Corriere La Lettura 23.12.18
Vietnam
Un eterno ritorno
«Finora
ci si concentrava sul ruolo degli Usa ma quella fu la tragedia di una
nazione: 40 vietnamiti morti per ogni americano caduto»
«L’America allora commise lo stesso errore che poi ha ripetuto in Iraq e Afghanistan: disprezzare chi pretendeva di aiutare»
di Luigi Ippolito
Per
il «Sunday Times» è il libro di storia del 2018: uscito subito dopo
l’estate, Vietnam. An Epic Tragedy 1945-1975 di Max Hastings ha
rapidamente scalato le classifiche dei bestseller britannici. Un volume
ampio, salutato come uno dei lavori definitivi sul conflitto in
Indocina: un’opera in cui si intrecciano decisioni politiche, operazioni
belliche ed esperienze umane. Hastings, già direttore di giornali e
commentatore politico, è soprattutto uno storico militare: ma da giovane
reporter della Bbc aveva vissuto in prima persona il conflitto in
Vietnam e assistito alla caduta di Saigon.
Perché tornare oggi a rivisitare quella guerra?
«Molti
libri scritti finora si concentrano sul ruolo degli americani, ma a me
sembrava che fosse la tragedia di una nazione: 40 vietnamiti sono morti
per ogni americano caduto. Adesso c’è una sufficiente distanza e
sappiamo molte più cose. Per esempio, Nixon e Kissinger credettero fino
alla fine che Mosca tirasse le fila del conflitto e desse ordini ad
Hanoi: non era così, per i sovietici il Vietnam era una distrazione.
Inoltre si pensava che Ho Chi Minh dirigesse il Nord, ma lui era
soltanto una figura rappresentativa, il vero potere era nelle mani di Le
Duan. Che era un esperto rivoluzionario, un fanatico del tutto
indifferente all’enorme costo che la guerra infliggeva al suo Paese.
Infine mi sono interessato alle vittime, specialmente alle donne».
La stagione del Vietnam fu anche quella delle proteste pacifiste negli Usa e nel resto dell’Occidente.
«Quelli
che protestavano avevano ragione a dire che la guerra era un disastro,
ma sbagliavano a pensare che, se la causa americana era sbagliata,
l’altra parte fosse quella giusta».
Lei infatti nel suo libro sta attento a non dare un’immagine romantica dei vietcong.
«I
vietcong erano spietati rivoluzionari comunisti, seppellivano la gente
viva… Ho Chi Minh non era affatto “il buon zio Ho”, uccisero migliaia di
persone della loro stessa gente. Non che gli americani fossero eroi, ma
la verità sta nel mezzo».
Perché la definisce una tragedia epica?
«Fu
una guerra di dimensioni epiche per l’enorme perdita di vite umane,
molte di più che in Iraq o in Afghanistan o in Siria. E fu una tragedia
perché non era una guerra necessaria».
Ma perché gli americani spesero 150 miliardi di dollari e persero 58 mila soldati se la guerra non era necessaria?
«Ho
vissuto in America nei primi anni Sessanta e a loro sembrava che nulla
fosse impossibile per la potenza degli Usa: l’idea che un pugno di
guerriglieri comunisti male in arnese potesse resisterle appariva folle.
E bisogna ricordare che la minaccia comunista mondiale negli anni
Quaranta e Cinquanta era una cosa reale, non immaginaria. Ma l’errore
americano fu di vederla dovunque e non guardare a ogni società in
maniera diversa. Credevano che ciò che accadeva in Vietnam fosse
provocato da Cina e Russia: non era così».
Dunque una guerra sbagliata.
«Gli
americani non volevano nulla di male per il Sud Vietnam, volevano
dargli libertà e democrazia: ma era folle pensare che potessero
ottenerle mandando soldati e bombardando chiunque obiettasse. I
comunisti erano sempre in grado di rammentare quanto fosse umiliante
essere occupati dagli americani. Tutti al Sud sapevano che i leader di
Saigon non potevano alzarsi dal letto la mattina senza chiedere prima
agli americani da che lato scendere... E poi c’era il disprezzo razziale
con cui gli americani trattavano i vietnamiti. Il Nord prevalse non
tanto perché fossero brillanti soldati, ma perché erano patrioti
vietnamiti. Ho Chi Minh, sconfiggendo i francesi, aveva ottenuto il
monopolio sul nazionalismo vietnamita e il prestigio della vittoria. Al
contrario, molti del regime sudvietnamita erano stati al servizio dei
francesi. Inoltre i comunisti promettevano una rivoluzione che avrebbe
scacciato proprietari terrieri e stranieri: erano vestiti con pigiami e
sandali, mentre quelli del Sud andavano in giro sulle Mercedes e
portavano gioielli».
Insomma, gli americani erano dal lato sbagliato della storia.
«Lo
erano. Ma l’ironia è che oggi sono finiti dal lato giusto della storia
per ragioni economiche e culturali. Se guardiamo oggi al Vietnam, si
sono molto americanizzati: dove il potere militare ha fallito, YouTube
si è dimostrato irresistibile. Gli americani hanno vinto alla fine sul
piano culturale, anche se non su quello politico».
Un errore usare le bombe invece della Coca-Cola.
«È
un errore la fede esagerata nel potere militare. Ho passato la vita a
scrivere di guerre, ma, a questo punto della mia carriera, ho capito che
la forza militare è solo un elemento: spesso va impiegata, ma devi
guardare anche al resto. I generali sono addestrati a uccidere la gente,
ma non sanno niente delle persone e delle altre culture. Puoi andare
avanti a uccidere i cattivi all’infinito, ma non concluderai nulla. Il
modo in cui gli americani trattavano i vietnamiti rendeva infelici anche
coloro che odiavano i comunisti. E questi ultimi erano molto più bravi
degli americani a conquistare i cuori e le menti. Una volta viaggiavo su
un convoglio motorizzato, aveva piovuto e c’era quel fango terribile
dappertutto: correvamo sollevando montagne di fango e ogni volta che
passavamo accanto a un contadino con i suoi bufali lo sommergevamo. Può
sembrare una cosa stupida, ma come ti potevi aspettare che quell’uomo
simpatizzasse per gli americani? E lo facevano tutti i giorni…».
Una lezione valida anche per oggi...
«Lo
vedo ancora succedere in Iraq e in Afghanistan: finché non impariamo a
trattare la gente con rispetto, non c’è speranza che la forza militare
possa prevalere. La lezione vitale del Vietnam è che se non riesci a
impegnarti culturalmente e politicamente, puoi mandare tutti i soldati
che vuoi, ma non serve a niente. Sono giunto a questa ferma convinzione
riguardo agli interventi occidentali in Paesi lontani: non sono affatto
un pacifista, ma a meno che non riesci a stabilire una connessione con
la società, l’aspetto militare è perdente».
Quanto ha inciso nel libro la sua esperienza personale al fronte?
«Non
ne parlo direttamente, ma quando scrivo so come stavano le cose.
Ricordo quando ero sporco e sudato nella giungla con le truppe e c’era
quel momento magico in cui venivi portato su in salvo da un elicottero.
C’era questa straordinaria combinazione di stupefacente bellezza
naturale e terribili orrori causati dagli uomini. Un giorno, la mattina
molto presto, all’alba, una di quelle favolose albe rosse asiatiche, ero
sulla pista di decollo della base e vidi tutti gli equipaggi correre
verso gli elicotteri, con l’alba sullo sfondo: e quei 50 elicotteri
avviarono i motori e le eliche, nella posizione di decollo, col muso
abbassato, e si sollevarono contro l’alba. Non solo era incredibilmente
bello... Anche se razionalmente sapevo che gli americani stavano
perdendo la guerra, quando vedi 50 elicotteri decollare in quel modo,
pensi: come possono perdere? Se poi sei un generale, è così facile
innamorarti del tuo potere» .