Corriere La Lettura 23.12.18
Non esistono lingue geniali
Geniali sono i loro autori
Greco
e latino non sono gli idiomi più intelligenti (e belli), come dicono
Andrea Marcolongo e Nicola Gardini. Sono, piuttosto, quelli che hanno
veicolato alcuni tra i testi più belli (e intelligenti) della storia
grazie a Platone, Tacito...
di Marco Passarotti
Ciclicamente
si ripropone in Italia la discussione sull’opportunità
dell’insegnamento del greco e del latino al liceo Classico. Nel
dibattito s’innestano diverse questioni. Una delle più frequenti, e
tediose, solleva il presunto problema dell’utilità delle cosiddette
lingue classiche. In vero, tutte le diatribe in merito sembrano ridursi
ai diversi intendimenti che gli interlocutori hanno del termine
«utilità». Ai due estremi opposti stanno gli accesi sostenitori di una
scuola formativa di sole competenze immediatamente spendibili nella vita
lavorativa e i convinti difensori dell’apprendimento delle lingue
classiche quale strumento principe di accesso a ogni forma di
conoscenza. Se i primi, iperrealisti, finiscono per ridurre tristemente
l’esistenza a una serie di capacità professionali, i secondi,
iperclassicisti, corrono il rischio di esaltare le lingue classiche al
punto d’isolarle in una distante torre d’avorio. Gli iperrealisti
considerano il greco e il latino alla stregua d’anticaglia da museo,
mentre gli iperclassicisti finiscono per reputarle le lingue più belle
della storia.
Ora, è facile portare argomenti contro gli
iperrealisti, le posizioni dei quali si scontrano con l’esperienza di
migliaia di italiane e italiani che hanno tanto beneficiato dall’aver
letto Platone e Catullo in lingua originale sugli scalcinati banchi dei
licei nazionali. Gli iperclassicisti sono, invece, più complessi da
sgominare, perché sembrano avere pienamente ragione, al punto che a
prima vista io stesso mi direi membro della compagnia, che di recente si
è rafforzata grazie ai volumi di Andrea Marcolongo (La lingua geniale. 9
ragioni per amare il greco) e di Nicola Gardini (Viva il latino. Storie
e bellezza di una lingua inutile, seguito da Le 10 parole latine che
raccontano il nostro mondo). Tutto bene finché si tratta di difendere e
diffondere l’apprendimento rigoroso del greco e del latino, quale
condizione per apprezzarne i testi; tuttavia, pur nella sperticata lode
della formazione classica e proprio per preservarla, bisogna evitare di
cristallizzare il greco e il latino in una (ir)reltà favolosa e intatta.
Il rischio è scadere nella sublimazione delle lingue classiche come
modelli di bellezza irraggiunti e irraggiungibili. Eppure, se c’è un
campo dove si deve essere relativisti, è proprio quello linguistico: non
ha alcun senso sostenere che una lingua sia più bella di un’altra. Ciò
non tanto per una forma perversa di pari opportunità o egualitarismo
culturale, quanto per rispetto della corretta prospettiva di
osservazione della questione.
Il greco e il latino non sono le lingue
più belle (o geniali) della storia, semplicemente perché la
competizione non si deve proprio porre, ma sono quelle che hanno
veicolato alcuni dei testi più belli (e geniali) della storia, così
importanti da aver costituito le fondamenta stesse del pensiero
occidentale. Le lingue classiche sono strumenti che hanno beneficiato di
testimonial strepitosi: Platone e Aristotele, Sofocle ed Euripide,
Catullo e Properzio, Seneca e Tacito. Ciò che di quelle lingue antiche è
giunto fino a noi, attraverso secoli di selezione, rappresenta quanto
di meglio alcuni dei massimi autori della storia hanno prodotto. Costoro
seppero sfruttare al massimo le potenzialità loro consentite dallo
strumento che avevano tra le mani, fosse esso la lingua greca o latina.
Dunque, ad essere belli non sono il greco o il latino, ma i testi
scritti in greco o in latino. Non si confonda lo strumento con l’uso che
si fece di esso.
Sembra una questione di accademica lana caprina:
non lo è. Considerare il greco e il latino alla stregua d’intoccabili
lingue-modello finisce per comportare che esse vadano trattate con una
riverenza particolare. Ne consegue una sorta di conservatorismo
scientifico che paradossalmente manca di rispetto nei confronti proprio
dei testi classici, contribuendo, ad esempio, a determinare una certa
arretratezza nello sviluppo e, soprattutto, nell’utilizzo e
nell’insegnamento di metodi e strumenti per il loro trattamento
automatico a computer. Uno dei tratti caratterizzanti la ricerca del XX
secolo è stata, infatti, la miniaturizzazione del livello di analisi. Si
pensi alla fisica, alla biologia, o alla chimica: nuovi strumenti, come
il microscopio, consentirono di entrare per la prima volta nell’intimo
degli oggetti da indagare.
In ambito umanistico e specialmente
linguistico, filologico e letterario, questo significa usare metodi e
strumenti per gestire e maneggiare i dati testuali a un livello sia
quantitativo che qualitativo impossibile prima dell’avvento del
computer, permettendo così di guardare ai testi greci e latini da una
prospettiva nuova e, in ultima istanza, di conoscerli e comprenderli
meglio. Eppure proprio i classicisti sono stati tra i primi a rendersene
conto, se è vero che uno dei pionieri della disciplina dedicata al
trattamento informatico dei testi fu un gesuita italiano, Roberto Busa,
che trasferì su supporto elettronico (oggi diremmo digitale) tutte le
opere, in latino, di Tommaso d’Aquino. E ancora sono stati i classicisti
a sviluppare alcune delle più importanti biblioteche digitali, come
Perseus, che raccoglie e mette a disposizione online centinaia di testi
greci e latini. Ma questo è stato il Novecento, che in tale settore fu
il tempo della semina: ciò che oggi ancora manca è la raccolta dei
frutti di quel lavoro, ovvero un utilizzo di questa grande massa di dati
che vada oltre la semplice estrazione delle occorrenze delle parole dai
testi. L’applicazione di strumenti di trattamento automatico del
linguaggio ai testi greci e latini, così come l’uso di metodi
computazionali e di risorse linguistiche avanzate restano ancora
relegati nei laboratori d’informatica umanistica e linguistica
computazionale, senza esercitare un reale impatto sul complesso della
comunità dei classicisti e, di conseguenza, su quegli studenti di
Lettere Classiche che saranno i ricercatori del futuro. Anzi,
l’approccio computazionale all’analisi del greco e del latino viene
spesso guardato con scetticismo dai valorosi difensori dell’alterità
delle lingue classiche, quasi che esse, proprio in quanto superiori, non
meritino di venire martirizzate dai computer, considerati non tanto
validi alleati al lavoro di ricerca quanto grevi bulldozer che
schiacciano le delicate e gentili scienze umanistiche, di cui gli studi
classici sono reputati essere la massima espressione.
Smettere di
relegare il greco e il latino in un Olimpo linguistico ideale significa
supportarne lo studio, anche rendendo abituali nella vita
dell’insegnante e del classicista metodi e strumenti di analisi
computazionale sullo stato dell’arte. Perché una ricerca che si bea di
essere conservativa, rifiutando d’innovarsi in nome di una presunta
superiorità del proprio oggetto d’analisi, semplicemente non è una buona
ricerca.