Corriere 6.12.18
Le illusioni della sinistra al tempo del «plebeismo»
di Paolo Franchi
Assicura
Matteo Renzi, intervistato nei giorni scorsi dal Messaggero , che
«quando un palloncino vola sembra inarrestabile, ma basta uno spillo per
bucarlo». Se n’è accorto lui nella scorsa legislatura, se ne accorgerà
Matteo Salvini nelle prossime elezioni europee quando il mondo
produttivo del Nord gli volterà le spalle: «Agli italiani puoi fare di
tutto, ma guai a chi tocca il portafoglio, penso che dopo la luna di
miele per Salvini stia iniziando la discesa». C’è da chiedersi se queste
valutazioni siano state formulate sulla base di qualche analisi
documentata, o almeno di qualche segnale ignoto ai più, e tuttavia
significativo. Ma c’è da temere che non ci siano né analisi né segnali.
Molto probabilmente Renzi ha parlato, come suol dirsi, a naso. Non è un
caso isolato, un’eccezione: è la regola. Per questo, forse, vale la pena
di cominciare ragionarci un po’ su.
Naso, intuito, fiuto: in
politica sono molto importanti. Ma, a parte il fatto che bisogna esserne
dotati davvero (e su Renzi, come su altri leader o ex leader europei
contemporanei, da Emmanuel Macron a David Cameron, almeno qualche dubbio
è lecito), funzionano, in generale, nelle situazioni per così dire
normali. Dopo un disastro, molto meno. Perché i disastri non sono dei
lampi di follia che hanno accecato per un attimo un elettorato credulone
né degli accadimenti che si lasciano archiviare rapidamente in nome del
ritorno al buon senso. Hanno una storia lunga alle spalle e segnalano
un mutamento tellurico della morfologia sociale, politica e culturale.
Ed è tutto da stabilire se sia stato solo il terremoto a far crollare il
quadro di riferimento in cui eravamo abituati a ragionare e che
reputavamo immutabile, o se sia vero anche l’esatto contrario: certo, i
populismi delle più diverse estrazioni mettono a serio repentaglio la
democrazia liberale, ma se la democrazia liberale non fosse afflitta da
una crisi tanto profonda probabilmente i populismi non si sarebbero
espansi in misura tanto vistosa. In poche parole: c’è poco da fiutare,
c’è da farsi in quattro prima di tutto per capire che cosa è successo,
poi se è possibile, e come, venirne fuori. In quale direzione. Con quale
idea di Paese e di Europa. Perché una discussione sulle sorti del
centrosinistra o del centrodestra, a parte forse i diretti interessati,
non appassiona nessuno.
La riflessione critica e autocritica si
addice poco, a quanto pare, alla politica post democratica o
democratico-illiberale. Meglio un tweet, o anche una comparsata in uno
dei tanti salotti televisivi, fatta in modo di consentirci, come si
diceva una volta, di bucare il video. Vero. Però, se la politica
democratica vuole cercare di capire come e perché rischia di diventare
una specie di residuato bellico, forse non ne verrà a capo, ma di sicuro
il metodo Casalino (ottimo, gaffes comprese, per i vincitori) non le
servirà a nulla. In quasi otto mesi (tanti ne sono passati dalle
elezioni che hanno sancito il disastro di cui sopra) a nessuno è passato
per la testa di provarsi a mettere insieme, per discuterne apertamente
davanti al Paese, un’agenda dei possibili perché e dei possibili percome
della disfatta. Nemmeno il congresso del Partito democratico pare avere
intenzione di farlo, tutto impegnato com’è in una gara tra i candidati
alla leadership (di che cosa?) che, leggiamo, appassiona il 9 per cento
degli italiani. E su cosa si accalori, nell’ex centrodestra, quel che
resta di Forza Italia, non è dato sapere, sempre che, naturalmente,
qualcosa da sapere ci sia.
Per discutere seriamente, la prima
regola è nominare con la massima precisione possibile ciò di cui si
vuole parlare. Per esempio. C’è stato, come si dice a ogni piè sospinto,
un fragoroso divorzio tra il popolo e la sinistra? La risposta esatta
sarebbe: anche. Perché non è vero che nella nostra storia repubblicana
popolo e sinistra siano stati dei sinonimi. Nella prima Repubblica il
partito più votato dal popolo era la Democrazia cristiana. Nella seconda
il leader più apprezzato e più votato dal popolo era Silvio Berlusconi.
Per come lo abbiamo inteso nella prima parte della storia repubblicana,
il popolo è stato una lunga e paziente costruzione politica,
intellettuale e anche (eccome!) organizzativa, nella quale furono
decisivi i partiti, la Chiesa, le comunità intermedie, certo, ma anche
le cosiddette élite (cattoliche, marxiste e laico-liberali) ebbero un
ruolo di primo piano: se qualcuno avesse dei dubbi in proposito, provi a
leggere il carteggio, correva l’anno 1947, tra un grande banchiere
pubblico come Raffaele Mattioli e Palmiro Togliatti. Il problema (se
preferite, il dramma) che ci lasciano in eredità vent’anni e passa di
una seconda Repubblica tanto fracassona quanto inconcludente è la
progressiva decostruzione di questo popolo, cui ha corrisposto la
nascita di una moderna, se volete modernissima, plebe, che è cosa
infinitamente diversa. Ed è una sorta di moderna, se volete
modernissima, secessio plebis quella che ha portato al potere, in
condominio, due forze a diverso titolo plebee forse più ancora che
populiste. Pensare che questa non sia una rottura storica, ma una specie
di incidente di percorso, superabile rapidamente perché molto presto
gli elettori, preso atto a proprie spese del vicolo cieco in cui si sono
andati a cacciare, torneranno agli antichi ovili, è semplicemente fuori
della realtà. Stupisce, e se vogliamo atterrisce, il solo fatto che se
ne parli come di una cosa seria.