Il Fatto 27.12.18
Il Papiro smaschera anche i giornalisti
di Tomaso Montanari
“Ora
è certo: il papiro di Artemidoro è falso”; “È ufficiale: il papiro è un
falso”; “La ‘sentenza’ della Procura di Torino mette fine alla querelle
tra i difensori dell’antichità dell’oggetto (in particolare Claudio
Gallazzi, Bärbel Kramer e Salvatore Settis) e Luciano Canfora”; e
ancora: “La falsità del papiro… resterà nella storia degli studi, e non
solo: in quella della cultura, e anche, forse, della politica”: e via
così, in un crescendo fragoroso di tromboni.
La lettura degli
articoli dedicati al caso Artemidoro è terribilmente deprimente: perché
induce a credere che il giornalismo italico abbia un problema più serio
del collateralismo con la politica, e perfino delle concentrazioni in
mano a editori in flagrante conflitto di interessi. Quel problema è la
spontanea rinuncia all’essenza stessa del mestiere: che è la lettura
critica, obiettiva e approfondita delle notizie. Qua la notizia era un
testo: il “papiro” di 33 pagine con il quale il procuratore della
Repubblica di Torino, Armando Spataro, ha chiesto e ottenuto dal gip
l’archiviazione di un reato a suo avviso sussistente, ma prescritto,
cioè la truffa che sarebbe stata perpetrata dal mercante armeno Serop
Simonian, che il 26 luglio 2004 vendette alla Fondazione San Paolo il
papiro di Artemidoro. Ebbene, non occorreva essere papirologi, e nemmeno
esperti di procedura penale, per farsi alcune domande su questo
curiosissimo testo.
La prima riguarda la sua natura. In un Paese
in cui nemmeno Erode sarebbe ritenuto colpevole di infanticidio prima
del terzo grado di giudizio, qua tutti hanno parlato di “sentenza”
tombale prima non del terzo, ma del primo grado di giudizio. È vero: la
procedura impone questa (discutibile) prassi in caso di prescrizione. Ma
l’enfasi mediatica impressa dalla Procura alla vicenda ha di fatto
trasformato in un verdetto finale una convinzione del pm che, se fosse
arrivata in tempo utile, avrebbe potuto essere smontata, contraddetta e
falsificata in anni di dibattimenti pubblici, perizie, prove e
deposizioni. E solo una stampa radicalmente acritica può prestarsi a
infangare le reputazioni coinvolte basandosi su un documento in tutti i
sensi parziale: perché di parte (l’accusa), e perché parte minima di
quello che chiamiamo processo. Insomma: ammesso e non concesso che la
verità scientifica si possa accertare in tre gradi di processo, certo
non la si può accertare in Procura, prima di quei tre gradi.
La
seconda riguarda le “prove”. Su questo giornale prima lo stesso Settis e
poi il filologo classico Filippomaria Pontani sono entrati nel merito:
notando, tra l’altro, che il pm ignora i numerosissimi articoli
scientifici che dimostrano l’autenticità del papiro e invece accoglie
solo il parere dei sostenitori della falsità, il cui insieme coincide –
con poche o nulle eccezioni – con la cerchia accademica di chi ha
presentato l’esposto. Dal resto dei giornali nessun lettore avrebbe
potuto ricavare che nemmeno un papirologo (dicasi uno) ha sostenuto la
falsità del manufatto. Oltre alla selettività delle “prove”, c’è poi la
loro tenuta oggettiva. Un punto fondamentale riguarda l’autenticità
degli inchiostri. Spataro non cita il “fascicolo 2010 della rivista
scientifica americana Radiocarbon, che li definisce pacificamente
compatibili con quelli usati nel I-II secolo d.C.” (Pontani). Racconta
invece che una fonte esterna al ministero per i Beni culturali gli
avrebbe riferito che le analisi in corso presso gli istituti
ministeriali “sembrano supportare la tesi del falso”. Ora, perché non
solo il procuratore, ma nessun giornalista ha fatto un colpo di telefono
al ministero, per toccare con mano? Ebbene, io l’ho fatto: e Gino
Famiglietti, direttore generale delle Belle Arti, mi ha risposto, dopo
aver assunto informazioni, che nessun risultato è ancora disponibile. E
dunque non sarà la Procura ad avere qualche problema con le fonti?
La
terza domanda riguarda la verosimiglianza della ricostruzione della
Procura. Visto che il falso sarebbe ottocentesco, il reato di truffa
sarebbe provato dalla falsificazione delle foto del Konvolut, l’ammasso
che conteneva il papiro. Ora, non solo quelle foto sono ritenute vere da
tutti gli studiosi non legati a Canfora, ma esse non furono fornite
alla Fondazione all’atto dell’acquisto (emersero quattro anni dopo, nel
2008). Ammesso e non concesso che siano false, quali elementi permettono
di considerarle prova della truffa? Nemmeno una riga prova ad
argomentare su questo punto cruciale.
Infine, se qualche cronista
di giudiziaria avesse letto il testo della Procura, avrebbe forse notato
che Spataro chiede l’archiviazione ai sensi dell’articolo 408 del
codice di procedura penale: che si applica quando “la notizia di reato è
infondata”. Potenza del copia-incolla, o del lapsus freudiano? In ogni
caso, il passaggio più felice del papiro di Spataro.