condannata negli ultimi mesi a diversi anni di carcere per corruzione. Con la leader dell’opposizione dietro le sbarre, si pensava che - come già avvenuto all’inizio del 2014 - il Bnp avrebbe boicottato le elezioni, facendo temere un nuovo bagno di sangue paragonabile a quello di cinque anni fa. Invece, a sorpresa il principale partito d’opposizione si è unito a una composita alleanza guidata da Kamal Hossain: classe 1937, avvocato e tra gli estensori della costituzione del Bangladesh, ma soprattutto ex ministro della Lega Awami passato nelle fila degli avversari di Hasina.
Il peso geopolitico
Nella comunità diplomatica di Dacca cresce la preoccupazione su cosa avverrà dopo il voto di domenica, anche perché il Bangladesh ha un posto sempre più rilevante nelle mappe della geopolitica mondiale: quasi 170 milioni di abitanti, ottava nazione al mondo per popolazione e terzo più grande Paese musulmano. A pesare c’è anche la posizione geografica: affacciato sul Golfo del Bengala e snodo delle rotte commerciali tra Cina, India e Sud-Est asiatico. Se l’amministrazione di Donald Trump ha scelto la retorica dell’Indo-Pacifico libero e aperto per contenere l’espansione della Cina nella regione, il Bangladesh è affamato degli investimenti e delle infrastrutture della Repubblica Popolare. Il Paese dell’Asia meridionale è anche lo snodo fondamentale del corridoio Bangladesh-Cina-India-Myanmar - lungo la leggendaria Burma Road - che consentirà l’integrazione economica tra Calcutta e Kunming, capitale della provincia cinese dello Yunnan. Dacca spera che il collegamento terrestre tra i due più popolosi Paesi del mondo possa portare in Bangladesh centinaia di milioni di dollari in investimenti. Finora l’amministrazione di Sheikh Hasina ha mantenuto un fragile equilibrio tra Cina, India e Stati Uniti. «Vogliamo investimenti e cooperazione da chiunque ce li offra», ha detto la primo ministro.

Il Fatto 28.12.18
Silenzio, c’è Vermeer
Come la luce su oggetti, vestiti e volti svela mondi interiori
“La ragazza con l’orecchino di perla” – Tutti pazzi per le opere di Johannes Vermeer
di Tomaso Montanari


Ma, lasciando da parte i buffoni e gli abusivi, si tratta di una presenza o molto specifica (cioè legata al ruolo di ‘esperti’ di un tema di attualità: una mostra, una distruzione, una scoperta, etc. etc.), o connessa al dibattito sullo stato del patrimonio culturale. Molto più raro, anzi rarissimo, è il tentativo di mettere in connessione la ricerca scientifica della storia dell’arte e un discorso rivolto al più largo pubblico. Ma è invece vitale che la ricerca possa essere messa a disposizione di quell’opinione pubblica colta dalla cui esistenza dipende, tra l’altro, la salvezza del patrimonio artistico italiano: che mai – dopo la guerra – è stato in pericolo come oggi, quando una classe politica inconsapevole quanto rapace sta sradicando la storia dell’arte dalle scuole, trasformando i musei in luna park asserviti alla politica, stroncando le strutture che dovrebbero tutelare il territorio. E solo chi da anni frequenta un tema, un artista, un secolo con gli strumenti agguerriti dello specialista può davvero raccontarlo a tutti gli altri in un modo ‘semplice’. Perché solo la chiarezza di idee porta alla chiarezza delle parole.
È per questo che non potrei parlare per ore di Giotto o Picasso in tv: semplicemente non ne sarei capace. Ho invece provato a farlo sul ‘mio’ Seicento, grazie a Silvia Calandrelli, direttrice di Rai Cultura, e al suo modo di intendere il concetto di ‘servizio pubblico’: ed è così che sono nate le otto puntate della Libertà di Bernini (2015), le dodici della Vera natura di Caravaggio (2016-2017) e ora le quattro dei Silenzi di Vermeer, cui ne seguiranno a febbraio altre quattro su Velázquez (tutte con la regia sapiente di Criscenti).
Credo sia stata la prima volta che nella televisione italiana si sono dedicate a singoli artisti intere serie: una scelta che permette di recuperare la venerabile formula della monografia d’artista. La qualità della fotografia, l’indugio su ogni singola opera (e nel caso della scultura anche sul contesto), la lettura critica completa della bibliografia e la sua restituzione (seppur necessariamente parziale e filtrata dal giudizio dell’autore) sono i punti cardine di questo progetto che appare agli antipodi del ricco mainstream in fatto di arte (per tacere delle prove imbarazzanti che un ex protagonista della politica ci sta offrendo), e che esce fin qui premiato dagli ascolti (in relazione alla sede, ovviamente). Il progetto tiene conto del fatto che la fruizione solo in piccola parte sarà quella tradizionalmente televisiva (prima visione e poi repliche), ma avverrà soprattutto sulla rete, grazie al sito Raiplay che consente di vedere, rivedere, antologizzare, saltare o al contrario vedere tutto di fila. Una modalità che ha più a che fare con il rapporto attivo che si ingaggia con un libro che non con la passività imposta dalla televisione di un tempo.
Se la scelta di Bernini sgorgava direttamente dalla mia ventennale ricerca, e quella di Caravaggio dal desiderio di ‘disturbare’ la narrazione dominante su un feticcio che si avvia a fare la fine di Leonardo o Van Gogh (divorati vivi da un marketing svuotante) la decisione di presentare agli spettatori italiani Vermeer e Velázquez nasce dall’attualità più pressante.
In un momento di ripiegamento culturale avvilente, in cui la parola d’ordine è ‘prima gli italiani’ e in cui l’Europa è un cumulo di macerie culturali e politiche, è forse utile allargare la focale.
Johannes Vermeer (1632- 1675) è un artista vissuto sempre nella sua piccola Delft: nel cuore di una giovanissima Repubblica ‘democratica’, le Province Unite olandesi, che stava al centro di una straordinaria rete di commerci globali che congiungevano il Brasile all’Africa alla Cina e al Giappone (su questo si può leggere lo splendido libro scritto da uno storico dell’economia canadese che studia la Cina: Timothy Brook, Il cappello di Vermeer, Einaudi).
Il nostro pittore era un cattolico in un paese protestante in lotta mortale contro la cattolicissima Spagna. Un pittore che doveva sopravvivere in un piccolo paese capace di produrre in un secolo qualcosa come nove milioni di quadri: e infatti Johannes morì povero e pieno di debiti. Un pittore che venne probabilmente mai in Italia ma la cui opera non sarebbe neppure concepibile senza la rivoluzione di Caravaggio.
Un pittore del silenzio, capace di chiudere come in lucide gocce d’ambra scene di interno nelle quali apparentemente non succede nulla: ma in cui l’incidenza della luce su oggetti, volti e vestiti svela il mondo interiore dei protagonisti. Protagoniste, in verità: Vermeer è un pittore di donne, di figure femminili cui viene conferita una dignità e un’autonomia morale ed esistenziale prima impensabili.
Basterebbero questi pochissimi tratti a far capire l’alterità della pittura, e della stessa condizione umana, di Vermeer rispetto all’Italia di oggi e alla nostra storia dell’arte, trionfalmente legata al potere monocratico: e forse abbiamo proprio bisogno di spalancare le finestre su forme, pensieri, situazioni radicalmente altre da noi, rispondendo a questa imbambolata autarchia con l’invito a conoscere e ad amare ciò che è diverso, eppure capace di parlare di noi.
“Dicono che cercasse la luce”, scriveva di Vermeer Giuseppe Ungaretti (introducendo, nel 1967, il volume a lui dedicato da quel grande progetto culturale che sono stati i Classici dell’arte della Rizzoli): la scommessa è che un po’ di quella luce riesca a filtrare in qualche casa italiana. Perfino attraverso lo schermo della televisione.

Corriere 28.12.18
La nuova prefazione dello psichiatra al primo volume delle opere, in uscita oggi con il quotidiano
L’Io ha sempre bisogno di un Noi
La mente umana secondo Andreoli
di Vittorino Andreoli


Senza un riconoscimento dell’altro la nostra anima non può accendersi
Una relazione può trasformare la vita, anche solo a partire da un sorriso
Il libro I segreti della mente, con cui apre questa collana, rappresenta una metamorfosi nella mia storia di psichiatra. Se fino al 2012 la mia attenzione e dedizione professionali erano rivolte al «malato di mente» (ai «miei matti»), da allora sento il fascino dell’uomo senza aggettivi. Non solo l’impegno a capirlo dentro la società, ma il bisogno di tracciare delle linee per poterlo meglio indirizzare a una esistenza più serena e più equilibrata.
Questo allargamento della visione non dimentica certo la follia, ma la considera una condizione che non ha nulla di fatale, un evento che proprio in questa nuova percezione è possibile evitare o quantomeno contenere.
Il termine «uomo» definisce una realtà, un «oggetto» che rimanda abitualmente al campo proprio della filosofia, intesa come disciplina teorica. Ma io credo che vi si debba aggiungere anche una dimensione molto concreta, centrata sui bisogni che ogni individuo esprime. I bisogni riportano al necessario, senza il quale l’uomo avverte l’impossibilità di vivere e arriva a immaginare la vita nella morte.
Non so concepire l’uomo se non come colui che ha bisogno di un altro uomo, e sono giunto a percepire la mia professione come uno strumento per aiutare a vivere, fondandomi sulle conoscenze scientifiche e sulla mia esperienza — maturata in tanti anni di studio e di clinica — della condizione umana, che comporta l’alternarsi di serenità e angoscia, gioia e disperazione, accettazione o rifiuto da parte degli altri uomini.
Credo sia possibile costruire una comunità in cui ciascun uomo possa considerare l’esistenza una esperienza straordinaria.
Non mi sono mai dedicato all’elaborazione di grandi teorie, non sono mai stato affascinato dalle correnti filosofiche o teologiche; mi sono sempre sentito, invece, coinvolto dai bisogni che avverto dentro di me e che percepisco nel profondo di ciascun uomo. Mi sono sempre dedicato con forza a operare, ad agire, per fare in modo che i bisogni dell’uomo possano essere soddisfatti; e sono affascinato anche dalle dinamiche che permettono di dare risposte a tali bisogni, sentendosi gratificati e non frustrati.
Non so come si possa cambiare una società, renderla più umana, ma so di certo che è possibile che un uomo, un singolo uomo, domani possa essere differente da oggi e guardare al mondo come a un giardino fiorito e non come a un deserto. Basta talora un incontro, il sentire di non essere soli perché abbandonati, il percepire che è entrata nella nostra vita una persona per la quale non solo esistiamo, ma siamo importanti.
Una relazione trasforma la vita. E non penso alle favole in cui si incontrano le fate o i grandi amori, ma ai rapporti di amicizia, persino a quelli di solidarietà. Non conto sui colpi di fortuna, ma su storie che partono da un sorriso, da un gesto d’aiuto, dalla consolazione, dalla speranza.
So che la mente dell’uomo può accendersi e orientarsi in un mondo che, anche se difficile, le offre qualche forma di riconoscimento. E allora si sente di appartenere al mondo. Ed è come percepire nel buio una luce che, sia pure tremula, diventa essenziale.
Non riesco, davanti al dolore, a elaborare semplicemente una teoria. Sento di dover fare qualcosa per alleviarlo, perché conosco la grandezza dei gesti che, talora, hanno allontanato il mio dolore.
Prima di irrigidirsi in patologia, la sofferenza lascia, nella nostra vita quotidiana, segnali, avvertimenti, a cui è importante porre attenzione, perché esprimono bisogni, in forma magari mascherata, che rischiano, più o meno intensamente, di evolvere e trasformarsi in sintomi.
Se l’insieme di più sintomi configura un disturbo della mente, un insieme di segnali definisce un disagio, una condizione che esprime lo sforzo di interagire con il mondo delle relazioni. La fatica di vivere avvertendo che i propri bisogni non sono, come si vorrebbe, soddisfatti.
Il bisogno di ricevere è dominante per un bambino, ma con la maturità non è più abbastanza. Subentra, nell’età adulta. il bisogno di avere un senso per gli altri, il bisogno di vivere e dare, particolarmente nel vecchio solo.
Tra i «segreti della mente» si impone la necessità che ciascuno ha dell’altro da sé. Con un’espressione diversa si potrebbe dire che l’io ha bisogno del «noi»; è l’altro che risponde ai nostri bisogni: la dimensione individuale acquista il suo significato umano quando contiene la risposta a un bisogno dell’altro. Così si costruisce una rete che unisce due individualità in una nuova composizione da cui emerge lo star bene di entrambi.

Repubblica 28.12.18

Ovidio, il poeta che cantava l’amore contro il potere
di Raffaella De Sanctis


Da domani con "Repubblica" il libro di Nicola Gardini sul grande autore delle "Metamorfosi" e dell’"Ars amatoria". Che, esaltando l’erotismo e il piacere, pagò con l’esilio la propria spregiudicatezza inventiva
Provate a immaginare Ovidio come un cineasta, un filmaker che mette in scena i nostri desideri e le nostre paure. Libero e gioioso. «Aveva il coraggio di costruire veri e propri teatri dell’inconscio», dice Nicola Gardini. Parlava alle donne di erotismo, esaltava l’adulterio come fonte di piacere, lo divertivano gli spergiuri amorosi, le eterne metamorfosi dell’esistenza, i sentimenti contrastanti.
Il mondo letterario di Ovidio è un pozzo di sorprese meravigliose.
Dopo il grande successo di Viva il latino e in occasione del bimillenario della morte del grande poeta nato a Sulmona nel 43 a.C. e morto in esilio in Romania, a Tomis (odierna Costanza) nel 17 d.C., domani arriva in edicola con Repubblica il libro di Nicola Gardini Con Ovidio.
La felicità di leggere un classico
(9,90 euro più il prezzo del giornale): un viaggio appassionante nell’immaginario e nei luoghi ovidiani.
Gardini, professore di letteratura italiana e comparata all’università di Oxford, nel suo saggio si muove tra Sulmona, Roma e la Romania, attraversando e raccontando le opere e la vita di Ovidio: le poesie d’amore; l’incredibile Ars amatoria, un manuale di seduzione e pragmatica del desiderio che andrebbe tenuto sul comodino; le Eroidi, tra le più belle lettere d’amore di tutti i tempi, scritte da donne abbandonate agli uomini che le hanno condannate a vivere un’esistenza ai margini; e poi le opere dell’esilio, quelle in cui Ovidio racconta la sua vita lontano dai fasti. «Quell’esilio fu uno degli eventi più punitivi dell’impero augusteo – racconta Gardini. - Si eliminava l’uomo famoso, il poeta diventato scomodo, il grande cantore dell’amore, il più immaginifico di tutti».
In realtà, nonostante una condanna morale per l’Ars amatoria, la vera ragione dell’allontanamento di Ovidio non è certa. Lo stesso poeta ha parlato di un error, una disattenzione, un inganno. Ma quale errore aveva mai commesso? Forse aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere, forse era stato testimone di una scena proibita, come successe ad Atteone quando senza premeditazione sorprese Diana al bagno nuda. Gardini crede che il motivo dell’allontanamento sia più profondo: «Ovidio era scomodissimo ideologicamente, incarnava in epoca augustea la voce della dissidenza, diceva cose che il potere non sopportava». Per questo amava tanto il mito di Medea, perché Medea rappresenta la donna che pur sapendo di sbagliare non cede agli ordini paterni e sceglie di seguire l’amore.
Certo, la concezione dell’amore di Ovidio infastidiva, non poteva passare inosservata. Osava troppo, entrava nelle famiglie scombinandole, esaltava il piacere, addirittura l’orgasmo: «Raccontava l’amore libero negli anni della repressione augustea, arrivando a dettare le leggi per praticare l’adulterio. Inoltre era un autentico femminista, perché riconosceva il diritto al piacere anche alle donne», fa notare Gardini.
Questa è Saffo, mentre in sogno immagina i baci di Faone e le carezze reciproche: «Per pudore mi fermo, ma tutto avviene, godo, / e non posso evitare di bagnarmi» (Eroidi). Ma, come spiega Gardini, non era solo la spudoratezza a irritare: «Ad essere sovversivo era il principio stesso delle Metamorfosi, l’idea di una continua trasformazione del cosmo. Quella concezione significava che anche l’impero era destinato a passare».
Ovidio era affascinato dall’eterno gioco delle mutazioni, attraverso i miti antichi raccontava quello che solo i sogni o le fantasie più allucinate possono concepire: ad esempio come un essere umano possa trasformarsi in pianta (Dafne), in roccia (Niobe) o in albero (le Eliadi, sorelle di Fetonte). Ma dietro questo teatro illusionista in fondo diceva una cosa semplice, una cosa che il potere non vorrebbe mai sentire.
Gardini la sintetizza efficacemente così: «Che niente dura, niente è come appare.
Sondava i limiti dell’umano, aveva il coraggio di ribaltare le prospettive. Non è stato solo il poeta giocoso, ma anche il poeta esule, il cittadino romano che si ritrova a vivere ai confini dell’impero». Un’esperienza, spiega Gardini, che lo spingerà a scoprire cosa significhi essere stranieri, prima di tutto a sé stessi: «È il poeta che ha scoperto l’alterità. Dopo aver cantato le bellezze di Sulmona e di Roma, arriverà nelle ultime opere, i Tristia e le Epistole, a scoprire la landa glaciale in cui l’uomo è straniero. Si deve a lui l’invenzione del paesaggio desolato, il primo abbozzo di waste land della letteratura occidentale».
Protagonista quest’anno di una mostra ancora in corso alle Scuderie del Quirinale, Ovidio ha conquistato ammiratori nel corso dei secoli. È tra gli autori antichi il più saccheggiato, il classico dei classici. Il suo segreto? «Non è un poeta per iniziati – dice Gardini -, parla a tutti». E a tutti racconta, molto prima degli incubi di Kafka, che siamo personaggi di una realtà incerta. Ma questo è il bello.


 https://spogli.blogspot.com/2018/12/il-fatto-28.html


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