Il Fatto 19.12.18
Una marcia da 50 milioni Netflix punta a Hollywood
Con il super favorito “Roma” di Cuarón
Verso l’Oscar 2019 Il colosso dello streaming punta alla statuetta per il miglior film in lingua straniera
di Federico Pontiggia
Il
primo passo è compiuto, Roma di Alfonso Cuarón è entrato nella
shortlist per l’Oscar al miglior film in lingua straniera. Nove i
semifinalisti, in attesa delle cinquine del 22 gennaio, tra cui non c’è
Dogman: già assorbito da Pinocchio, Matteo Garrone non ha fatto campagna
negli Usa per supportarlo, ma probabilmente non sarebbe cambiato nulla.
Maggiori possibilità, vorrebbe qualcuno, se avessimo corso con Lazzaro
felice di Alice Rohrwacher? Chissà, ma l’essere rimasto a bocca asciutta
ai recenti European Film Awards, dove il canaro Marcello Fonte ha
viceversa bissato il premio ricevuto a Cannes, non depone a suo favore.
In
ogni caso, sono supposizioni che non tengono, perché implicano che agli
Oscar la discriminante sia il valore, quantomeno il gusto, e invece no:
al più vale la paraculaggine, vedi Capernaum della libanese Nadine
Labaki; di sicuro importano i premi vinti, il Leone d’Oro Roma e la
Palma d’Oro Affari di famiglia del nipponico Hirokazu Kore-eda;
ovviamente, pesa il cursus honorum e i precedenti, giacché il polacco
Pawel Pawlikowski di Cold War viene dalla statuetta di Ida e il tedesco
Florian Henckel von Donnersmarck di Opera senza autore da quella de Le
vite degli altri. Sopra tutto, contano i soldi messi sul piatto per
promozione e lobbying, e le cifre che si sussurrano sono da capogiro:
Netflix per Roma avrebbe garantito 50 milioni di dollari, mentre la
rivale Amazon 10 milioni a Cold War. Che mi sbatto a fare, dev’essere
stato il ragionamento di Garrone, per centrare la cinquina nel migliore
dei casi e poi farmi alzare la statuetta in faccia da Alfonso o Pawel?
Lo scotto per la shortlist mancata da Gomorra, si capisce, fu altra
cosa.
Tornando al grande favorito, una cifra certa c’è: i 20
milioni che la società di Reed Hastings lo scorso aprile ha sganciato
per assicurarsi il dramma familiare di Cuarón. Con un obiettivo
esplicito: farne il proprio cavallo di battaglia, e pure di Troia, ai
91esimi Academy Awards, il 24 febbraio del 2019 a Los Angeles. Fin qui
tutto secondo le più rosee previsioni, nonostante il mancato approdo a
Cannes per l’opposizione del festival, ovvero della legge francese, alle
politiche della piattaforma streaming, e viceversa: il massimo
riconoscimento di Venezia, attribuito dalla giuria presieduta dall’amico
Guillermo Del Toro (ah, per Netflix ora farà il tanto agognato
Pinocchio…), un plauso critico quasi unanime, mentre né gli spettatori, e
relativi incassi, in sala né le visioni in streaming sono stati
d’abitudine comunicati. Successe solo per il primo film accaparratosi da
Netflix, Beasts of No Nation di Cary Fukunaga nel 2015, poi la
trasparenza è stata archiviata.
Ma perché proprio Roma, perché
proprio il messicano Cuarón? Con i connazionali Alejandro González
Iñárritu e Guillermo Del Toro, l’Alfonso vittorioso nel 2014 con Gravity
si è spartito quattro degli ultimi cinque Academy Awards per la regia,
da cui l’hashtag #OscarsSoMexican; il suo nome è garanzia di eccellenza
artistica, un prezioso amuleto contro il malocchio anti-Netflix di
esercenti, cinefili e membri votanti dell’Academy; Roma è dramma
universale in confezione deluxe, pur parlato in spagnolo e mixteco
comunica a tutti, pur in bianco e nero incanta tutti, o quasi. Insomma,
può riuscirgli il grande colpo, quello mai realizzato nella quasi
centenaria storia degli Academy Awards: solo dieci titoli in lingua
straniera sono stati nominati nella categoria Best Picture, e nessuno ha
mai vinto. Non La vita è bella di Roberto Benigni, non Vittorio De Sica
né Federico Fellini, che pure hanno in carnet quattro Best Foreign
Language Film ciascuno.
L’impresa val bene un cambiamento di
strategia: se per qualificarsi agli Oscar basta una distribuzione
theatrical (effettuata dal servizio in concomitanza con lo streaming),
il capo della divisione film di Netflix Scott Stuber per Roma, nonché
per The Ballad of Buster Scruggs dei fratelli Coen e Bird Box con Sandra
Bullock, ha varato il “cinema first”, garantendo la diffusione
prioritaria in sala da una a tre settimane, seppure in un numero
limitato di copie (600 in tutto il mondo per Roma). Conquistare l’Oscar
al miglior film, ancora meglio se raddoppiato dallo “straniero”,
aprirebbe una nuova era e, scommettiamo, porterebbe alla 74esima Mostra
di Venezia l’attesissimo The Irishman, diretto da Martin Scorsese. E
targato Netflix, ovvio.