lunedì 10 dicembre 2018

Il Fatto 10.12.18
Il governo spagnolo è socialista?
“Altro che governo di sinistra: Sanchez espelle e deporta”
Le mujeres portadores
di Pierfrancesco Curzi

Gabriel ha 22 anni ed è arrivato a Ceuta dalla Guinea Conakry dopo un viaggio lungo due anni. Il 26 luglio scorso, assieme ad altri 602 migranti, per lo più subsahariani, è riuscito a valicare i due reticoli, alti sei metri e lunghi otto chilometri, che sigillano l’enclave spagnola dal Marocco. La più grande evasione al contrario che si ricordi tra Ceuta e Melilla, l’altra città iberica autonoma incastonata nella costa mediterranea. Africa ed Europa, inferno e purgatorio. Addosso, sulle gambe di Gabriel, le unghiate del filo spinato penetrato nella carne. Lo incontriamo davanti al centro d’accoglienza Ceti (Centro temporaneo per i migranti) e da lì, in autobus, arriviamo fino al varco frontaliero occidentale di Benzù, chiuso dal 2004. Sopra si erge, maestosa, la montagna della Mujer muerta, come la definiscono gli spagnoli di Ceuta: “Ci siamo nascosti per mesi nella Grande forêt (il bosco tra Fnideq e Castillejo in territorio marocchino a pochi chilometri dalla frontiera), poi quella notte il grande salto. Avvicinandoci verso la recinzione dal bosco, ci hanno consigliato di vestirci di scuro e di non alzare mai gli occhi al cielo quando sentivamo gli elicotteri della Guardia Civil, altrimenti avrebbero notato gli occhi e i denti bianchi. Da allora vivo dentro il Ceti in attesa del lascia-passare per la penisola. A casa, in Guinea, ho solo due sorelle, i genitori sono morti, se mi dovessero riportare lì sarebbe una sconfitta”.
Il Ceti è vicino ad un circolo di equitazione. Il recinto dello sgambatoio guarda sopra le baracche del Centro temporaneo dove i migranti possono uscire dalle 8 e rientrare entro le 23. Si avvicina un ragazzo del Camerun, Steven: “Sono mesi che aspetto il lascia-passare. Ormai non vado quasi più in città, che è a tre chilometri a piedi da qui. Giriamo come fantasmi, la gente ci schifa e la polizia non è buona con noi. Ogni scusa è buona per fermarci e, in molti casi, attaccarci”.
“Mi vida la déjé entre Ceuta y Gibraltar…”, “ho lasciato la mia vita tra Ceuta e Gibilterra” canta Manu Chao nella sua storica hit dal titolo emblematico, Clandestino. Per la prima volta, proprio nel 2018, la Spagna ha superato l’Italia per numero di sbarchi dalle coste nordafricane: dal 1° gennaio alla fine di novembre oltre 55mila persone sono state registrate dal governo spagnolo, contro le 22mila in Italia. Con la rotta libica resa impraticabile dal blocco delle partenze dei barconi e circa 700mila richiedenti asilo ingabbiati, il flusso di disperati si sta spostando ad ovest, attraverso Algeria e Marocco.
Il clamoroso tentativo di fine luglio è stato uno smacco per le super-attrezzate autorità frontaliere spagnole, dotate di telecamere termiche capaci di individuare la presenza di persone a chilometri di distanza. Un episodio eclatante, al punto da spingere il premier socialista Pedro Sanchez, in sella dal 2 giugno 2018, a praticare espulsioni e respingimenti in Marocco: “Il governo di Madrid ha mostrato la sua vera faccia – attacca Reduan Halid, attivista per i diritti umani e membro della piattaforma Alarm Phone –, riesumando un vecchio accordo del 1992 siglato dall’allora premier Felipe Gonzalez e dal re Hassan II: consente le deportazioni di migranti in caso di presunte violenze. Il 26 luglio le autorità hanno parlato di una ventina di agenti e militari feriti, di calce viva lanciata dai migranti contro di loro. I feriti più gravi sono stati tra i migranti, con almeno due morti. Non era mai successo prima. Governo progressista? Tutto il contrario, le espulsioni, i dinieghi per le domande di asilo sono aumentati, i controlli in mare sono ferrei e i naufragi nel tratto di mare tra Ceuta-Tangeri e Algeciras sono quotidiani”.
Oltre i migranti africani crescono i marocchini in fuga da un Paese dove non ci sono lavoro e futuro col governo che sta rimettendo obbligatoria la leva militare a 14 anni. I subsahariani passano al Ceti (in questi giorni oltre 900 per una capienza di 512 posti) per la registrazione, mentre i minori vengono accolti nel centro apposito. Diverso il discorso per i marocchini: “Per me conta la libertà, non voglio star in un centro, seguire le regole e il percorso normale. Ogni notte tento di superare i controlli per nascondermi dentro un camion o un container in partenza dal porto di Ceuta verso Algeciras. Ieri un nostro amico ce l’ha fatta”. Hamid, 15 anni, ci mostra la foto del fortunato, capace di eludere i controlli doganali. Lui, assieme ad un gruppo di coetanei, vive in mezzo agli scogli cubici messi a protezione del porto. Il giaciglio ricavato tra i cunicoli dei blocchi frangiflutti. Fa freddo, un freddo umido, e il vento non smette mai di soffiare: “Per battere il gelo ci copriamo bene – Youssef, un altro ragazzino cresciuto troppo in fretta, ci mostra i nove strati di vestiti –, da mangiare lo prepariamo qui usando il fuoco vivo. Chiediamo l’elemosina fuori dai negozi della città e coi soldi racimolati facciamo la spesa”.
Ogni secondo mercoledì del mese nella piazza principale di Ceuta si svolge il Circulo del silencio: “È l’occasione per fare il punto su cosa è successo nel mese precedente sul fronte dei diritti umani, tra migranti e le donne marocchine sfruttate – spiega Maite Perez Lopez, dirigente del centro San Antonio che offre lezioni di lingua spagnola e corsi di formazione per migranti –. Ci ritroviamo tutti insieme sperando di attirare l’attenzione della città. Purtroppo gli spagnoli di Ceuta, la maggior parte dei quali sono di origini marocchine, non vedono di buon occhio i migranti, il loro atteggiamento è aggressivo o di indifferenza e le cose stanno peggiorando”. Se i migranti non se la passano bene, a Ceuta, ci sono altri inferni.
Fiumi di donne marocchine, a caccia di un lavoro, seppur degradante, che consenta loro di sopravvivere: ogni giorno fanno la spola attraverso la frontiera di Tarajal II. Considerate lavoratrici di serie B, senza diritti e tutele, accudiscono anziani e famiglie spagnole “bene” in cambio di paghe misere per gli standard europei, dai 120 ai 250 euro a settimana. Ovviamente in nero: “Il sabato mattina lascio Fnideq, entro in Spagna e inizio il mio lavoro in casa di una famiglia per cui lavoro da qualche mese”. Aisha ha passato i cinquanta, vedova, i figli grandi, per campare fa la domestica. Nel 2017 ha perso il vecchio lavoro ed è rimasta disoccupata per mesi: “Ho pensato al peggio, sono andata in depressione, poi mi ha chiamata un’altra famiglia. Adesso sopravvivo”.
Eppure c’è chi sta ancora peggio. Le mujeres porteadoras, “spallone” nordafricane pagate una miseria per trasportare carichi pesantissimi sulla schiena attraverso la frontiera. Il sistema più economico per far passare merci da un continente all’altro. Le schiave del ventunesimo secolo. Pochi giorni fa, all’apertura dei cancelli della dogana spagnola (le porteadoras vengono fatte passare in un varco alternativo e oscurato al transito dei turisti, per non mostrare lo sfruttamento), in mezzo alla calca una donna è morta schiacciata, un’altra è in fin di vita.