Corriere La Lettura 16.12.18
E l’uomo cominciò a prendersi cura dell’uomo
di Guido Tonelli
Quando
nasce la cura che gli umani dedicano ai propri simili? La questione mi
ha intrigato da sempre. La spinta a nutrire e proteggere i nostri
piccoli ha origine evidentemente da un dato biologico, un comportamento
necessario per la riproduzione. Apparteniamo alla classe dei mammiferi e
questa geniale invenzione dell’evoluzione per cui le femmine della
nostra specie sono in grado di nutrire per anni i piccoli, che
altrimenti sarebbero incapaci di sopravvivere, ha costituito un enorme
vantaggio. Qualcuno attribuisce a questa caratteristica, che si è
sviluppata, nelle forme primordiali, intorno a 200 milioni di anni fa,
il successo planetario dei mammiferi, che hanno occupato rapidamente
tutte le nicchie ecologiche rimaste vuote dopo la scomparsa dei grandi
rettili.
È avvenuto così anche per le scimmie antropomorfe da cui
discendiamo. Quello scambio primigenio di cibo fra madre e figlio,
quell’incrociarsi di sguardi in un colloquio muto di protezione e di
riconoscenza è forse alla base di tutti i legami sociali e di linguaggio
che saranno sviluppati nei milioni di anni a venire. Lo stupore nel
vedere sgorgare dalle mammelle turgide delle madri nutrimento per tutti —
sì, anche per gli adulti del clan quando la carenza di cibo metteva a
rischio la sopravvivenza del gruppo — si ritrova nelle prime
testimonianze artistiche: le decine di veneri preistoriche risalenti a
decine di migliaia di anni fa, tutte rappresentazioni dell’archetipo
dell’abbondanza, dee-madri dai seni rigonfi e dalle natiche imponenti.
Ma
l’attitudine a prendersi cura dei membri più fragili del clan, a curare
malati o feriti che pure possono essere di peso a piccole comunità in
lotta quotidiana per la sopravvivenza, da dove nasce? In questo caso si
deve trattare di qualcosa di più sofisticato, meno immediatamente
riconducibile a un istinto biologico.
Le indagini relative ai
primi gruppi di sapiens che hanno popolato l’Europa hanno documentato
pratiche compassionevoli di assistenza a feriti o malati risalenti a
oltre 30 mila anni fa. Individui che riescono a sopravvivere a ferite
gravissime, ossa malamente fratturate che sono state in qualche modo
ricomposte, segni di patologie invalidanti che non impediscono di
raggiungere età molto avanzate, evidentemente grazie al sostegno della
comunità. Più recentemente sono state raccolte evidenze inequivocabili
che comportamenti simili erano già diffusi presso i Neanderthal, specie
che ha colonizzato l’Europa duecentomila anni prima di noi. Nonostante
si tratti di una scala dei tempi piuttosto ragguardevole, mi è sempre
restata l’impressione di un’acquisizione relativamente recente, se
paragonata alle epoche che hanno visto lo sviluppo dei primi ominidi,
che si misurano in milioni di anni.
Ho mantenuto questo
pregiudizio, evidentemente legato alla mia scarsa informazione, fino a
un paio di anni fa. Nel maggio 2016 sono stato invitato a fare una breve
visita in Georgia e, in quell’occasione, ho trovato una risposta
inequivocabile ai miei dubbi.
Il governo della giovane repubblica,
a pochi anni da una stagione di conflitti e turbolenze, cercando di
guardare al futuro aveva deciso di investire in ricerca. Ero stato
invitato a Tbilisi, assieme a un gruppo di scienziati di vari Paesi, per
tenere a battesimo l’Istituto tecnologico della Georgia, una bella
struttura che verrà costruita nei pressi della capitale; l’edificio
ospiterà varie attività di ricerca, ma l’infrastruttura principale sarà
un acceleratore destinato all’adroterapia, il trattamento di alcuni tipi
di tumore con fasci di protoni e ioni carbonio. Assieme a colleghi
georgiani di grande prestigio internazionale, come Gia Dvali, uno dei
padri della teoria delle extra-dimensioni spaziali, nel comitato
scientifico internazionale che dovrà valutare l’avanzamento del progetto
avevo ritrovato vecchi amici come François Englert, Sergio Bertolucci e
Lars Brink, per anni presidente del comitato Nobel per la fisica.
La
cerimonia del primo colpo di piccone era prevista per il lunedì con la
presenza del primo ministro e ambasciatori di tutti i Paesi. Noi eravamo
arrivati nel weekend e la domenica i colleghi georgiani avevano
organizzato in nostro onore un incontro con decine di studenti
entusiasti che ci avevano bersagliato di domande sul Cern, la fisica,
l’origine dell’Universo. Alla fine della giornata era prevista la visita
al Museo nazionale della Georgia, diretto da David Lordkipanidze, un
paleoantropologo di fama internazionale.
Come tutti i georgiani il
suo nome è quasi impronunciabile, ma, fin da quando ci aveva accolto
con un grande sorriso, il direttore ci era sembrato un tipo aperto e
simpatico. Il museo era stato aperto solo per noi e lui ci faceva da
guida. Al piano sotterraneo c’era un’esposizione che da sola valeva la
visita: centinaia di manufatti d’oro e d’argento, collane, monili, vasi,
figure animali splendide; testimonianze di una grande tradizione di
lavorazione dei metalli preziosi, che data dall’inizio del secondo
millennio avanti Cristo. Il tesoro esposto era impressionante e mentre
ero lì a meravigliarmi di questa bellezza, ecco che qualche neurone
laterale faceva scattare la sinapsi giusta: la Colchide. Ma come non
pensarci prima! Eravamo nella regione in cui si è avventurato Teseo, con
la sua ciurma di Argonauti. Cercavano il vello d’oro, il mitico trofeo,
emblema fantastico delle pelli di pecora con cui i cercatori
ostacolavano il corso dei piccoli torrenti per fare in modo che le
pagliuzze d’oro vi restassero impigliate. Di colpo anche il mito greco
diventava chiaro e plausibile: valeva la pena intraprendere un viaggio
tanto pericoloso se la posta in gioco era un Paese così ricco di metalli
preziosi. Ma le sorprese non erano finite.
Tutti in realtà non
vedevamo l’ora di ammirare il vero tesoro del museo, molto più prezioso
delle grandi quantità d’oro che brillavano nella sala dei gioielli.
Erano i resti fossilizzati dei cinque ominidi che Lordkipanidze aveva
scoperto nei suoi scavi a Dmanisi. Tutto era iniziato in una piccola
località, 93 chilometri a sud-ovest della capitale. La città medievale
di Dmanisi sorgeva su una piccola altura rocciosa alla confluenza fra
due fiumi, e godeva di una certa prosperità, perché si trovava sulla via
della seta che univa Bisanzio con la Persia, passando per l’Armenia.
Era luogo di sosta e di scambi commerciali fra mercanti di tutte le
nazionalità ed era difesa da un castello e una cinta fortificata, che
non servirono a molto, tuttavia, quando i Turcomanni alle fine del
Quattrocento le diedero l’assalto. La città fu rasa al suolo, gli
abitanti uccisi o dispersi e, da allora, divenne un piccolo villaggio
semiabbandonato.
Gli archeologi che iniziarono gli scavi fra le
rovine del castello vi rinvennero molte testimonianze importanti degli
antichi splendori, ma le vere sorprese cominciarono quando si scavò, in
corrispondenza di un pozzo, al di sotto dello strato medioevale. Prima
comparvero denti di una specie di rinoceronte estinta da milioni di
anni, poi utensili in pietra molto primitivi. La cosa attirò
l’attenzione dei paleontologi; ne nacque una campagna di scavi che
disseppellì fossili di elefanti, gazzelle, rinoceronti e altra fauna del
Pleistocene, un periodo compreso fra 1,5 e 2 milioni di anni fa.
Nel
1991 partecipava agli scavi anche il giovane professore di
paleoantropologia Lordkipanidze che collaborava con università tedesche.
Come succede nei film, proprio all’ultimo giorno di una campagna di
scavi che era iniziata mesi prima, Antje Justus, un suo laureando, stava
liberando dai sedimenti lo scheletro parziale di una tigre dai denti a
sciabola; ed ecco che sotto i resti del felino estinto appare la
mandibola fossilizzata di un ominide, perfetta, con tutta la dentatura
completa. Da quel momento la terrazza vulcanica di forma triangolare, su
cui poggiava l’antica città di Dmanisi, divenne una delle località più
conosciute al mondo. Alla fine degli scavi si conteranno migliaia di
artefatti, soprattutto pietre scheggiate, moltissimi fossili e cinque
crani, pressoché completi, di Homo erectus, risalenti a 1,8 milioni di
anni fa. Erano i primi abitanti dell’Europa, gli ominidi più antichi che
si sono avventurati fuori dall’Africa, gli antenati di innumerevoli
generazioni di esploratori.
Ed eccoci al momento clou della
visita, quello che aspettavamo con impazienza, da quando ci era stato
annunciato come fuori programma. Andiamo nel suo studio, dove sono
conservati i reperti originali degli ominidi di Dmanisi, perché avremo
il privilegio di vederli da vicino.
Quando, dopo aver indossati
guanti adatti, tocco il piccolo cranio che Lordkipanidze ha estratto da
una scatola speciale, l’emozione è fortissima. Tengo fra le mani un
reperto di importanza straordinaria, ma la cosa più incredibile è che le
mandibole sono lisce, non ha neanche un dente. Il direttore spiega che
quando l’ha visto per la prima volta non ha potuto trattenere le
lacrime.
L’individuo, rispetto alla vita media dell’epoca, era
molto vecchio, si stima avesse superato i quarant’anni, e aveva perso
tutti i denti; la cosa più sorprendente era che fosse sopravvissuto così
a lungo, perché nella mandibola non c’era segno delle cavità occupate
dai denti: dovevano essere passati alcuni anni prima che l’osso
riuscisse a riempirle.
Tenevo fra le mani la prima testimonianza
di una comunità che, per anni, aveva cercato e masticato cibo per far
sopravvivere un membro più debole; avevo di fronte a me la prova che la
compassione, la spinta a farsi carico dei più fragili fra gli esseri
umani, affonda le sue radici nella notte dei tempi.