Il Fatto 21.12.18
Cold War
La Guerra Fredda non è mai stata così struggente –
di Federico Pontiggia
Che
non si muore per amore è una gran bella verità? Comunque la pensiate,
in sala c’è un film che fa per voi, Cold War del polacco Pawel
Pawlikowski. All’ultimo Festival di Cannes ha conquistato il premio per
la migliore regia; ai recenti European Film Awards ha trionfato con
cinque statuette: film, regia, sceneggiatura, attrice e montaggio; ai
prossimi Oscar è l’unico a poter impensierire Roma di Alfonso Cuarón
nella categoria film in lingua straniera. Entrambi in bianco e nero,
entrambi girati splendidamente, ma uno solo empatico, romantico,
dolente: Cold War, che della Guerra Fredda offre la prospettiva meno
glaciale, più appassionata.
Serve a ricordarci qual è
il grande rimosso del Terzo millennio, ovvero a testimoniare che cos’è,
che cosa dovrebbe essere l’amore, che Pawlikowski mutua dai propri
genitori, Wiktor e Zula come i protagonisti, morti nel 1989 prima della
caduta del Muro, per 40 anni insieme a prendersi, mollarsi e riprendersi
da una parta all’altra della Cortina di Ferro. Ha rammentato il
regista, “erano tutti e due persone forti e meravigliose, ma come coppia
un disastro totale”. Ecco, amori e altri disastri, senza melassa e con
mistero, aggrappati a un’idea, “che tu veda qualcuno e il resto del
mondo scompaia, oggi impossibile da sostenere”. Il pianista Wiktor
(Tomasz Kot, bravo) e la cantante e danzatrice Zula (Joanna Kulig,
superba) travalicano epoche e confini, con un passo a due disperato e
ispirato, accorato e straziato: dalla fine degli anni ’40 ai primi anni
’60, dalla Polonia stalinista alla Berlino divisa, dalla Parigi bohémien
alla Jugoslavia titina, si prendono e si perdono, e noi appesi alle
loro bocche, ai loro occhi. Vi potrà tornare in mente The Artist, più
probabile Casablanca, pressoché certo Ida, con cui Pawel ha vinto
l’Academy Award nel 2015: sempre bianco e nero, sempre rapporto
d’aspetto 4:3 (Academy format), e c’era sempre Joanna Kulig. Questo è
più fascinoso, forse non ti identifichi, ma ti immedesimi: due come noi,
più di noi, due vuoti a perdere pieni di aneliti e desii, inversioni e
testacoda. Materia bollente, e ancor più infida, se non fosse che dietro
la macchina da presa non si negozia e si tira dritto: il volemose bene è
pericolo scampato; il comunismo non è un luogo comune; la compagnia
Mazowsze, ingaggiata dal regime quale strumento di propaganda, non scade
nel folklore posticcio; e la musica, jazz, non solo accompagna, ma dice
quel che i dialoghi e le immagini non dicono. Un film perfetto? Quasi, e
ancor più eroico: dopo il successo di Ida era facile ripetersi,
viceversa, Pawlikowski (Varsavia, 1957) rimane solo fedele a se stesso,
facendo del film premio Oscar un punto di partenza, non di approdo.
Possono avere amanti, mariti e mogli, possono tessere altri rapporti, ma
il tempo non può nulla, la lontananza non è niente: sono Zula e Wiktor e
“l’amore è amore, punto e basta”. E quando ci ricapita, di fare l’amore
con il cinema?