domenica 16 dicembre 2018

Corriere La Lettura 16.12.18
Julian Snhabel
Ho camminato nella testa di van Gogh
di Valerio Cappelli


Una volta il grande produttore di cinema Samuel Goldwyn chiese lumi ai suoi collaboratori sui progetti in corso. «Ne abbiamo uno su van Gogh, dovrebbe interpretarlo Kirk Douglas». «Chi è van Gogh?», domandò Goldwyn. Un pittore, risposero. «Conosciuto?». Sì, è molto popolare. «Ok, facciamolo, intanto siamo sicuri che chi possiede un van Gogh andrà a vederlo».
Hanno girato oltre trenta film su van Gogh, prima del suo. Ma quest’ultimo che sta per uscire offre una prospettiva nuova. È come entrare, attraverso l’atto della creazione, nei pensieri di un genio che arrivò troppo presto per la sua epoca (in vita riuscì a vendere un solo quadro). In Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità (esce il 3 gennaio per Lucky Red), un pittore racconta un altro pittore: Julian Schnabel e Vincent van Gogh. Ma Schnabel è anche regista. Qui diventa pittore di immagini in movimento, ridisegna van Gogh con i suoi «colori»: «Non potrei fare un film più personale di questo».
Nato a Brooklyn da una famiglia ebrea, Schnabel dipinge solo quadri enormi: dice che gli piace passeggiare all’interno di una tela. Si divide fra arte e cinema, dove approdò negli anni Novanta. Nel ventennio precedente, l’arte era dominata dalla scultura concettuale; Schnabel riportò l’attenzione sulla pittura «fisica», performativa: «Quello che mi succede si riflette sul mio lavoro». L’eccentrico Schnabel è uomo di eccessi. A New York doveva ristrutturare il suo appartamento: costruì Palazzo Chupi (soprannome della seconda moglie), undici piani «nello stile architettonico del Nord Italia». Si giustificò: «Volevo più spazio». Dipinge con la musica di sottofondo (come nell’episodio di Scorsese in New York Stories, il film collettivo del 1989 da lui girato in condominio con Woody Allen e Coppola). E lo fa in maniera del tutto personale, su enormi cerate, quelle per coprire i camion, oppure usando le vele delle barche. A Bologna volevano donargli le chiavi della città: «Chiesi i tendoni del Municipio bruciati dal sole, mi tornarono utili per una mostra in Brasile». Veste solo in pigiama, anche quando deve calpestare il tappeto rosso, com’è successo tre mesi fa alla Mostra di Venezia, dove il suo protagonista, Willem Dafoe, ha vinto come migliore interprete per il film dedicato all’ultimo van Gogh (straordinaria somiglianza fra i due). Lo spettatore ha l’impressione di usare il joystick di un videogame; come se camminasse in un campo di grano giallo al fianco del pittore, accecato dal sole della Provenza, un dettaglio, le foglie degli alberi, poi un altro, e una scena prende forma. «Mi piaceva dare la sensazione di camminare con le scarpe di van Gogh».
Il suo film sembra un viaggio nella mente di van Gogh.
«È questo che ha reso il mio approccio diverso. Questo film è la cosa più vicina alla mia vita. Ho indagato su che cosa significhi essere artista. Molti pensano di sapere tutto su di lui, sulla sua vita e la sua pittura, in realtà si sa che era un po’ fuori di testa e che si era tagliato un orecchio».
Le scene sembrano tele in successione, sotto colpi di pennello veloci, nervosi.
«Per van Gogh il gesto deve essere netto. Quanto alla trama... Non c’è una cronologia esatta, volevo creare l’equivalente del senso di accumulazione che abbiamo quando usciamo da una mostra».
Willem Dafoe?
«Ci conosciamo da più di trent’anni. Gli ho detto di leggere il libro di Steven Naifeh e Gregory White Smith,Van Gogh: The Life. Willem ha imparato come toccare una tela, come accostarsi al colore e come affrontarlo. Ha capito che la pittura è una combinazione di ispirazione, impulso, tecnica, esercizio e poi abbandono dell’esercizio. Quando è morto, van Gogh aveva 37 anni, Willem ne ha 63. Ma Vincent era malridotto e Willem è in grande forma. La sua energia ha cancellato la differenza di età».
I fiori appassiscono e muoiono: quelli di van Gogh, no.
«In uno dei suoi autoritratti, Vincent, teso alla ricerca di ciò che si nasconde dietro la realtà, ha usato tre tipi di blu: il blu di Prussia, il ceruleo e il blu marina. In questo film i miei colori sono gli attori».
Dove avete girato?
«Siamo andati nei luoghi in cui van Gogh ha lavorato e ha vissuto negli ultimi due anni della sua vita. Arles, l’istituto psichiatrico di Saint-Rémy... Il film è narrato per gran parte in prima persona e questo dovrebbe dare allo spettatore la possibilità di conoscere la dimensione interiore di quest’uomo. Passeggiando, si vedono le cose in modo diverso. Vincent trascorreva molto tempo nella foresta camminando per lunghi tratti, volevamo arrivare a scorgere quello che vedeva lui».
La natura...
«In una battuta del film, Vincent dice: è tutto già presente nella natura, io devo solo liberarlo. È quello che accade quando dipingo o giro film. Vincent sentì di aver trovato il suo rapporto con Dio attraverso la natura. Dice: Dio è natura e la natura è bellezza. Andò nel Sud della Francia in cerca del sole come nessuno l’aveva dipinto. Si immerge nella natura e riflette sulla bellezza e sull’arte».
Qui lo raggiunge Gauguin...
«A un certo punto dice a van Gogh che sono incompatibili. Ma, ecco, non mi interessava indagare sulla loro tormentata amicizia; mi sono concentrato piuttosto sulle conversazioni attorno alla tecnica pittorica, o alla filosofia. Il rifiuto di ogni accademismo porterà Gauguin verso luoghi remoti».
La morte di van Gogh: lei smentisce la tesi del suicidio.
«Ascolti, non c’erano testimoni e lui non era depresso, risulta difficile credere al suicidio e non trovare l’arma. Ma non è questo il punto centrale del film. Volevamo smentire l’immagine dell’artista cupo e depresso. Ci interessava che van Gogh negli ultimi anni della sua vita fosse del tutto consapevole di aver acquisito una nuova visione del mondo. Non dipingeva più come gli altri pittori, offriva un nuovo modo di guardare le cose, e questo modo di vedere le cose è quello che volevamo mostrare nel film. È una storia sull’atto del dipingere».
Com’è nato il progetto?
«Non volevamo raccontare una biografia, Jean-Claude Carrière ed io. Abbiamo immaginato scene che plausibilmente dovrebbero avere avuto luogo, situazioni in cui van Gogh avrebbe potuto trovarsi, cose che avrebbe potuto dire. Il progetto è nato in un museo. Avevo portato Jean-Claude al d’Orsay alla mostra Van Gogh/Artaud: il suicidato della società. È ispirata all’omonimo libro di quel poeta visionario che è stato Artaud. Fu lì che cominciai a intuire la struttura del film. Quando sei davanti a singole opere, ciascuna ti dice qualcosa di diverso. Ma dopo aver visto trenta quadri, l’esperienza diventa qualcosa di più. È la somma di tutte quelle sensazioni messe insieme. Ed è l’effetto che volevo ottenere con il film, rendere la struttura tale che ogni evento che vediamo accadere a Vincent potesse sommarsi ai precedenti, come se lo spettatore potesse vivere tutta la sua vita in un momento».
Lei quando ha capito che voleva diventare artista?
«Presto, da giovane, all’epoca in cui avevo una enorme massa di capelli ricci e biondi. Anche se non sapevo di preciso che cosa fosse l’arte. Ero atletico, facevo surf, il contatto con il mare è una parte centrale della mia formazione. Ho usato l’acqua come soggetto e come materiale. I miei genitori mi volevano commercialista o medico e non avevano la più pallida idea di cosa stessi facendo: dipingere quadri. Ostentavo una sicurezza che non so da dove mi venisse».
Il cinema e l’arte «sono» movimento: lei ha girato un film...
«...Lo scafandro e la farfalla. Con quell’opera ho vinto un premio al festival di Cannes: è la storia di un uomo immobilizzato, in grado di muovere soltanto una palpebra. Tutto si svolge nell’animo del protagonista, il suo sguardo fisso nella macchina da presa. Ripensai a mio padre, che fu colpito da un ictus e l’infermiera gli diede il libro da cui è tratto proprio quel film. Conoscevo a memoria i dialoghi di Spartacus e de Il Padrino. Credevo di essere arrivato al cinema troppo tardi, era qualcosa che facevano gli altri. Il mio primo film è sul mondo dell’arte, si intitola Basquiat. Ho girato un corto con mia figlia Lola, che fu proiettato alle spalle dei concerti di Lou Reed: per me è stato come un fratello, con lui discutevamo di amori, del senso di perdita. I dipinti sono più ermetici dei film, dipingo solo ciò che mi sorprende o che non ho ancora visto. Fare arte significa allontanarsi dalla realtà. Ha un potere salvifico».