Il Fatto 12.12.18
Maledetta Brexit: Corbyn contro May, ma “a tempo debito”
Caos - Dopo il rinvio del voto, la premier è un morto che cammina e torna a Bruxelles. Ma Juncker e Merkel: “Non si rinegozia”
di Sabrina Provenzani
Frit,
dead, zombie, toast. Declinato in vari colori, il messaggio è univoco:
Theresa May è, politicamente, una morta che cammina. Per parlamentari e
commentatori, la decisione di rinviare a data da destinarsi il voto
parlamentare sul suo piano per Brexit ne ha definitivamente minato
credibilità e autorevolezza, e la sua caduta è solo questione di tempo.
Quanto tempo?
Ieri May ha iniziato il suo pellegrinaggio nelle
capitali europee, in cerca di sostegno per la sua ultima mission
impossible: ottenere garanzie legali sul fatto che la backstop, la
clausola di garanzia sul confine irlandese che sta facendo implodere
tutta la sua strategia, sia a tempo definito.
Il premier olandese
Rutte ha definito l’incontro “utile”, la leader tedesca Angela Merkel ha
escluso la riapertura dell’accordo di recesso già concordato, ma ha
aperto all’ipotesi di maggiori rassicurazioni. Concetto ribadito dal
presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker, che ieri
mattina al Parlamento europeo ha dichiarato: “L’accordo raggiunto è il
migliore possibile… l’unico possibile. Non c’è alcun margine per
riaprire il negoziato, ma ce n’è per ulteriori chiarimenti”. Garanzie
sì, anche ai massimi livelli, ma senza davvero toccare l’architettura
della backstop.
Oggi in programma il delicato incontro con il
primo ministro della Repubblica irlandese Leo Varadkar, che ha suggerito
di rimandare o annullare la Brexit tout court per scongiurare lo
spettro del no deal.
Giovedì c’è il Consiglio europeo, con il
Presidente Donald Tusk che ha chiarito “Non rinegozieremo l’accordo,
inclusa la backstop, ma siamo pronti a discutere come facilitarne la
ratificazione dal parte del Regno Unito. E poiché il tempo scorre,
discuteremo anche i preparativi per un no deal”.
Insomma, a meno
di miracoli, la May dovrebbe portare a casa non una modifica del
trattato ma, al massimo, rassicurazioni scritte da allegare al documento
principale. Però sarà già venerdì. Scenari: un aggiustamento cosmetico
non soddisfa nessuno e nel fine settimana si scatena un balletto di
recriminazioni e minacce di porre la fiducia. Ma per sfiduciare la loro
leader i Tories hanno bisogno prima di raccogliere 48 firme, poi di
ottenere 158 voti, poi di un leader alternativo credibile, cioè uno che
voglia davvero prendersi la grana Brexit ora che la maggioranza del
Parlamento non vuole l’accordo raggiunto ma nemmeno una uscita senza
accordo, e il tempo per riaprire il negoziato con Bruxelles, ammesso che
l’Ue sia disponibile, è quasi scaduto. Il campo Labour è un labirinto:
alle pressioni di nazionalisti scozzesi e lib dem di porre la fiducia al
più presto il segretario Corbyn ha risposto con un enigmatico “al
momento opportuno”. Le ragioni politiche: in base al Fixed Term Act del
2016 per sfiduciare il premier in carica è necessario il voto di due
terzi dei parlamentari. Corbyn vuole andare a elezioni, ma per far
cadere il governo avrebbe bisogno dell’appoggio suicida dei
Conservatori, che non solo dovrebbero impallinare il proprio leader ma
anche precipitare in un voto rischiosissimo per il Paese e per il
partito. Improbabile. E quindi al Labour non resterebbe che sposare la
soluzione del secondo referendum auspicata dagli iscritti, inclusi gli
attivisti di Momentum che, nel 2015, gli hanno regalato una
imprevedibilissima segreteria, ma non da Corbyn. Perché no?
È
vero, il segretario è un euroscettico. Ma anche: tre dei 17 milioni che
hanno votato Leave sono laburisti, concentrati nelle aree
postindustriali di Midlands, Galles e Nord Inghilterra, tradizionale
zoccolo duro del partito. Vedrebbero un People’s vote come un tradimento
imperdonabile, da far scontare alle prossime elezioni. E infatti il
potentissimo Len McCLusky, capo del sindacato Unite e grande sostenitore
di Corbyn, pochi giorni fa ha chiarito di essere contrarissimo.
Certo,
se la pressione politica dovesse farsi insostenibile la May potrebbe
decidere di dimettersi. Ma la premier ha ridefinito il concetto di
“insostenibile” già diverse volte, nulla suggerisce che voglia uscire di
scena, e se resiste fino al 20 dicembre, quando il Parlamento chiude
per le vacanze di Natale, se ne riparla alla ripresa, il 7 gennaio. La
data limite per la ratifica dell’accordo è il 21 gennaio, dopo di che,
in base al Withdrawal Act, se non c’è consenso il controllo passa al
Parlamento, dove si sta consolidando il fronte del People’s Vote, con
l’obiettivo palese di cancellare la Brexit.