Corriere La Lettura 23.12.18
Scenari
Musulmani in fuga dalla Birmania: una crisi, tre fronti
La persecuzione dei rohingya ha radici antiche che forse spiegano i silenzi di Aung San Suu Kyi. Nuovi volumi indagano
di Marco Del Corona
Dalla
fine dell’agosto 2017 si calcola che più di 670 mila musulmani rohingya
abbiano lasciato il Myanmar (la ex Birmania) per trovare rifugio in
Bangladesh, scampando a eccidi, violenze e villaggi incendiati. Le
autorità di Dacca dicono di averne accolto quasi un milione e 100 mila
mentre il governo birmano ammette che il 90% della popolazione musulmana
delle tre province più settentrionali dello stato di Rakhine se n’è
andato. I morti, soprattutto: Medici senza Frontiere stima che almeno
6.700 siano le vittime rohingya delle violenze etniche. Le cifre rendono
a malapena una tragedia che destabilizza la regione, turba le opinioni
pubbliche e ha già compromesso il prestigio di Aung San Suu Kyi, il
premio Nobel per la pace al governo in Myanmar, accusata prima di
insensibilità verso la minoranza rohingya e poi di connivenza con la
repressione dei militari e con i raid degli estremisti buddhisti.
Il
disastro del Rakhine covava ben prima dello stupro e dell’omicidio di
una sarta buddhista che, nel giugno 2012, scatenò la più recente ondata
di pogrom antislamici. La crisi, etnico-politica e umanitaria, ha già
rallentato la transizione del Myanmar alla democrazia dopo decenni di
dittature militari, un passaggio al quale l’Occidente ha guardato con un
ottimismo eccessivo: una benevolenza alimentata, peraltro,
dall’appetito per le risorse naturali del Paese, per la sua posizione
strategica e la manodopera a basso costo. Le diplomazie assistono
impotenti o incapaci, le raccomandazioni del 2017 della commissione
guidata da Kofi Annan restano di fatto lettera morta. Tuttavia «la
violenza nel Rakhine non si attaglia allo schema netto ma semplificatore
dei militari cattivi contro i civili buoni», avverte Francis Wade. Il
suo Myanmar’s Enemy Within (2017) è uno dei libri che affronta la
questione. Non solo indaga l’affermarsi di movimenti buddhisti
estremisti e antislamici come il Ma Ba Tha (attivi ben oltre il Rakhine e
non solo contro i rohingya), ma osserva come nel Paese «la storia della
transizione abbia a che fare, più di ogni altra cosa, con il senso di
identità e di appartenenza». E anche gli ancora più recenti saggi di
Azeem Ibrahim (The Rohingyas, nuova edizione) e di Anthony Ware e Costas
Laoutides (Myanmar’s «Rohingya» Conflict, dal quale sono tratti i dati
citati in apertura) si muovono su questa linea provando a spiegare un
conflitto «intrattabile».
Azeem Ibrahim, accademico con trascorsi ad
Harvard e Yale, parla di genocidio tout court. «La persecuzione dei
rohingya — nota — è stata pianificata in modo deliberato dallo Stato fin
dagli anni Sessanta», cioè da quando, con il golpe di Ne Win (1962), la
Birmania inaugurò un quarantennio di regimi xenofobi. Fu allora che
venne sancita l’esclusione dei rohingya dalle 135 etnie ufficialmente
riconosciute. Ibrahim sostiene che Aung San Suu Kyi non abbia mai preso
le distanze dagli abusi nei confronti dei musulmani del Rakhine perché
origini e ideologia della sua Lega nazionale democratica (Nld) non sono
poi tanto diverse da quelle delle forze armate e del loro partito
(Usdp). Si tratta — sostiene Ibrahim — di formazioni figlie di un’élite
urbana senza legami con campagne e strati popolari, trasformatesi in
«partiti etnici», espressione del gruppo egemone birmano (bamar). Tant’è
vero che, con le elezioni democratiche del 2015, «per la prima volta
dall’indipendenza, in parlamento non siede neppure un deputato
musulmano», a prescindere dall’etnia di appartenenza. Lo stesso clero
buddhista, già dalle manifestazioni per la democrazia represse nel
sangue nel 1988 e nel 2007 alle quali aveva partecipato, si è via via
radicalizzato. Arrivando a far coincidere fede e cittadinanza e
«accordando un minor valore a ogni non-buddhista» (questo soprattutto
racconta Wade).
Ware e Laoutides, accademici attivi sul campo, si
impongono uno sforzo di equilibrio. Insistono: in Rakhine i legami con
il potere centrale sono sempre stati difficili anche per i buddhisti. I
birmani infatti sottomisero il regno indipendente e multiconfessionale
del Rakhine solo nel 1784, anno del primo esodo di musulmani (altri
seguirono nel 1942, nel 1978 e nel 1991-92). Durante la Seconda guerra
mondiale, poi, rohingya musulmani e rakhine buddhisti combatterono su
fronti opposti, i primi con i britannici, i secondi con i giapponesi.
Una storia di frammentazione, dove non vanno dimenticate la «rabbia
profonda, persino l’aperta violenza fra rakhine e rappresentanti dello
Stato birmano». Il Rakhine, dunque, conosce un «conflitto multipolare»
che coinvolge la popolazione buddhista locale (i rakhine, appunto, ben
distinti dai bamar della Birmania centrale), quella musulmana (le cui
tracce risalgono all’anno Mille, in opposizione alla propaganda secondo
la quale sono immigrati recenti) e il potere centrale, incarnato
soprattutto dall’esercito (Tatmadaw). Ciascuno dei tre gruppi ha una sua
«narrazione» da difendere: l’«origine» per i rohingya (avere pieno
titolo, cioè, per essere cittadini del Myanmar), l’«indipendenza» per i
rakhine (che aspirano a una forte autonomia, se non alla sovranità) e
l’«unità» nazionale per i birmani.
Signori coloniali dal 1826 al 1948
della Birmania (che fino al 1937 era parte dell’India), i britannici ci
hanno messo del loro, introducendo «la distinzione fra gruppi autoctoni
e non» e, con questa, «divisioni ancorate alle nozioni europee di
razza, confine e territorialità» che mal si conciliavano a un universo
di identità «fluide, porose e flessibili». Anche di fronte alle cruente
azioni armate dell’esercito e delle milizie etniche (l’«Aa» dei rakhine e
l’«Arsa» dei rohingya), lo status burocratico dei rohingya rischia così
di apparire il corollario a una questione di metodo più rilevante,
perché «è importante trattare l’“etnicità” — scrivono Ware e Laoutides —
come categoria pratica e sociale, non entità definita e statica
prodotta da un’appartenenza netta»: in un conflitto «sono più spesso i
gruppi organizzati e non le “etnie” a essere implicati in azioni
violente». C’è posto per tutti, in Myanmar. E per cominciare a
disinnescare il dramma (forse) occorre riconoscerne la complessità: «Non
si tratta di un conflitto sulla cittadinanza negata, sulla non
appartenenza a uno Stato, sugli interessi economici, l’identità, l’etnia
o il territorio in sé. Piuttosto riguarda in primis la possibilità
dell’inclusione, in termini di parità, dei rohingya e (in misura minore)
dei rakhine nella comunità politica dell’Unione del Myanmar». Un posto
dove stare, un nome da portare.