Corriere La Lettura 2.12.18
Vivere è amare e l’amicizia è poesia
Così Catullo riscriss le regole dell’Urbs
di Roberto Galaverni
Nell’intera
raccolta della sue poesie — il cosiddetto liber — Gaio Valerio Catullo
nomina Roma direttamente solo una volta. Accade nel carme 68a, uno dei
vertici non solo della sua poesia ma, si può dirlo, di tutta la poesia
occidentale. Il poeta si trova nella Verona natale, distrutto dal dolore
per la morte del fratello, ma deve rispondere a un amico, anche lui
abbattuto da una qualche sventura privata, che da Roma gli chiede
l’invio di un conforto poetico. Nella sua epistola in versi, così gli
scrive in risposta Catullo: «Se qui con me non ho più di tanti scritti,/
questo è perché adesso vivo a Roma. Quella è la casa,/ quella è la mia
dimora. È là che se ne va via il mio tempo».
Tanto più singolare
appare dunque la posizione del poeta. Se la derivazione provinciale, con
il suo importante retaggio anzitutto di natura morale, non venne mai
dimenticata o ripudiata, di fatto «il vero orizzonte della poesia
catulliana», come ha scritto Alfonso Traina, «è Roma». Infatti, «urbanus
fu veramente, in ogni senso, Catullo. Nell’Urbe realizzò pienamente
l’indissolubile trinomio della sua vita: l’amore, l’amicizia, la
poesia». Questo passaggio è stato ripreso da Alessandro Fo nella sua
introduzione a una nuova raccolta dei carmi di Catullo — il titolo è: Le
poesie — che ha tradotto, commentato e curato per Einaudi. Tanto più
avvalendosi di questa eccellente edizione (l’impianto complessivo si
distingue per scrupolo, competenza, equilibrio, ma anche per una sempre
motivata intraprendenza), c’è da chiedersi in che modo nei carmi si
manifesti l’urbanità del poeta, il suo essere appunto di Roma e insieme,
reciprocamente, come la città stessa viva nei suoi versi. Si è
sottolineato spesso, infatti, come questa poesia sia poco interessata ai
riferimenti locali determinati, in favore di un approfondimento tutto
interiore, legato all’esperienza personale in ciò che ha di più
universalmente condiviso. Una poesia, dunque, tanto più assoluta,
proprio perché estranea a tutto quanto non abbia riflessi sulla
dimensione più intima e sulla sua condivisione con una cerchia molto
ristretta di amici e interlocutori.
Sono proprio queste, del
resto, le innovazioni più rivoluzionarie dei celeberrimi «poeti nuovi», i
neóteroi (la definizione, in realtà diminutiva e irridente, è di
Cicerone), a cominciare appunto da Catullo e dal suo fortunatissimo
liber: centralità del cosiddetto «io» poetico e sua stretta vicinanza
con la persona dell’autore, valorizzazione della storia individuale,
della soggettività, dell’introspezione, dei sentimenti, delle relazioni
private. Di contro ai grandi temi pubblici o politico-civili della
storia maggiore, ai piccoli accadimenti della storia individuale viene
riconosciuta un’importanza addirittura incommensurabile, visti i loro
decisivi risvolti interiori (o, come potremmo dire oggi, esistenziali).
Ma l’elemento davvero dirompente è che questi temi quotidiani fino a
quel punto considerati futili o irrilevanti diventano tutt’uno con un
investimento poetico totale, una specie di raffinatissima e altrettanto
disciplinata religione condivisa dalla cerchia, che nel connubio
strettissimo tra vita e poesia prevede un’elezione ch’è insieme, e del
tutto consapevolmente, etica ed estetica.
Il vero patto sacro per
Catullo è quello che sancisce l’amicizia. Allo stesso modo, il suo
scarto dalle convenzioni e dalla morale del tempo non sta solo nel fatto
che l’amatissima Lesbia sia sposata (e che il triangolo
donna-amante-marito divenga un motivo della poesia), ma anche e
soprattutto che il suo presupposto sia la completa «equivalenza fra
vivere e amare» (Fo) o che, accanto ai mille e mille baci, venga
celebrato anche l’amore come esperienza spirituale, ossia non
esclusivamente sensuale e corporea. Sia per il linguaggio, sia per la
tipologia del tema amoroso, il ruolo fondativo di Catullo nella
tradizione occidentale viene soprattutto di qui. Poco più di tredici
secoli dopo, con gli stilnovisti fiorentini accadrà qualcosa di non
troppo diverso.
Esiste dunque una poetica, come esiste,
all’unisono, un’amicizia nella poesia. La maggioranza dei carmi di
Catullo presuppone non a caso una schiera di destinatari e uditori
determinati, che non coincidono necessariamente con i personaggi di cui
tratta o a cui esplicitamente si rivolge ciascun componimento.
Confidenza e complicità, scambi poetici, incontri e letture comuni, il
riferimento a personaggi e accadimenti quasi sempre noti: l’immediatezza
calibratissima di Catullo, e così il calore, la presenza di spirito,
l’affettività e l’affettuosità, ma anche la polemica, il sarcasmo, la
riprovazione (è uno scrittore di epigrammi più che notevole), derivano
anche da questo concreto riferimento contestuale, meglio ancora,
dall’occasione contingente e viva da cui scaturisce e a cui a sua volta
viene indirizzato ogni singolo componimento. È allora l’abbassamento e,
in sostanza, la personalizzazione dello sguardo a farne, in un modo del
tutto suo, un poeta di Roma. Ma una Roma che si rivela nella natura dei
suoi abitanti, ciascuno col proprio nome, anziché nella sua concreta
determinazione fisica e geografica. A Catullo non importano i luoghi, ma
gli individui, cosa provano, come si comportano, cosa vogliono. La
città di per sé appare semmai come un fondale che non è nemmeno
necessario descrivere. In una specie di piano sequenza ante litteram,
nel carme 55 il poeta attraversa alcuni dei più importanti luoghi di
Roma solo per sapere che fine abbia fatto l’amico Camerio. Ma è comunque
dal desiderio di conoscere la sua vicissitudine che deriva la spinta a
cercarlo e a scrivere di lui. Viene in mente uno spunto di Cesare
Garboli, secondo cui nelle poesie di Sandro Penna certi particolari di
Roma entrano come per caso, colti di passaggio sullo sfondo della
persona che s’intendeva fotografare.
La chiave del rapporto di
Catullo con l’Urbs va cercata da queste parti. Il poeta si avvicina a
Roma forte di un definitissimo, formidabile nucleo indifferentemente
etico ed estetico (vita e poesia, come detto). L’urbanitas neoterica
costituisce infatti il metro con cui, alla lettera, vengono commisurati
la città e i suoi abitatori. Ed è esattamente qui che il «teatrino
romano», come lo chiama Fo, messo in scena nel liber trova la propria
ragione.
Soltanto a partire dagli ideali, diciamo pure
dall’ideologia d’amore e d’amicizia della cerchia, e dunque nel nome di
un’elezione tutta di natura interiore, si misurano volta a volta la
dignità o viceversa l’indegnità dei compagni di strada o degli
obbiettivi polemici. Lesbia e lo stesso poeta compresi. Ironia,
equilibrio tra coinvolgimento e distacco, grazia, arguzia, giocosità,
raffinatezza, saper vivere, venustà (la venustas: sotto il segno di
Venere, dunque, e allora della bellezza, del fascino, del desiderio): il
rovesciamento è questo, ed è tanto più significativo perché riguarda
ora questa ora quella persona nella sua singolarità. Così anche
l’urbanitas, il cosiddetto spirito urbano, non è più limitata a una mera
contrapposizione geografica e culturale: la città di contro alla
provincia o alla campagna (la rusticitas). Con Catullo il contrasto tra
chi è all’altezza etico-spirituale e chi non lo è diventa invece
trasversale, riguarda tutti. Non basta essere nati a Roma per essere
davvero all’altezza dell’Urbe, il che significa poi del mondo. Certo,
chi non vi riesce se ne vada pure in malora. «Ma a voi dian dèi e dee
molti mali,/ disonori di Romolo e Remo».