domenica 23 dicembre 2018

Corriere La Lettura 23.12.18
Più teologia che razza
L’enigma della Shoah
Per quanto si considerasse un arciebreo, il filosofo Jacob Taubes volle dialogare con Carl Schmitt, l’illustre giurista e politologo tedesco che aveva aderito al nazismo
Lo scopo era esplorare il lato spirituale del genocidio
di Donatella De Cesare


A ormai più di trent’anni dalla morte, avvenuta a Berlino il 21 marzo 1987, molti sono gli enigmi che costellano la vita di Jacob Taubes, intellettuale inquieto, radicale, audace. Tensione polemica, ironia sagace e impazienza messianica si congiungono nel suo pensiero, consegnato in gran parte a saggi brevi, confronti estemporanei, carteggi. Il che è in linea con il primato dell’oralità insito nella tradizione dell’ebraismo rabbinico, dalla quale Taubes discendeva e a cui restò indissolubilmente legato.
Dopo aver vissuto a lungo a Vienna, dove Jacob era nato il 25 febbraio 1923, la famiglia si trasferì nel 1936 a Zurigo, nella cui prestigiosa comunità ebraica il padre Zvi Taubes era stato nominato rabbino capo. La famiglia sfuggì così alla Shoah. Taubes diventò rabbino appena ventenne, nel 1943. Ciò non gli impedì di studiare filosofia, la sua passione. La sua tesi di dottorato fu anche il suo unico libro: l’Escatologia occidentale, pubblicata nel 1947 (Garzanti, 1997). Si trattava forse della prima riflessione sull’Occidente dopo Auschwitz, una sequenza impietosa di domande decisive sollevate a partire da quel limite della storia che ne aveva segnato anche l’abisso umano. Taubes si sentì sempre un sopravvissuto, scampato all’eccidio, chiamato perciò a interrogarsi.
Il dopoguerra fu scandito dalle tappe di una movimentata carriera accademica. Lavorò per un periodo a New York, dove entrò in contatto con l’intellighenzia ebraica in esilio, da Leo Strauss a Hannah Arendt; quindi accolse l’invito di Gershom Scholem che, colpito dalla sua genialità, gli aveva offerto un posto all’Università Ebraica di Gerusalemme. Le lingue per Taubes non erano un ostacolo. Parlava correntemente ebraico. Gli anni trascorsi in Israele, insieme a Susan Anima Feldman, un’ebrea americana che aveva sposato nel 1949, furono relativamente sereni. Ma il rapporto con Scholem andò deteriorandosi e la rottura fu definitiva, come si può leggere nello splendido volume I l prezzo del messianesimo. Una revisione critica delle lettere di Jacob Taubes a Gershom Scholem e altri scritti, curato da Elettra Stimilli (Quodlibet, 2017).
Taubes fece ritorno negli Stati Uniti, dove nel 1956 ottenne la cattedra di Filosofia della religione alla Columbia University. In quel periodo condivise i suoi studi con la moglie Susan, figura di intellettuale ancora da scoprire. Della sua opera postuma, conservata a Berlino, sono stati pubblicati dalla casa editrice Suhrkamp solo i saggi letterari; l’edizione degli scritti filosofici è prevista per il 2020. Quell’affinità, che aveva così intimamente legato i due coniugi, con il tempo venne meno. Esasperata dai continui tradimenti, dopo aver scritto nel 1969 il romanzo autobiografico Divorcing, Susan si gettò da un piroscafo in mare aperto. L’esistenza di Taubes era già stata segnata da un altro suicidio: inspiegabilmente il padre si era tolto la vita a Gerusalemme nel 1966. Ne risultò compromesso il suo equilibrio già molto precario. Nonostante un secondo matrimonio con la filosofa Margherita von Brentano, la sua vita sentimentale fu attraversata da passioni intense ma brevi, scossa da rapporti di amicizia e di lavoro sinceri ma conflittuali.
Durante il Sessantotto Taubes è a Berlino, dove insegna Ebraistica ed Ermeneutica filosofica alla Freie Universität. Il suo dipartimento è il cuore della ribellione studentesca. In stretto contatto con gli intellettuali più prestigiosi di quegli anni, da Blumenberg a Marquard, rimane un dissidente per vocazione. Gli allievi ricorderanno le sue avvincenti lezioni, i seminari esplosivi, tenuti malgrado le crisi maniaco-depressive che lo costringono a continui ricoveri. Lui che è un «apocalittico della rivoluzione», e non può sopportare i «marxistoidi» alla Habermas, vive il periodo più fecondo e congeniale negli anni Settanta. Cade allora ogni remora, se mai Taubes ne avesse avute. Con quelle conoscenze che molti gli invidiano, legge il cristianesimo delle origini rivendicando all’ebraismo non solo Gesù di Nazareth, ma anche Paolo di Tarso. Entrambi si stagliano sullo scenario in cui l’Impero romano scatena la guerra contro Israele.
Che cos’è allora la Shoah se non una nuova versione di quel conflitto? Sbaglierebbe chi pretendesse di interpretarla astraendo dall’antiebraismo cristiano. Taubes parla di «teo-zoologia» politica, annunciata tra squilli di tromba dentro la Chiesa, che avrebbe invece dovuto essere l’assemblea di una fratellanza universale. Inutile voler ridurre tutto all’ideologia della razza, quasi fosse un ostacolo da eliminare senza troppe difficoltà. La questione è ben più complessa, ben più antica. È una questione teologico-politica.
Taubes, che si proclama «arciebreo», osa allora quello che nessuno avrebbe forse osato: incontra Carl Schmitt, il giurista del Führer. Nel volume, appena pubblicato da Adelphi con il titolo Ai lati opposti delle barricate, sono raccolte non solo le lettere fra Schmitt e Taubes, ma anche le pagine di quest’ultimo che accompagnano i tre incontri fra «nemici» avvenuti in rapida successione: dal 4 al 7 settembre 1978, dal 22 al 23 novembre dello stesso anno e infine il 3 febbraio 1980.
Resta un mistero il contenuto di quei colloqui «sconvolgenti», come li definì Taubes. Eppure, dallo scambio epistolare e dalle sue riflessioni successive, si intuisce più di un motivo. Taubes aveva letto la Teologia politica di Schmitt ed era stato folgorato dalla tesi secondo cui i concetti politici hanno una provenienza teologica difficile da negare. Non era forse Israele l’esempio per eccellenza della teologia politica? D’altro canto non poteva, però, nascondersi il «divergente accordo» con cui leggevano la storia. Schmitt voleva trattenere la tensione rivoluzionaria, il caos che vedeva emergere nella Germania di Weimar. Era un controrivoluzionario. Taubes voleva, dunque, capire finalmente che cosa avesse spinto Schmitt che, insieme a Heidegger, considerava «la potenza intellettiva che sovrasta di gran lunga qualsiasi scarabocchio intellettuale», non solo ad aderire al Terzo Reich tedesco con pretese di salvezza, ma anche e soprattutto a vedere nell’ebreo il nemico d’elezione, consegnato allo sterminio. Come Hitler, erano entrambi «antisemiti cattolici», depositari di una tradizione ecclesiastica che guardava con «odio e invidia» agli ebrei e all’ebraismo. Per capire la Shoah — per evitarla di nuovo nel futuro? — sarebbe stato indispensabile non solo rileggere Paolo di Tarso, in particolare la Lettera ai Romani, ma anche ripensare il rapporto fra ebraismo e cristianesimo.