domenica 2 dicembre 2018

il manifesto 2.12.18
Il Picasso di Gertrude Stein, occhio per occhio
La riproposta del «Picasso» di Gertrude Stein, Skira, traduzione di Masolino D'Amico. Contro l'odierna «picassite», è da rileggere questo «ritratto» uscito nel 1938, sùbito dopo «Guernica». La scrittrice americana sviscera l’arte dell’amico all’insegna di un feroce metabolismo, tutto spagnolo
Gertrude Stein nel salone della sua mitica dimora parigina al 27, rue de Fleurus, circa 1920, foto di Man Ray
di Federico De Melis


Contro l’odierna picassite, che esplode in iniziative di diversa caratura tendenti, tutte insieme, all’ammasso, e singolarmente, spesso, al pretestuoso focus tematico (a Barcellona, la cucina!), si può tornare a leggere Picasso di Gertrude Stein, ristampato da Skira («MiniSaggi», pp. 69, euro 9,90) nella traduzione di Masolino D’Amico, che segue quella 1973 di Vivianne Di Maio per Adelphi – entrambe dalla versione inglese, ma in prima battuta fu scritto in francese. Il piccolo libro è del 1938, un anno dopo Guernica: sembra steso però con la stessa acerbità di scoperta che aveva condotto Gertrude, sotto lo spinta del fratello Leo, ad acquistare nel 1905, dal mercante di quadri Clovis Sagot, il loro primo Picasso, dove il blu stinge nel rosa, i piedi sono disegnati, secondo la lei di quel momento, in modo «urtante e ripugnante», Fillette nue au panier de fleurs.
Prima di questo scritto, Gertrude Stein si era occupata a più riprese di Picasso, a partire dal portrait del 1909, poi pubblicato in «Camera Work» nel ’12. Un resoconto dettagliato di questo corpo-a-corpo Á travers le mots è, a firma Hélène Klein, nel catalogo della superba mostra che il Grand Palais dedicò, nell’autunno 2011, all’«avventura degli Stein». Picasso era stato tra i principali attori dell’Autobiografia di Alice Toklas , 1933, e dell’Autobiografia di tutti, 1937, di recente riproposta in Italia dall’editrice nottetempo. Ma nel saggio di cui scriviamo, l’ultimo in ordine di tempo, la Stein non si diffonde tanto sulla scena in cui si muove l’artista, come, nell’Alice Toklas, i riti mondani che avevano accompagnato la nascita del cosiddetto modernismo letterario, nutrito dai quadri alle pareti, al 27 di rue de Fleurus. Pur replicando alcuni aneddoti su Picasso già apparsi nel suo memoir metaletterario, per esempio la celebre esclamazione «questo è il cubismo» davanti al camion mimetizzato (camouflage) a scopo bellico in boulevard Raspail, la scrittrice si concentra qui sulla sostanza dell’opera dell’amico, più in chiave di filosofia della storia che di analisi delle forme, e sulla ‘biologia’ del suo operare. La carenza dello strumentario della critica figurativa classica, e la ricerca, dichiarata, di una equivalenza con lo strabismo del suo stesso linguaggio letterario, fanno sì che la Stein ci dia un profilo tagliato con l’accetta e fermamente appassionato: quanto di più utile negli anni della filologia dell’inutile.
Per la scrittrice di Pennsylvania Picasso è innanzitutto spagnolo, e con lui la Spagna inaugura il Novecento in Francia, dove all’inizio del secolo, lei sostiene, gli artisti, nonostante le varie rotture post-impressioniste, ancora guardano come guardano tutti. Solo con Picasso il guardare diviene un’attività dell’occhio. Per spiegarlo la Stein ricorre, genialmente, all’esperienza dell’infante nel contatto pelle a pelle con il volto della madre: in questa prossimità schiacciata egli vede quel che vede, un naso è un naso, un occhio è un occhio, e se il profilo della madre mette a disposizione un solo occhio, il bimbo non immagina che dall’altra parte del naso esista un altro occhio. Sospetto che David Hockney, nel suo altrettanto snello e direzionale Picasso, 2001, abbia preso in prestito dalla Stein questa lettura, ricca persino di risonanze psicoanalitiche (sembra di leggere Melanie Klein), quando parla dei ritratti anni trenta di Marie-Thérèse Walter, che dell’artista fu amante, per giustificare le loro «distorsioni»: «Picasso deve aver trascorso ore e ore a letto con lei, osservando da vicino il suo viso. (…) Strane cose cominciano ad accadere agli occhi, alle guance, al naso: meravigliose inversioni, ripetizioni».
Il Picasso della Stein è preda di un violento metabolismo, che lo costringe a riempirsi e svuotarsi di continuo. La sua acutissima ricettività lo porta a essere sedotto di volta in volta da forme d’arte estranee al suo modo di vedere, più in linea con quel che vedono tutti: così, per esempio, dopo il momento blu, intensamente suo perché davvero spagnolo, Picasso ha bisogno di riposarsi, di cedere al fascino e alla sottigliezza dell’ordinario, al bello, per cui apre al mondo – francese come era stata francese, prima del blu, la sua fascinazione per Toulouse – degli arlecchini e del rosa. Ma al culmine di questo stato di grazia (che non è la grazia della verità, ma la grazia dell’abitudine), sente un feroce bisogno di svuotarsi, di recuperare il vedere, una dimensione che non implica preconcetti di gusto, e si prospetta, nella totale rinuncia di questi preconcetti, quale una lotta in piena solitudine, tutta spagnola. Come è celebre, nella primavera del ’06 aveva cominciato il ritratto di Gertrude, non gli piace il volto, lo butta giù… Ha bisogno di Spagna, e in estate ci torna: il momento di Gosol. Di nuovo a Parigi, ravvivato dalla forza barbarica della scultura iberica preromana, rimette mano al volto di Gertrude, senza neanche rivedere la modella, con l’indurimento di linee e il peso plastico che sappiamo: si è riempito, è tornato a vedere, comincia la scalata (fase negra, Demoiselles) che lo porterà al cubismo…
Nel dopoguerra sentirà il bisogno di svuotarsi di nuovo, ed ecco la seduzione dell’Italia, come in precedenza c’era stata quella della Francia, e in futuro ci sarà quella, insidiosissima, della Russia, tutta una costellazione di «interpretazioni», di sublimi distrazioni dalla ferocia primigenia del suo occhio. Il momento più critico in questo senso la Stein lo pone tra il 1927 e il 1935, «quando le interpretazioni distrussero la sua stessa visione così che fece forme non viste ma concepite». È appunto il momento della sirena russa, che comporta una lotta «quasi mortale», perché carattere russo e carattere spagnolo si assomigliano, in quanto miscuglio di orientale ed europeo. La lotta è soprattutto nei quadri grandi, dove l’influenza russa, malgrado butti nel fantastico, spinge a realizzare «forme come le vedono tutti»: la Stein arriva a dire «pornografiche». Picasso stenta a districarsi, e a questo punto «il solo modo per purgarsi di una visione che non era sua fu di smettere di esprimerla»: e smette di dipingere, naufragando nel trastullo di una lingua non sua, la poesia.
Ma «finalmente scoppiò la guerra in Spagna»: «non furono gli eventi stessi (…) a risvegliare Picasso, ma il fatto che accadevano in Spagna, aveva perso la Spagna ed ecco che la Spagna non era perduta», e dunque Guernica, e qui si chiude il libro.
«Scrivo con gli occhi»: esiste una fitta bibliografia che accosta il procedimento letterario di Gertrude Stein alla tecnica cubista e all’approccio di Picasso con la realtà visibile. La scrittrice l’ha suggerita e favorita, facendosi critica di se stessa. Certo la sua prosa anti-psicologica, tutta cose, dove le parole e anzi le sue adorate «frasi» hanno la consistenza delle mele di Cézanne, le stesse che le furono sottratte dal fratello Leo allorché separarono la collezione e in cambio delle quali Picasso regalò a Gertrude inconsolabile un’altra mela, sembra giustificare appieno questa lettura, a cui lei fornisce una corazza antropologica, stabilendo la concordanza, non così pacifica, fra cultura spagnola e cultura americana proprio nella percezione ‘oggettuale’ del mondo: il ritardo spagnolo e l’anticipo americano realizzano insieme il Novecento.
Se la pittura di Seurat e poi di Bonnard traducono in immagine la durata sentimentale del tempo formulata da Bergson, la Stein fa di Picasso, al contrario, l’artista di «cose che sono lì, tutto ciò che un essere umano può conoscere in ciascun momento della sua esistenza e non un accumulo di tutte le sue esperienze». Qui però sembrerebbero confrontarsi, più che l’Ottocento e il Novecento, due diversi Novecento, perché non è accettabile che la «memoria involontaria», con il continuum del tempo interiore che comporta, sia meno moderna della presa di possesso abrupta da parte dell’occhio, che fissa, e eternizza in pittura, l’oggetto nudo e crudo nel momento nudo e crudo. Dietro l’idea della Stein preme l’empirismo americano, nella forma radicale teorizzata da William James, il filosofo fratello di Henry, di cui la scrittrice era stata allieva prediletta.
Un altro concetto insistito riguarda la bellezza. La scoperta di un nuovo modo di vedere non si concilia con la bellezza, è necessariamente brutta. La Stein riferisce: «Picasso disse una volta che colui che crea una cosa è costretto a farla brutta». Questa bruttezza, che per la Stein contrassegna quella che Max Jacob chiamava «l’Età Eroica del cubismo» (ma anche, aggiungiamo, la primitività di Cézanne), dipende dal fatto, sostiene, che l’artista, mentre si inoltra nella nuova visione, non capisce «che cosa (…) ha fatto fino al momento in cui tutto è stato fatto»: «Nello sforzo di creare l’intensità e nella lotta per creare questa intensità il risultato produce sempre una certa bruttezza», a cui chi segue può agganciarsi facendone «una cosa bella perché sa ciò che sta facendo».
Finita l’età eroica del cubismo, dal 1913 al 1917 i quadri di Picasso «hanno la bellezza della completa maestria», dice la Stein: «Non c’erano cubi, c’erano semplicemente cose». Questo fino al viaggio in Italia e a Parade, che danno il la al secondo periodo naturalista (durato fino alle grandi donne e ai soggetti classici), dalla Stein riconosciuto come un periodo rosa adulto – così come si era inventata, stupendamente, un periodo verde, «meno noto, ma (…) molto molto bello», per il momento di transizione «prima del vero cubismo». Nella fase di stampo italiano, o se si vuole neoclassico, la padronanza tecnica di Picasso è tale da implicare meno sforzo, la «bellezza esisteva in sé». Con un’inversione di termini tipica della sua scapestrata mobilità semantica, Gertrude Stein sembra distinguere qui due tipi di bellezza: questa italiana è una bellezza «perfetta», la «bellezza della serenità», ma non è «la bellezza della realizzazione», cioè la ricerca di forme nuove, priva di appoggi esterni e di una tecnica del tutto metabolizzata, che aveva definito, in precedenza, «bruttezza».
Non bisogna credere che nelle fasi di malia, in cui Picasso è tratto fuori dalla sua visione, ogni traccia spagnola vada perduta. Permane una piccola riserva, a «consolarlo». In questo senso la Stein parla della calligrafia, della scrittura non in quanto integrazione ornamentale ma elemento di definizione strutturale dell’immagine, che in Picasso, malagueño, intriso di caratteri saraceni, rappresenta qualcosa di più resistente, di meno estirpabile. La speciale difficoltà provata nel confronto con l’arte russa dipende dalla tendenza altrettanto calligrafica orientale di quell’arte, che confonde la sua hispanidad: è proprio l’esperienza dei Balletti russi, nel 1918, a riattizzare in Picasso l’ancestrale sensibilità calligrafica. Rispetto al problema, che segue lungo le varie fasi di sviluppo dell’opera picassiana, Gertrude Stein si mostra particolarmente acuta nel definirne la funzione formale entro l’impianto generale, e un po’ dispettosa, sembra, con Matisse, al quale si era disinteressata dopo i primi anni di innamoramento – scoccato con l’acquisto, al Salon d’Automne fauve del 1905, della Femme au chapeau – quando scrive che «uno spagnolo può assimilare l’Oriente senza imitarlo, può conoscere cose arabe senza esserne sedotto».