giovedì 6 dicembre 2018

Corriere 6.12.18
«Data di nascita, si parta dall’embrione»
Blangiardo, candidato alla presidenza Istat: ma non sono contro la 194. Dubbi dei parlamentari sulla nomina
di Claudia Voltattorni


Roma Lui parla di «un esercizio», come quello sulle «tavole di nunziabilità che l’Istat faceva una volta: se io le facessi sulla probabilità di convivenza, non significherebbe che sono contro il matrimonio». Ma quella «speranza di vita al concepimento» ipotizzata anni fa in un editoriale su Avvenire e ribadita più volte nel tempo (tanto da diventare una sorta di manifesto per le associazioni pro-vita), per il professor Gian Carlo Blangiardo, 69 anni, demografo dell’Università Bicocca e candidato presidente Istat, rischia di trasformarsi in un tallone d’Achille e mettere in discussione il suo arrivo alla guida dell’Istituto nazionale di statistica. Ieri le commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato lo hanno ascoltato in audizione: entro il 13 dicembre dovranno votare la sua nomina proposta dal consiglio dei ministri; lui dovrà ottenere i due terzi dei consensi per diventare presidente. Ma la strada appare tutt’altro che in discesa. Anche fuori dal Parlamento. Ieri mattina, dalla sede dell’Istat a Roma pendeva uno striscione con la scritta «Istat indipendente, stop Blangiardo». E su Change.org i lavoratori Istat hanno lanciato una petizione contro la sua nomina «inadeguata».
Ancora una volta fanno discutere le sue posizioni su natalità e aborto. Rispondendo ai dubbi dei parlamentari (Loredana De Petris di Leu e Riccardo Magi di +Europa, soprattutto), Blangiardo ha spiegato il suo «esercizio» che fa partire l’aspettativa di vita dal momento del concepimento, cioè dall’embrione anziché dalla nascita. Nel 2013 parlò di «un popolo dei non nati» calcolando 5 milioni di aborti dai primi anni ’80. «Ma questo — critica Magi — ti porta ad equiparare l’interruzione di gravidanza alla mortalità infantile e alle malattie e quindi abbassa la speranza di vita: non è possibile che un presidente dell’Istat faccia questi calcoli». E pure De Petris attacca «le prese di posizione sulla legge 194» che, «come quelle contro lo ius soli e sull’immigrazione denotano un preciso schieramento politico che confligge frontalmente con la doverosa imparzialità che si richiede a un presidente dell’Istat». Blangiardo però chiarisce di «non volere l’abolizione della legge 194: alle donne non dico “non abortite”, mi piacerebbe però che non dovessero abortire, magari creando le condizioni per evitarlo».
Ma tant’è. Il professore non riesce a convincere i suoi interlocutori. Anche quando parla di immigrazione, rispedendo al mittente le accuse di razzismo, «mi fa specie, io che ho due nipoti di colore, africane». Ribadisce di credere in un «Istat pubblico e imparziale, che tale deve rimanere» e sottolinea la sua di imparzialità, nonostante le accuse di una vicinanza eccessiva alla Lega: «Non ci trovo nulla di strano nell’andare in sedi diverse a raccontare il mio pensiero: sono stato dalla Lega come dalla Cisl, nelle sezioni Pd come nelle parrocchie e nei circoli Arci e anzi, quella dell’Arci è l’unica tessera che ho, me l’hanno appena regalata».
Dice Blangiardo di «credere nella verità dei numeri che non vanno però mai e poi mai costruiti per assecondare chi ci ascolta, ma raccontare tutta la realtà». Però sull’immigrazione aggiunge che qualcosa è mancato: «A volte non c’è stato l’uso corretto dei dati statistici, come nel caso dell’immigrazione, dove è mancata una lettura onesta dei dati dell’Istat, ecco, io metto in discussione l’uso strumentale dei dati. Ammette però la sua «poca esperienza internazionale, non amo fare reti», requisito invece richiesto dall’Europa per guidare un istituto nazionale di statistica. E sul suo curriculum si legge «membro del Government Expert Group on Demographic Issues of the European Commission». «Ma come? — si chiede Magi di +Europa —: quel gruppo non esiste più dal 2012».

il manifesto 6.12.18
Savona non tratta: “C’è una recessione, ora bisogna agire”


Il discorsoè generale e in termini tanto politici che di teoria economica non fa una piega. Solo che quelle parole, pronunciate ieri da Paolo Savona alla presentazione del libro Gli arrabbiati di Paolo Sommella, sono anche l’emergere a coscienza di una linea alternativa di politica economica nell’esecutivo insieme più moderata e più battagliera: “L’Italia non può attendere per fronteggiare i rischi di una recessione produttiva dovuta da problemi geopolitici”. E cosa non può attendere? La lenta transizione politica che seguirà alle Europee del prossimo anno per avere interlocutori meno astiosi: “Il nostro dovere è agire”. Con gli attuali protagonisti dell’Unione europea, però, “non ci può essere un dialogo al di là del contingente, spero che non ci siano danni irreparabili. L’Italia non può attendere in una situazione di alta disoccupazione e povertà inaccettabile, se non troviamo una soluzione ‘gli arrabbiati’ del libro aumenteranno ancora”. Com’è noto Savona, economista liberale assai poco incline alla spesa in deficit, vorrebbe che la manovra fosse incentrata – più che su reddito di cittadinanza e pensioni – sugli investimenti per spingere la crescita.

La Stampa 6.12.18
Se la lista d’attesa è troppo lunga il medico non potrà lavorare nel privato
Il ministero fissa i tempi massimi per le prestazioni: l’Asl che non li rispetta dovrà rimborsare il paziente
di Paolo Russo


I medici ospedalieri e delle Asl non potranno più fare attività libero professionale se non rispettano i tempi massimi di attesa per visite, ricoveri e analisi. La novità destinata a sollevare malcontento tra i camici bianchi è contenuta nel nuovo Piano nazionale per il contenimento delle liste d’attesa, trasmesso ieri dal ministro della Salute, Giulia Grillo, alla Conferenza delle Regioni, che dovrà adottarlo entro 60 giorni. «Un provvedimento assente da 10 anni e che fissa regole certe, stanziando 350 milioni nel triennio per dire basta alle attese infinite per una vista medica o un esame diagnostico», ha dichiarato la responsabile della Sanità. Che nel documento di 172 pagine piazza anche un’altra novità importante: la possibilità per i cittadini che non vedano rispettati i tempi massimi di attesa di rivolgersi a strutture private o nei reparti solventi di quelle pubbliche, pagando al massimo il ticket mentre la prestazione sarà a carico dell’Asl. «Un diritto - spiega Tonino Aceti, segretario nazionale del Tribunale dei diritti del malato - che era già contemplato da una norma transitoria del 1998, poi superata dai diversi piani regionali anti-liste di attesa, con alcune Regioni che hanno ribadito il principio guardandosi bene dall’applicarlo».
Quattro classi di priorità
Anche lo stop alla libera professione medica non è del tutto inedito, ma fino ad oggi era previsto solo nel caso dentro gli ospedali il volume dell’attività privata superasse il numero di prestazioni nel pubblico. Ora invece il nuovo Piano prevede che anche «in caso di sforamento dei tempi di attesa massimi si attua il blocco dell’attività libero professionale».
I tempi massimi fissati dalla Grillo per le prestazioni ambulatoriali sono suddivisi in quattro classi di priorità: urgente entro 72 ore, breve entro 10 giorni, differibile entro 60 giorni per le analisi e 30 per le visite, programmata entro 120 giorni.
Limiti vengono fissati anche per i ricoveri programmati. I casi più gravi dovranno ottenere un letto entro 30 giorni, i «casi clinici complessi» entro 60 giorni, i casi meno complessi nell’arco di 120 giorni. Ovviamente per le vere urgenze si passa per il Pronto soccorso, che deve in poche ore provvedere al ricovero. E fin qui poco di nuovo. Ma mentre il vecchio piano si limitava poi a fissare dei tempi massimi solo per 52 prestazioni, oggi la pila di allegati lo fa per tutte. Così ad esempio si dice che un ecocolordoppler cardiaco va fatto entro 60 giorni in casi di soffio al cuore asintomatico, ma in sole 72 ore se il paziente i sintomi li accusa eccome. E sempre per capire il livello di dettaglio a un bambino con massa del collo fissa, che potrebbe essere sintomo di meningite, l’ecografia va effettuata non oltre le 72 ore.
Il nodo dei macchinari
Per rispettare questi tempi il piano obbliga tutti i medici che lavorano nel pubblico a indicare il codice di priorità nelle prescrizioni, i Cup a gestire in esclusiva le agende di prenotazione, comprese quelle dei privati accreditati. Questo per evitare che in alcune strutture qualcuno non rispetti l’ordine di attesa. Basta anche con i continui rimbalzi tra medici specialisti e di famiglia. Una volta che la Asl prende in carico il paziente i successivi controlli dovranno essere direttamente prenotati dallo specialista tramite apposite agende dedicate al monitoraggio dei pazienti cronici.
Il piano dice anche che per abbattere le liste di attesa i macchinari diagnostici debbano lavorare «all’80% delle loro potenzialità». Mica facile in un Paese dove secondo i dati di Assobiomedica più della metà di Tac, risonanze e apparecchiature varie è obsoleta e dove i contratti di manutenzione si fanno col contagocce per lungaggini burocratiche e carenza di risorse.

La Stampa 6.12.18
“Un regalo alle cliniche
La svolta solo assumendo”


Il blocco dell’attività libero professionale se si superano i tempi massimi di attesa non piace ai medici e Carlo Palermo, segretario del sindacato dei camici bianchi ospedalieri Anaao spiega perché.
Alcuni medici non potrebbero avere interesse a mantenere le liste d’attesa per convogliare pazienti nel privato?
«I colleghi che agiscono così sono veramente pochi e le aziende sanitarie pubbliche ci metterebbero poco a scoprirli: basta controllare i singoli piani di lavoro. È vero invece che se impediamo l’attività libero professionale dentro gli ospedali avremo come effetto solo quello di far aumentare le liste perché mancherà anche un’alternativa. Così fanno un regalo al privato dove dovranno rivolgersi i pazienti. E poi si colpiscono le donne che in larga maggioranza il proprio ginecologo vogliono sceglierselo».
Ma se si scopre che qualcuno fa il furbo?
«In quel caso l’attività libero professionale va sospesa. Ma dopo aver dimostrato che la si fa a danno dell’attività ambulatoriale pubblica. Addossare così la responsabilità ai medici significa voler nascondere i veri problemi che allungano le liste».
E quali sono?
«Che mancano medici e infermieri, che le attrezzature si rompono ogni due secondi. Non abbiamo più anestesisti per far funzionare le sale operatorie, siamo del 10-15% sotto organico e in queste condizioni le prime attività a saltare sono quelle ambulatoriali. Oppure si finisce per non fare gli interventi chirurgici meno complessi, come un’ernia o una colecisti perché altrimenti mancano poi i medici per operare tumori e cuori malati. Noi ospedalieri abbiamo accumulato qualcosa come 15 milioni di ore di straordinario non retribuite. Mandiamo avanti il sistema e ci si vuole buttare la croce addosso aumentando la conflittualità già alta con i cittadini».
Cosa ne pensa del trucco di chiudere le liste di attesa?
«Che è una cosa vietata per legge ma a fine anno diverse aziende sanitarie pubbliche e private accreditate lo fanno per spendere meno e stare in budget sempre più risicati. In sanità bisogna tornare ad assumere e ad investire. Non scrivere libri dei sogni». pa.ru.

Il Fatto 6.12.18
Le bombe italiane ai sauditi: ecco il contratto segreto
Aggirare i vincoli - In un documento del 2012, la “triangolazione” tra gli americani di Raytheon, i tedeschi di Reinhmetall e l’italiana Rwm
di Madi Ferrucci, Flavia Grossi e Roberto Persia


Da mesi l’Arabia Saudita è al centro delle polemiche per l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi. La Germania ha fermato l’export degli armamenti ai sauditi e anche Norvegia, Finlandia e Danimarca ne hanno richiesto la sospensione. Ma la vendita di armi continua attraverso le filiali all’estero. In Germania Rheinmetall, uno dei colossi della produzione di armamenti, esporta verso l’Arabia Saudita, attraverso la succursale italiana Rwm, con sede a Domusnovas in Sardegna. Esiste un contratto riservato, con data 29 novembre 2012 tra la Rwm Italia e la Raytheon Systems inglese, per un ordine di 63,2 milioni di euro di forniture, in cui è citato il contratto madre tra Raytheon e il ministero della Difesa dell’Arabia Saudita. Il contratto svela il gioco di Germania, Inghilterra, Italia e Stati Uniti, in un intreccio di rapporti commerciali costruito per fare in modo che tutti siano colpevoli ma nessuno lo sembri.
L’azienda inglese è una filiale della Raytheon, uno dei maggiori produttori di armamenti degli Stati Uniti. La firma sul documento è quella dell’ad di Rwm, l’ingegner Fabio Sgarzi, mentre l’uomo della Raytheon che ha richiesto l’ordine è Peter Ashby, il responsabile commerciale dell’azienda. L’azienda anglo-americana paga su un conto Deutsche Bank e la fabbrica sarda si impegna a fornire le armi richieste nell’arco di 57 mesi, entro giugno 2017. È ragionevole supporre che la triangolazione sia valida anche per i contratti successivi: Rheinmetall nell’assemblea degli azionisti dell’8 maggio 2018 a Berlino ha annunciato nei prossimi anni una salda partnership con Raytheon. Giorgio Beretta di Opal Brescia (Osservatorio permanente sulle armi leggere) calcola: “La fabbrica di armi ha una produzione massima di 50 milioni di euro all’anno, pertanto ogni nuovo ordine si protrae certamente per più anni”. Tra il 2016 e il 2017 ci sono state commesse all’Arabia per un totale di oltre 460 milioni: servirebbero quindi almeno 9 anni per evaderli tutti. Le bombe sono della serie Mk 83, 59,9 milioni di euro sono per le bombe che contengono esplosivo, mentre 2,5 milioni di euro sono per le bombe inerti. L’invio delle prime 3950 è previsto entro 24 mesi dalla data di inizio del contratto.
Raytheon UK ha tra i suoi dispositivi brevettati il Pavway IV Tactical Penetrator, necessario a rendere le bombe precise. Una bomba con Pavway IV nel maggio 2015 è stata ritrovata nello Yemen dall’agenzia Onu Unhcr e nell’ottobre 2016 componenti della bomba MK84, prodotta dalla Rwm Italia, sono state trovate nel villaggio di Deir al-Hajari nello Yemen nord occidentale a seguito di un attacco che aveva ucciso una famiglia di 6 persone.
La legge tedesca non autorizza l’esportazione di armi al fine di una guerra considerata offensiva, per eludere la normativa nazionale le aziende in affari con l’Arabia devono quindi servirsi di fabbriche all’estero. In questo modo Rheinmetall non figura mai nei contratti con i sauditi in maniera diretta. L’italiana Rwm che da anni riceve invece autorizzazioni dallo Uama (Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento) al ministero degli Esteri. Durante l’assemblea degli azionisti di Rheinmetall del 2017 a Berlino, il presidente Armin Papperger ha descritto la strategia “di internazionalizzazione” dell’azienda: delocalizzare la produzione in Paesi dove risulta più semplice ricevere le autorizzazioni.
Però in Italia la legge 185 del 1990 vieta la vendita di armi “in Paesi in stato di conflitto armato, i cui governi siano colpevoli di violazione dei diritti umani”. Alla fine di agosto 2018, una commissione di esperti dell’Onu ha accertato la violazione dei diritti dell’uomo nel conflitto yemenita. Il presidente di Rheinmetall tuttavia, nell’ultima assemblea degli azionisti, ha negato ogni responsabilità: “Noi esportiamo verso Paesi con governi democratici. Per l’export di materiale bellico dall’Italia le autorizzazioni spettano esclusivamente all’Italia. Se il governo modificherà la prassi delle autorizzazioni, Rheinmetall si adeguerà”.
Nel 2015 l’allora ministra della Difesa Roberta Pinotti, in un’intervista a Repubblica Tv, spiegava: “Le bombe non sono italiane, sono un contratto di un’azienda americana che utilizza come subcontratto un’azienda tedesca: la Rheinmetall, che ha due fabbriche in Italia”. Il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, poco dopo il suo insediamento a giugno, aggiungeva: “Prima dell’ultima riforma esisteva l’autorizzazione politica, il ministero dello Sviluppo approvava la singola vendita. Oggi ci sono soltanto dei passaggi tecnici. Questo comporta che la Rwm può dire che le armi vanno in Germania e non in Arabia Saudita. Se le armi però vengono vendute con un contratto tra l’Italia e l’Arabia Saudita, è certamente responsabilità italiana”.
A settembre il ministro della Difesa Elisabetta Trenta ha sollecitato il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi sulla questione dell’export verso l’Arabia, richiedendo un controllo specifico. La Farnesina, che in questi anni ha sempre sostenuto la linea di un rispetto formale della legge 185 nel caso Rwm, ha fatto sapere in via informale di aver avviato ispezioni ma per ora non ci sono divieti. Il 28 novembre il presidente della commissione Esteri del Senato Vito Rosario Petrocelli ha detto: “Se tutti i governi precedenti non sono riusciti a fermare l’esportazione significa che la legge deve essere riformata”.
Per il momento l’export italiano non si ferma. Anzi, a Iglesias, Comune adiacente al sito della fabbrica, il 9 novembre il Suap (Sportello unico per le attività produttive) del Comune ha approvato l’ampliamento del sito produttivo della fabbrica per due nuovi reparti grazie ai quali la produzione passerà da 5000 a 15000 bombe all’anno. È invece bloccata in fase istruttoria presso la regione Sardegna l’autorizzazione per la costruzione di un nuovo campo per i test.
Rheinmetall, nonostante il recente stop tedesco all’export, non ha affatto intenzione di bloccare le vendite ai sauditi. Anche la cancelliera Angela Merkel non sembra troppo preoccupata, forse perché Rheinmetall lo scorso anno ha donato a Spd e Cdu 125.000 euro complessivi. Intanto nello Yemen l’ultima tregua del 19 novembre già vacilla e il presidente filo-saudita Hadi si è rifiutato di cedere all’Onu il controllo del porto di Hodeidah, fino a poco tempo fa scalo essenziale per gli aiuti umanitari, oggi diventato il nuovo terreno di scontri quotidiani.

il manifesto 6.12.18
I muri italiani di «papà» Salvini
di Ascanio Celestini


È da un po’ che non gira più la domanda: perché scrivete? Ogni tanto qualcuno azzarda quell’altra: perché leggete? Anna Maria Ortese diceva che leggere ti porta a casa. E così scrivere. Ma poiché la lettura sta uscendo di scena, con lei se ne va anche il ritorno a casa.
E infatti per lui gli immigrati non sono poveri come gli italiani di razza. I poveri che parlano napoletano o milanese hanno più diritti di quelli che hanno imparato l’inglese e il francese nelle loro patrie colonizzate e derubate da noi occidentali. Nella legge di bilancio il governo ha approvato la carta famiglia per le famiglie a basso reddito eliminando dagli aventi diritto le famiglie degli extracomunitari, degli immigrati poveri, benché residenti in Italia da molti anni. Ha inoltre bocciato la proposta del fondo per i figli delle donne vittime del femminicidio. C’est la vie.
Così, in questo modo e con questo linguaggio, il nostro paese sta tirando su i muri.
È un gioco suicida.
Che però gli fa accumulare una montagna di voti. Tanti punti come al supermercato. Il ministro Salvini si merita un’aspirapolvere in omaggio. E il vice Di Maio un asciugacapelli.
Io me li immagino così. Me li immagino come ragazzini che dicono tutte quelle cose orrende solo per accumulare punti.
Che si vanno a vedere quanti like gli mettono gli italiani sulla pagina Facebook. Quanti voti prenderebbero se si votasse domattina. E intanto c’è la gente che soffre per davvero. Che muore. Lo fanno solo per questo motivo? Per accumulare punti? No. Non è una lotteria popolare, è una visione del mondo che cercano di far passare. Come esempio basta ricordare quello che papà Salvini ha detto durante l’ultima adunata leghista di Pontida. Cioè che bisogna cambiare la legge 180, quella conosciuta come legge Basaglia che ha chiuso le istituzioni carcerarie-manicomiali. E perché? Perché lui è il ministro degli interni. E se si mette a parlare di una questione del genere significa che riduce anche la salute mentale semplicemente a una questione di ordine pubblico. Ecco. Per questo tizio è tutta una questione di ordine pubblico. La povertà e il lavoro, la malattia e la cultura.
Tutta una questione che si sbriga il ministro dell’interno. Tutta una questione di ordine pubblico.
E invece no, caro papà, siamo una minoranza, ma siamo di sinistra. Per noi c’è bisogno di fare ragionamenti complicati che distinguono una questione dall’altra. Per noi i discorsi sono tutti diversi e le persone sono ancora tutte uguali.

Repubblica 6.12.18
Il punto
Eutanasia l’ultima tappa dei dem
di Stefano Cappellini


Essendo le analisi renziane tutte basate sull’assunto che i (pochi) successi elettorali dell’ultimo lustro siano suoi personali e i (molti) insuccessi causa del suo stesso partito.
Renzi lo definisce il "fuoco amico", o anche la "spersonalizzazione", concetto coniato di recente per sostenere che il 18 per cento raccolto dai dem alle politiche sia da attribuire a Paolo Gentiloni o comunque al presunto passo di lato del vero leader. Il che è in fondo, ai suoi occhi, anche il peccato capitale di questo congresso dem appena aperto: non prevede che si possa votare per Renzi e ciò lo deve rendere ai suoi occhi particolarmente inutile.
Naturalmente lo stato comatoso di questo Pd non è figlio solo del disinteresse del suo capo più in vista, che lo ha cavalcato per arrivare a Palazzo Chigi e lo ha trattato come una inutile zavorra dal giorno dopo, salvo scoprire a sue spese che non si governa a lungo senza rappresentare una comunità più solida di una newsletter. Gran parte della nomenclatura è corresponsabile delle omertà, degli opportunismi e dei trasformismi che hanno spinto il principale partito del centrosinistra sulla soglia dell’implosione. Di certo questo congresso è l’ultima possibilità di una ripartenza, ammesso che sia ancora possibile. Ciò che resta del gruppo dirigente avrebbe il dovere di mettersi al servizio di una ricostruzione. Ma le premesse sono della peggior specie: Renzi con la valigia in mano, uno dei candidati più autorevoli in campo, Marco Minniti, che si ritira dalla competizione e un partito che sembra aver smarrito la più elementare grammatica del confronto interno, eroso da personalismi che ormai hanno poco da spartire con il confronto di idee e molto con lo scontro tra clan.
Scopo delle primarie dovrebbe essere rimettere in campo una sinistra capace di riflettere a fondo sui limiti e le mancanze di questi anni.
Servirebbe studio, impegno e partecipazione, naturalmente, perché non è al chiuso di convegni che il Pd può venir fuori dal pozzo in cui si trova. Ma il grado di interesse che può suscitare nei cittadini un dibattito impostato su tali basi è pari alle possibilità che una scissione renziana serva a rivitalizzare il campo progressista. Scissione che, però, regalerebbe certo all’ex premier l’unica rottamazione pienamente riuscita: quella del Pd.

Repubblica 6.9.18
Pd, Renzi e l’ipotesi scissione per correre alle europee
L’ex premier rifiuta di garantire a Minniti che resterà nel partito e pensa ad un movimento da lanciare a gennaio con liste della società civile. L’accelerazione per la concorrenza di Calenda
di Goffredo De Marchis


Roma Anche Carlo Calenda pensa alla fondazione di un nuovo movimento da presentare alle elezioni europee e questo spiega l’accelerazione di Matteo Renzi per una sua Cosa, sempre più probabile. Prima di rinunciare, Marco Minniti aveva chiesto una garanzia: un documento anti- scissione dei parlamentari renziani in cui veniva scritto: "Il Pd è e sarà sempre casa nostra". Ma su questo punto la trattativa con Renzi, attraverso Luca Lotti che ha incontrato ieri pomeriggio l’ex ministro, si è bloccata. Il senatore di Firenze ha risposto: non si può fare.
Dunque, la strada appare quasi segnata. Siccome i principali interlocutori dei politici sono, ormai da anni, i sondaggisti l’ex premier ha saputo che Calenda ha commissionato un corposo sondaggio a un istituto demoscopico i cui risultati saranno pronti la prossima settimana. I due potenziali nuovi partiti si muovono nello stesso spazio politico: il centrismo antisovranista, con la valorizzazione dei competenti da contrapporre ai gaffeur a 5 stelle e al populismo leghista. Per pescare i voti dispersi del Pd, di Forza Italia e di quello che fu Scelta Civica. Li dovrebbe aiutare il calo evidente dell’economia italiana e il probabile voltafaccia del governo sulla manovra. Se funziona.
Poniamo che lo spazio sia grande o grandicello non c’è posto per due galli nel pollaio soprattutto se si chiamano Calenda e Renzi che non si amano affatto. Così si spiega l’idea dell’ex premier di partire già a gennaio con il suo movimento. Movimento dal quale verrebbero esclusi tutti i vecchi del Pd, renziani compresi. Quella è la zavorra, Qualcuno dice, scherzando, che persino Lotti e Boschi verrebbero lasciati nella casa madre. Un paradosso che fa capire come l’obiettivo sia una lista di candidati solo della società civile, esterni ai partiti. Un blitz come quello che fece Macron alle legislative francesi, con la differenza che il presidente francese veniva da una clamorosa vittoria.
L’ipotesi è quella di reclutare dalle categorie: ricercatori, imprenditori, professori, professionisti. Per fare degli esempi si citano il virologo Roberto Burioni, la campionessa Bebe Vio. I comitati civici di Ivan Scalfarotto sono l’incubatrice di questo esperimento e l’ente selezionatore. Del resto Scalfarotto lo dice sempre: «Non dimenticate qual è il mio vero mestiere: direttore delle risorse umane».
Se Renzi vuole fare una scissione non può permettersi di aspettare dopo le Europee. Un partito nuovo ha bisogno di misurarsi subito per nascere e vivere. Se poi la legislatura dura 5 anni, a cosa serve andare via dal Pd in mancanza di scadenze elettorali significative? Le elezioni continentali sono un banco di prova favorevole perché non c’è la variabile della governabilità: si vota dove ti porta il cuore, come dimostrano i successi di Emma Bonino (9 per cento qualche anno fa) e della lista Tsipras 5 anni fa. C’è però il problema delle preferenze che non aiuta gli sconosciuti. Ma questa regola sembra superata dai fatti. Basta osservare il successo grillino, anche nei collegi uninominali. Infatti quando parla del suo movimento Calenda usa questa formula: « Dovrebbe essere tipo i 5 stelle con le competenze, con le persone capaci » . I famosi o gli acchiappa voti servono meno di un tempo.
I renziani sono letteralmente impazziti per le sbandate del loro leader. Hanno capito che saranno lasciati al loro destino nel Pd, come fosse una bad company. Nessuno sarà riciclato in Europa. Dalla scissione possono nascere dei nuovi gruppi parlamentari, certo, ma al Senato il regolamento approvato lo scorso anno non permette fuoriusciti. Comunque, per le poche forze del Pd a livello parlamentare sarebbe davvero un brutto colpo. I segnali di uscita di Renzi si moltiplicano e vengono scrutati. Le locandine web con la firma " Renzi!" o "lib-dem" sono considerati le prove generali di simboli alternativi al Pd. Cosi come una prova generale appare la visita di ieri a Bruxelles dove Renzi ha incontrato Juncker, Moscovici, il socialista Timmermans, i verdi e la commissaria lib- dem e macroniana Vestager. Un modo per preparare il terreno a quello che Renzi chiama « allargamento delle forze antisovraniste » e che potrebbe al dunque contenere anche un suo movimento. Con Timmermans si è informato anche delle possibili poltrone europee dopo le elezioni di maggio. Ci sarebbe un solo posto a disposizione per un ex premier: la guida dell’Europarlamento sempre che le forze anti- populiste abbiano la maggioranza di Strasburgo.
Le tracce dell’uscita sono dunque tantissime. Le accuse di tradimento a Gentiloni e Delrio, i like ai post dove il Pd è definito un peso, l’amarezza confessata pubblicamente per non aver ricevuto solidarietà dai dirigenti dem quando il padre era sotto attacco. Anche se il dado non è tratto, non sembra mancare molto.

Repubblica 6.12.18
Minniti "Ritiro la candidatura per salvare il partito, chi se ne va fa un regalo ai populisti"
Intervista di Claudio Tito


«Quando ho dato la mia disponibilità alla candidatura sulla base dell’appello di tanti sindaci e di molti militanti che mi hanno incoraggiato e che io ringrazio moltissimo, quella scelta poggiava su due obiettivi: unire il più possibile il nostro partito e rafforzarlo per costruire un’alternativa al governo nazionalpopulista». È durata 18 giorni la corsa di Marco Minniti alla segreteria del Pd. In meno di tre settimane l’ex ministro ha presentato e ritirato il suo impegno in uno show down improvviso. «Resto convinto in modo irrinunciabile che il congresso ci debba consegnare una leadership forte e legittimata dalle primarie. Ho però constatato che tutto questo con così tanti candidati potrebbe non accadere.
Il mio è un gesto d’amore verso il partito».
Mi scusi, non può essere solo questo. Non può essere che in una ventina di giorni sia cambiato così radicalmente lo scenario. Cosa è successo?
«Si è semplicemente appalesato il rischio che nessuno dei candidati raggiunga il 51 per cento. E allora arrivare così al congresso dopo uno anno dalla sconfitta del 4 marzo, dopo alcune probabili elezioni regionali e poco prima delle europee, sarebbe un disastro».
Questa però era una probabilità nota.
«No, e se noi accettassimo l’idea di eleggere un segretario non "eletto" dalle primarie allora accetteremmo anche l’idea di un partito che sia solo una confederazione di correnti.
Sarebbe la prima volta che un segretario del Pd viene eletto senza la maggioranza. Questo è un gigantesco problema politico».
Perchè?
«Ci sono alcuni dati che non posso ignorare. Abbiamo un governo che in sei mesi ci ha portato a un passo dalla recessione. Provoca un conflitto con l’area produttiva del Paese e ha aperto uno scontro con l’Europa. Ha approvato un decreto sicurezza che io definisco "insicurezza". È fonte di conflitti istituzionali dal caso della nave Diciotti fino allo scontro con il procuratore Spataro. Serve un Pd unito e forte , in grado di tornare nella società italiana».
Ma forse il dato determinante è che Renzi non ha mai speso una parola in questi giorni per smentire la scissione?
«Le scissioni sono sempre un assillo. Sappiamo perfettamente che il Pd ha pagato un prezzo durissimo. Ha pagato un prezzo altissimo a congressi cominciati e mai finiti. Spero che non ci sia alcuna scissione, sarebbe un regalo ai nazionalpopulisti».
Qualcuno potrebbe dire che
ha avuto paura.
«Paura? La mia storia personale dimostra che ho affrontato situazioni ben più impegnative di questa. Io lo faccio solo per il Pd.
So che c’è il rischio di deludere chi ha deciso di concedermi un affidamento. Ma ci sono momenti in cui bisogna assumersi delle responsabilità personali. Per troppo tempo il partito si è adagiato su uno specchio deformato in cui ci si chiedeva "che faccio io?Un eccesso di personalizzazione. Ma il destino di un partito non può essere legato alle singole persone».
Nel Pd molti definivano "renziana" la sua candidatura.
Lei ha rifiutato questa etichetta.
Si aspettava una maggiore collaborazione dai renziani?
«La mia decisione è indipendente dall’affetto politico che si è manifestato. Io ero in campo per difendere il nucleo riformista del Pd e arrivare ad un esito legittimante. Il resto non esiste».
Ne ha parlato con Renzi?
«Non ci siamo sentiti».
Insisto: ha avuto un peso il fatto che Renzi non abbia trovato il tempo di smentire la scissione?
«Spero davvero che nessuno pensi a una scelta del genere. Si assumerebbe una responsabilità storica nei confronti della democrazia italiana. Questo passaggio va oltre la cronaca.
Indebolire il Pd significa indebolire la democrazia italiana.
Mai come adesso rischiamo uno slittamento. Mai come adesso le differenze tra i partiti sono tanto nette».
Come negli anni che hanno preceduto il fascismo?
«La storia non si ripete mai nella stessa forma. Ma è vero che dal ‘48 in poi mai la differenza sul modello di società e sui valori è stata così ampia».
A questo punto al congresso per chi voterà?
«Oggi è il momento di una scelta impegnativa. Parteciperò al congresso con lo stesso spirito: arrivare ad un approdo il più unitario possibile».
Se questo è l’intento chiederà anche ad alcuni degli altri sette candidati di ritirarsi?
«Sono scelte individuali. In questo momento voglio dimostrare che non conta il "che faccio io" ma ricostruire un gruppo dirigente».
C’è qualcosa che il Pd e i governi di centrosinistra hanno fatto in questi anni e che lei considera emblematico della crisi che poi si è aperta nel suo partito con le ultime elezioni?
«Si è rotto il rapporto tra riforme e popolo. La Buona Scuola ne è stata il simbolo. Abbiamo messo in campo dei provvedimenti importanti ma non li abbiamo fatti camminare sulle gambe degli studenti e dei docenti. Quello è stato il segno di una rottura, uno scacco politico».
Non c’è stato un eccesso di leaderismo?
«Un partito non può non avere una leadership legittimata. Non si adatta alla fase che viviamo. Poi però c’è bisogno che questo leader abbia al suo fianco un gruppo dirigente selezionato non sulla base della fedeltà ma delle qualità. Le leadership forti vanno corrette con dirigenti valutati sul merito e non sulla appartenenza. Anche per questo bisogna avere il coraggio alcune volte di fare un passo indietro. In un partito tutti dovrebbero capirlo».

il manifesto 6.12.18
Renzi comanda, Minniti si ritira. La scissione del Pd si avvicina
Democrack/Primarie Pd. I renziani non firmano l’impegno a restare nel partito. Zingaretti: ora basta picconate
di Daniela Preziosi


La giornata delle montagne russe per il Pd finisce in picchiata, con il partito a un passo da una nuova scissione. Marco Minniti ritira la candidatura alle primari. In serata la conferma ufficiale non arriva ma filtra la notizia di una sua arrabbiatura monumentale. E di un’intervista a Repubblica che stamattina darà l’annuncio del fine corsa.
Ma non poteva finire diversamente. Lo si capisce dalla mattina. Quando, dinanzi alle notizie dei quotidiani sul ripensamento di Minniti provocato dal plateale lavorìo scissionista dell’ex segretario, Renzi replica secco: «Come sapete non mi occupo del congresso». Nessuna smentita della prossima fuoriuscita, con l’atteggiamento strafottente di sempre. Del resto Renzi non può negare nulla: in quel momento è a Bruxelles dove incontra, non a nome del Pd, i suoi eurodeputati e tesse la tela delle relazioni: incontra Juncker, gli olandesi Vestager e Timmermans, Moscovici.
Anche Minniti non ha un buon carattere, specie quando capisce di essere stato preso per il naso dall’inizio: ha creduto di utilizzare i voti dei renziani prendendo le distanze da Renzi; ha creduto che i territori erano pronti a raccogliere le firme per la sua candidatura e invece non si muove nessuno. Ha creduto troppe cose platealmente false, per accorgersene sarebbe bastato mettere il naso fuori dal cerchia dei fedelissimi. Adesso, con Renzi che brutalmente scopre le carte, la figuraccia è irrecuperabile.
A chi glielo chiede l’ex ministro oppone una lombosciatalgia come causa del suo stop agli impegni di partito. Ma nel primo pomeriggio convoca alla camera le due «colombe» renziane Lorenzo Guerini e Luca Lotti, che pure hanno fatto di tutto per tenere in piedi la sua candidatura. Ai due consegna un documento da far sottoscrivere a tutti i parlamentari: è un impegno a non uscire dal Pd. La riunione si stoppa, i due devono parlare con Renzi.
A questo punto c’è anche un giallo. L’agenzia Ansa batte l’appuntamento per una conferenza stampa convocata da Minniti alle 18 e 30 per annunciare il ritiro. Minniti si attacca al telefono per smentire, è caccia alla «fonte». Ma ormai siamo su un piano inclinato.
Intanto arriva la risposta da Bruxelles. È un «niet». I due luogotenenti tornano al tavolo. Il sostegno a Minniti è assicurato. Ma nessuno firmerà il documento. E dai renziani ormai filtra l’insofferenza: «La richiesta di firmare un impegno a non uscire dal Pd è offensiva, è chiaramente un pretesto». Minniti capisce di essersi infilato in un tunnel, prova a chiedere la firma di almeno una trentina di renziani, tanto per. Ma il «niet» di Renzi è diventato uno sfottò. «A questo punto la scelta spetta a lui», spiegano. Voleva un braccio di ferro, lo ha perso. All’ex ministro non resta che la ritirata ingloriosa. Lui che si è vantato di trattare con i banditi libici. Lui che si è trovato a faccia a faccia con Gheddafi. Lui che nell’estate del ’17 si è autodirottato l’aereo per tornare a Roma e difendere l’Italia dal rischio di una «rottura democratica». È finito nel sacco di Renzi come una delle sue tante vittime politiche, da Enrico Letta in avanti. In serata Nicola Zingaretti lancia l’allarme: «Basta con questo gioco al massacro, non è il momento di picconare e dividere». Lo spettro di una vittoria su un partito scassato non è certo una buona notizia per lui. L’ultimo sondaggio, lo leggete qui accanto, dà il presidente del Lazio al doppio delle preferenze di Minniti. L’ex ministro vedeva ormai consolidarsi le cifre della sconfitta. Ora bisognerà capire se i suoi voti si riverseranno su Martina. Difficile. I renziani già avvertono: «Sarà un congresso monco». Renzi si è fabbricato l’alibi per uscire dal Pd.

Corriere 6.12.18
Caos nel Pd, Minniti: ecco perché mi ritiro
di Monica Guerzoni


Passo indietro di Marco Minniti. L’ex ministro dell’Interno si ritira dalla corsa per la segreteria del Pd, lasciando campo libero a Nicola Zingaretti e Maurizio Martina. Dietro la decisione il gelo con l’ex leader Matteo Renzi e il caos all’interno del partito. L’ex ministro Graziano Delrio al Corriere: «Lavoriamo per l’unità».
ROMA «Il governo sta facendo le cose sbagliate per l’Italia, per le famiglie, per i lavoratori, per le imprese».
E intanto, presidente Graziano Delrio, il Pd si divide e arriverà alle primarie senza un candidato di peso come Marco Minniti.
«L’opposizione è presente. E siamo unitissimi nel denunciare che le ricette del governo su pensioni e sussidi non sono quelle giuste, o che il decreto sicurezza creerà un esercito di irregolari. Al tempo stesso stiamo avviando un confronto interno che, sono sicuro, si svolgerà con libertà e stima reciproca, come i candidati hanno cominciato a fare».
Minniti non si è sfilato anche perché non ha sentito il pieno sostegno di Renzi?
«Minniti farà la sua valutazione personale e la rispetteremo, come è stato quando ha deciso di dare la sua disponibilità per le primarie. È una scelta che dipende da lui. Ma Renzi ha chiesto di rimanere fuori dal congresso».
Fuori dal congresso, o fuori dal partito? Il vento di una scissione renziana soffia sempre più forte.
«Io sono testardo e guardo i fatti. A oggi non c’è stata nessuna dichiarazione di divisione del Pd. Lavoriamo tutti per l’unità e vogliamo che tutte le personalità del Pd, da Renzi a Gentiloni, da Zingaretti a Bonaccini a Martina, siano in una stessa comunità. Il nemico è fuori di noi, non dentro di noi».
Perché allora non vi battete contro il governo gialloverde, invece di scontrarvi al vostro interno?
«Facciamo battaglia al governo e insieme. Non può fare scandalo il confronto interno a un partito. Il M5S non ha fatto un congresso e la Lega lo ha fatto, ma tra Salvini e Salvini. Siamo disabituati, ma io credo si possa fare un congresso senza dividersi, per confrontarsi e arricchirsi a vicenda».
Ora che Minniti abbandona il campo toccherà a Lorenzo Guerini, a Ettore Rosato, o a Teresa Bellanova?
«Io ho detto fin dall’inizio che non si può fare il congresso su Renzi senza Renzi, cioè il congresso di correnti. Ogni iscritto e simpatizzante deve pensare con la sua testa e scegliere il candidato che ritiene più utile per una ripartenza del Pd. La cosa più importante sono le parole chiave e le persone per riprendere la piena sintonia con l’elettorato. Io ho scelto Martina perché ha 40 anni ed è il candidato dell’unità, del rinnovamento generazionale e dei contenuti».
Chi ha dato il via al «gioco macabro a distruggere il Pd» denunciato da Nicola Zingaretti?
«Lavoro ogni giorno per l’unità e credo sia vera la frase del vecchio socialista Prampolini “uniti siamo tutto, divisi siamo nulla”. Chi divide non raccoglie, questa è la mia idea. Siamo di fronte a una crisi vera del Paese, con le famiglie in difficoltà per la recessione, le aziende in crisi e i posti di lavoro che si riducono. Non è comprensibile che il Pd non stia unito, pur nella diversità, per cercare le soluzioni a questi problemi».
Quando Renzi uscirà dal Pd, lei lo seguirà?
«Spero non accada. Ma io sono entrato in politica per costruire il Pd sull’onda dell’Ulivo e morirò orgogliosamente democratico».
Non ha un sapore un po’ antico la proposta di Martina di un governo ombra dopo le primarie?
«No, io condivido l’esigenza di rendere più visibile una opposizione che c’è nelle aule parlamentari, come la maggioranza sa bene, ma va resa di più visibile anche all’esterno. Le idee che vanno in questa direzione sono benvenute, anche Calenda aveva proposto una cosa del genere».
La Lega dilaga al Nord e il sindaco di Milano, Beppe Sala, si sente in dovere di diventare un punto di riferimento. Non toccherebbe al partito riconquistare il terreno perduto?
«Il Pd deve sapere unire tante forze e tante energie. A Sala è stata data una opportunità da una coalizione di centrosinistra. I partiti e le personalità espresse dalla società civile non sono in competizione, si possono completare a vicenda. Milano è un modello da questo punto di vista».
Se Renzi uscirà, la sinistra di Bersani tornerà nel partito, anche se sarà Martina a vincere le primarie?
«Io penso che ci si unisce sulla base delle cose che si vogliono fare per la gente. Sono assolutamente contrario a semplificare, come se la crisi della sinistra dipendesse da una persona, cioè da Renzi. Questo non mi trova d’accordo, la crisi è a livello mondiale. Bisogna ritrovare la direzione giusta. Non basta la rimozione di una persona perché il centrosinistra ritorni vincente».

Corriere 6.12.18
La rinuncia di Minniti: «Così è insostenibile, lo faccio per il partito»
Rottura con Renzi, l’ex ministro non sarà alle primarie
di M. Gu.


ROMA Giorni e notti di tormenti, di riunioni fiume con i parlamentari amici, di silenzi carichi di delusione, astio e reciproca diffidenza tra lui e Matteo Renzi. E alla fine, «con grande sofferenza, ma con altrettanto senso di responsabilità», Marco Minniti ha maturato il clamoroso passo indietro: «La situazione non è più sostenibile. Lo faccio per il partito, con lo stesso spirito di servizio con il quale avevo accettato la candidatura alla segreteria».
L’ex ministro dell’Interno, apprezzato (e contestato) per il suo impegno al Viminale nel fronteggiare la crisi migratoria, ha dunque maturato l’idea di rinunciare alla candidatura alle primarie, lasciando campo libero a Nicola Zingaretti, Maurizio Martina e agli altri candidati.
Un vero e proprio trauma per la corrente renziana, dilaniata e scossa dalle mosse del leader che ormai lavora alla luce del sole per un partito tutto suo. Impegnato ieri in una lunga serie di incontri a Bruxelles, l’ex premier ha dato il benservito al «suo» candidato: «Marco Minniti è irritato? Io non mi occupo del congresso del Pd».
Parole che, unite all’ultimatum di Antonello Giacomelli e ai sondaggi che lo davano al massimo al 33% a quasi quindici punti da Zingaretti, hanno spazzato via i dubbi residui e convinto il quasi ex candidato a chiudersi con i suoi per l’ultima riflessione. «Sono perfettamente consapevole della pesantezza di questo atto. E so che sarò io a prendermi addosso tutto il fango — si è sfogato Minniti —. Ma ho misurato il rischio di un congresso che non avrebbe dato un esito definitivo e, credetemi, lasciare è la decisione migliore. La mia sofferenza sarà ripagata da un risultato chiaro e dalla vittoria di un nome autorevole».
A Montecitorio i dem hanno passato un giorno di spasmodica attesa, preoccupazione, sconcerto. I renziani hanno tentato un disperato pressing, nella segreta speranza che Minniti stia solo lanciando un potente ultimatum all’ex segretario. Ma lo strappo potrebbe essere irreversibile. «Ci perdo solo io — è la riflessione finale che Minniti ha condiviso in un lungo faccia a faccia con Luca Lotti, un tempo plenipotenziario di Renzi — Non è una resa la mia, ma un atto di generosità. Le primarie daranno un risultato chiaro e netto e il partito non finirà in pezzi».
L’ex ministro è convinto di uscirne «con stile», anche se adesso i renziani sono privi di un candidato al congresso. La girandola dei nomi è ripresa in tempo reale. C’è chi spinge per Ettore Rosato, chi vorrebbe una donna della tempra di Teresa Bellanova e chi spera di convincere Graziano Delrio a rinunciare alla guida del Copasir. Ma anche il giglio magico è ormai frammentato, Renzi è dipinto dai fedelissimi «con un piede fuori» e la tentazione della corsa in solitaria terrorizza tanti.
È questo il tema che ha lacerato i rapporti tra Renzi e Minniti. Il primo rimprovera all’ex ministro la caparbia volontà di correre con il sostegno sul territorio dell’intera area, senza però accettare l’etichetta di renziano. E il secondo non manda giù la pretesa di lanciarlo alle primarie alla guida di una corrente impegnata a preparare la scissione. Un dilemma impossibile da risolvere, che ha innescato la miccia del divorzio. Tra le tanti voci fuori controllo di una giornata di passione per i dem è girata anche quella di un furibondo scontro al telefono tra Renzi e Minniti, smentito in serata dai collaboratori dell’ex ministro: «Matteo non lo ha cercato, i due non si sentono da una settimana». La rottura si sarebbe consumata nel più totale gelo, con l’ex premier deciso a tenersi le mani libere. Eppure il pressing dei renziani per convincere il candidato a rimanere tale è andato avanti fino a notte. Lotti, Guerini e Rosato si sono visti e hanno deciso di rinnovare l’impegno. «Noi lo sosteniamo con convinzione — assicura Rosato —. Quando Marco decide di partire, si parte».

Il Fatto 6.12.18
L’ultima di Renzi: umilia Minniti e lo fa ritirare
L’ex ministro dell’Interno voleva che nessun parlamentare seguisse l’ex Rottamatore nel progetto centrista
di Wanda Marra


Marco Minniti si chiama fuori: oggi annuncia il ritiro della sua candidatura alla guida del Pd in un’intervista a Repubblica. Ancora una volta, è stato determinante il ruolo giocato da Matteo Renzi, che ha ostentatamente iniziato a lavorare per il suo partito, facendo mancare il suo appoggio all’ex ministro dell’Interno. Peraltro, l’ex segretario ieri ha fatto una passeggiata a Bruxelles dove ha incontrato Frans Timmermans, Spietzenkandidat in pectore per il Pse e ha pranzato con liberale MargretheVestager, intercettando anche Juncker e Moscovici. E ha visto gli europarlamentari dem. Obiettivo? Convincerli della necessità di un nuovo “contenitore” che agisca da cerniera tra sinistra e centro, persuaderli che la cosa da fare in vista delle Europee è un’alleanza di tutte le forze anti populiste. E convincerli (va da sè) che è proprio lui l’uomo adatto per fare questa operazione. Con lui, c’era Sandro Gozi, che da mesi lavora all’ipotesi di una lista con Emmanuel Macron. “Minniti irritato? Non mi occupo del congresso”. E siccome, l’uomo a modo suo dice spesso quello che sta facendo, l’affermazione è molto vicina alla verità: assodato che non si può candidare lui, l’ex segretario ha lasciato Luca Lotti e Lorenzo Guerini a gestire il congresso, a cercare di occupare l’occupabile anche per suo conto. Tanto è vero che i due Minniti l’hanno pure incontrato, insieme a Ettore Rosato. Minniti avrebbe chiesto la garanzia scritta dei parlamentari che non avrebbero mai lasciato il Pd. Nessuno poteva dargliela. “Una richiesta offensiva”, gli sarebbe stato risposto. Insomma, a incontro finito, era evidente che la storia era finita: “Non ha saputo leggere le regole del gioco. Ovvero che noi lavoravamo per lui nel Pd, ma Renzi seguiva un altro percorso. Non gli bastavamo noi, voleva lui”, raccontano ora quelli che avevano voluto la sua candidatura. “È andata male”. Liquidato. Come di fatto quel che resta dei Dem. “Spero che qualcuno non abbia deciso di distruggere il Pd e stia giocando a un gioco macabro”, dice Nicola Zingaretti che vede come il rischio sia che non salti solo la candidatura di Minniti, ma pure il partito.
D’altra parte, ieri sembrava davvero una specie di gioco a nascondino: una conferenza stampa viene annunciata per ufficializzare il ritiro di Minniti, ma non è in realtà mai stata in programma; appare una pagina Facebook, “Libdem”, con foto di Renzi in motorino a Firenze e lo slogan: “Il futuro prima o poi torna”, che a un certo punto della giornata viene chiusa. Ora resta da capire come si va avanti: hanno ricominciato a circolare ipotesi di corse last minute di Guerini o di Rosato in quota Renzi. Un candidato per l’ala renziana ci sarebbe già, ed è Maurizio Martina, che, correndo in ticket con Matteo Richetti, può veder convergere su di lui quei voti. Abbastanza per insidiare Nicola Zingaretti? Pare difficile. Sempre poi che lo schema resti questo: sullo sfondo, continua ad aleggiare la figura di Paolo Gentiloni, come Salvatore della Patria. E Renzi che gioca per sè più che mai: nel nuovo soggetto che sta cercando di mettere in piedi, l’idea è portarsi solo il cerchio più stretto, senza zavorre. Progetto che fa crescere ancora di più il nervosismo.

Corriere 6.12.18
Le illusioni della sinistra al tempo del «plebeismo»
di Paolo Franchi


Assicura Matteo Renzi, intervistato nei giorni scorsi dal Messaggero , che «quando un palloncino vola sembra inarrestabile, ma basta uno spillo per bucarlo». Se n’è accorto lui nella scorsa legislatura, se ne accorgerà Matteo Salvini nelle prossime elezioni europee quando il mondo produttivo del Nord gli volterà le spalle: «Agli italiani puoi fare di tutto, ma guai a chi tocca il portafoglio, penso che dopo la luna di miele per Salvini stia iniziando la discesa». C’è da chiedersi se queste valutazioni siano state formulate sulla base di qualche analisi documentata, o almeno di qualche segnale ignoto ai più, e tuttavia significativo. Ma c’è da temere che non ci siano né analisi né segnali. Molto probabilmente Renzi ha parlato, come suol dirsi, a naso. Non è un caso isolato, un’eccezione: è la regola. Per questo, forse, vale la pena di cominciare ragionarci un po’ su.
Naso, intuito, fiuto: in politica sono molto importanti. Ma, a parte il fatto che bisogna esserne dotati davvero (e su Renzi, come su altri leader o ex leader europei contemporanei, da Emmanuel Macron a David Cameron, almeno qualche dubbio è lecito), funzionano, in generale, nelle situazioni per così dire normali. Dopo un disastro, molto meno. Perché i disastri non sono dei lampi di follia che hanno accecato per un attimo un elettorato credulone né degli accadimenti che si lasciano archiviare rapidamente in nome del ritorno al buon senso. Hanno una storia lunga alle spalle e segnalano un mutamento tellurico della morfologia sociale, politica e culturale. Ed è tutto da stabilire se sia stato solo il terremoto a far crollare il quadro di riferimento in cui eravamo abituati a ragionare e che reputavamo immutabile, o se sia vero anche l’esatto contrario: certo, i populismi delle più diverse estrazioni mettono a serio repentaglio la democrazia liberale, ma se la democrazia liberale non fosse afflitta da una crisi tanto profonda probabilmente i populismi non si sarebbero espansi in misura tanto vistosa. In poche parole: c’è poco da fiutare, c’è da farsi in quattro prima di tutto per capire che cosa è successo, poi se è possibile, e come, venirne fuori. In quale direzione. Con quale idea di Paese e di Europa. Perché una discussione sulle sorti del centrosinistra o del centrodestra, a parte forse i diretti interessati, non appassiona nessuno.
La riflessione critica e autocritica si addice poco, a quanto pare, alla politica post democratica o democratico-illiberale. Meglio un tweet, o anche una comparsata in uno dei tanti salotti televisivi, fatta in modo di consentirci, come si diceva una volta, di bucare il video. Vero. Però, se la politica democratica vuole cercare di capire come e perché rischia di diventare una specie di residuato bellico, forse non ne verrà a capo, ma di sicuro il metodo Casalino (ottimo, gaffes comprese, per i vincitori) non le servirà a nulla. In quasi otto mesi (tanti ne sono passati dalle elezioni che hanno sancito il disastro di cui sopra) a nessuno è passato per la testa di provarsi a mettere insieme, per discuterne apertamente davanti al Paese, un’agenda dei possibili perché e dei possibili percome della disfatta. Nemmeno il congresso del Partito democratico pare avere intenzione di farlo, tutto impegnato com’è in una gara tra i candidati alla leadership (di che cosa?) che, leggiamo, appassiona il 9 per cento degli italiani. E su cosa si accalori, nell’ex centrodestra, quel che resta di Forza Italia, non è dato sapere, sempre che, naturalmente, qualcosa da sapere ci sia.
Per discutere seriamente, la prima regola è nominare con la massima precisione possibile ciò di cui si vuole parlare. Per esempio. C’è stato, come si dice a ogni piè sospinto, un fragoroso divorzio tra il popolo e la sinistra? La risposta esatta sarebbe: anche. Perché non è vero che nella nostra storia repubblicana popolo e sinistra siano stati dei sinonimi. Nella prima Repubblica il partito più votato dal popolo era la Democrazia cristiana. Nella seconda il leader più apprezzato e più votato dal popolo era Silvio Berlusconi. Per come lo abbiamo inteso nella prima parte della storia repubblicana, il popolo è stato una lunga e paziente costruzione politica, intellettuale e anche (eccome!) organizzativa, nella quale furono decisivi i partiti, la Chiesa, le comunità intermedie, certo, ma anche le cosiddette élite (cattoliche, marxiste e laico-liberali) ebbero un ruolo di primo piano: se qualcuno avesse dei dubbi in proposito, provi a leggere il carteggio, correva l’anno 1947, tra un grande banchiere pubblico come Raffaele Mattioli e Palmiro Togliatti. Il problema (se preferite, il dramma) che ci lasciano in eredità vent’anni e passa di una seconda Repubblica tanto fracassona quanto inconcludente è la progressiva decostruzione di questo popolo, cui ha corrisposto la nascita di una moderna, se volete modernissima, plebe, che è cosa infinitamente diversa. Ed è una sorta di moderna, se volete modernissima, secessio plebis quella che ha portato al potere, in condominio, due forze a diverso titolo plebee forse più ancora che populiste. Pensare che questa non sia una rottura storica, ma una specie di incidente di percorso, superabile rapidamente perché molto presto gli elettori, preso atto a proprie spese del vicolo cieco in cui si sono andati a cacciare, torneranno agli antichi ovili, è semplicemente fuori della realtà. Stupisce, e se vogliamo atterrisce, il solo fatto che se ne parli come di una cosa seria.

Repubblica 6.12.18
Regeni, sfida dei genitori “L’Egitto deve sapere che non molleremo mai”
L’avvocato legge i nomi dei 20 agenti coinvolti nell’omicidio “ È impossibile che Al Sisi non sappia cosa è successo a Giulio”
di Giuliano Foschini


La procura di Roma ha iscritto nel registro degli indagati cinque uomini delle forze di polizia del Cairo per il sequestro di Giulio Regeni. In Egitto è stata arrestata invece la moglie di uno dei consulenti legali della famiglia. Ieri a Roma la famiglia Regeni ha parlato con accanto un altro dei loro consulenti, Mohammed Abdallah, anche lui in galera per mesi: «Chi ha ucciso e torturato Giulio pagherà» ha detto.
roma
Ieri sono accadute tre cose nella lunga battaglia per la ricerca della verità sul sequestro, l’assassinio e la tortura di Giulio Regeni. La prima è una conferma: la famiglia Regeni non molla. Anzi rilancia. « In Egitto sappiano che non cederemo neanche in futuro » ha spiegato Paola Regeni, durante la conferenza stampa indetta nella sede della Federazione nazionale della stampa, a Roma, accanto ai vertici del sindacato, Raffaele Lorusso e Beppe Giulietti. Il perché la famiglia Regeni non abbia intenzione di mollare, e veniamo alla seconda circostanza, lo ha spiegato l’avvocato Alessandra Ballerini con in mano un faldone di documenti frutto di lunghe indagini difensive tra l’Italia e il Cairo. « Ci sono cinque indagati — dice — Ma noi abbiamo una lista di 20 persone, tutti appartenenti delle forze di polizia del Cairo, coinvolti in qualche modo nella sparizione e nell’omicidio di Giulio. Abbiamo i loro nomi e cognomi. Sappiano che non devono stare tranquilli». La Ballerini snocciola così i 20 nomi, compresi i 5 indagati dalla procura Roma di cui Repubblica ha dato conto nei giorni scorsi.
Su tutti spiccano quello del generale Tarek, capo di una delle divisioni della National Security Agency (il servizio segreto civile) e quella del maggiore Sharif, gestore dell’uomo che tradì Giulio (il leader del sindacato degli ambulanti Mohammed Abdallah): entrambi ebbero un ruolo nei pedinamenti di Giulio, nelle intrusioni nella sua privacy ( venne fotocopiato il suo passaporto custodito in casa) e nella macabra messa in scena che costò la vita a cinque predoni su cui doveva cadere la responsabilità dell’omicidio di Giulio. « Noi pensiamo che possano essere quasi 40 le persone coinvolte. Le 20 citate devono avere paura e per le prime 5 abbiamo elementi più solidi. Speriamo che siano abbastanza avveduti da sapere che gli conviene parlare per primi e non per ultimi » ha spiegato la Ballerini. Che ha anche detto: « Trovo difficile credere che il presidente egiziano, Abdel Fatah Al Sisi, non fosse a conoscenza di ciò che stava succedendo a Giulio. È impossibile che non sapesse nulla di questo». Tra i fatti, poi, la conferma dell’ennesimo tentativo di inquinare le acque da parte degli investigatori egiziani che nelle ultime ore avevano fatto circolare l’informazione secondo la quale Regeni fosse al Cairo con un solo visto turistico — cosa comune a tutti i ricercatori che arrivano al Cairo — adombrando chissà quale sospetto. Quando, invece, nel corso delle indagini era stata la stessa National security a dire che Giulio era regolarmente sul territorio egiziano e che non c’era alcuna indagine a suo carico. Una menzogna, quest’ultima, detta verosimilmente per allontanare le indagini.
L’ennesima bugia che mette sempre più la politica italiana davanti a un bivio. «Noi non ci fermeremo » giurano Paola e Claudio Regeni. Che poche ore prima avevano incontrato — e veniamo alla terza circostanza cruciale — il presidente della Camera, Roberto Fico, che rompendo l’ennesimo understatement del Governo (ancora ieri il premier Conte ha fatto sapere di aver chiesto la verità ad Al Sisi) ha detto: « È finito il tempo delle parole al Cairo, nonostante lo sforzo della procura di Roma, Da tre anni non si muove nulla. Anzi nell’ultimo anno c’è stato lo stallo. Non vedo il motivo per cui la Camera debba avere rapporti con il Parlamento egiziano».

Repubblica 6.12.18
Il coraggio della famiglia e i doveri del governo
di Carlo Bonini


Paola Deffendi e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, sono persone abituate a non dissipare le parole e, soprattutto, a farne uso parsimonioso. Sono tornati a farlo ieri, affiancati dall’avvocato Alessandra Ballerini con cui hanno sviluppato un legame che ne fa qualcosa di più di un legale di parte civile. Ebbene, il regime di Al Sisi, ma prima ancora il Palazzo della nostra Politica faranno bene a tenere in gran conto il senso e l’urgenza delle loro parole. Perché entrambi ne vengono messi in mora. Ai Regeni non sfugge infatti la cesura che ha rappresentato l’iscrizione al registro degli indagati di cinque ufficiali dei Servizi egiziani.
Perché di quell’atto comprendono non solo la natura giuridica, ma il significato sostanziale. Che, di fatto, non carica la Procura di Roma di nuove responsabilità. Ma, al contrario, scopre e annichilisce l’alibi dietro cui, sino ad oggi, il Governo di Roma e il Regime del Cairo, si sono nascosti. Il feticcio di una cooperazione giudiziaria che, da un anno, è tale solo nella forma. La «speranza di raggiungere la verità», la consapevolezza che «un grande passo è stato compiuto», sono dunque la premessa di un sillogismo che, nel ragionamento dei Regeni, ha come suo corollario il passaggio forse più importante di questa loro uscita pubblica. Una voce dal sen fuggita a Paola, a chiosa di quanto la Ballerini aveva appena finito di dire. «Il nostro Paese — aveva sottolineato l’avvocato — aveva rimandato in Egitto il nostro ambasciatore con il compito impossibile di far ripartire una cooperazione giudiziaria che il Cairo non ha dato. Si prenda atto che il nostro ambasciatore ha fallito». «Eh no — l’ha interrotta Paola — diciamo che ha fallito quell’obiettivo. Perché gli altri di obiettivi, quelli economici, li ha tutti raggiunti» .
Il Governo — Conte, Salvini, Di Maio, Moavero — è avvertito. Senza toni ultimativi, ma semplicemente decidendo, come i Regeni fanno, di spendere pubblicamente il nome di due soli politici che hanno guadagnato la loro fiducia.
Il senatore Luigi Manconi (ex maggioranza) e il presidente della Camera Roberto Fico. È sull’intransigenza argomentata di Fico, sulla rottura dei rapporti diplomatici con il Parlamento egiziano, che la famiglia infatti scommette e chiama a misurarsi l’abborracciato farfugliare in ordine sparso dell’Esecutivo. Nella convinzione che solo mosse diplomatiche energiche (richiamare nuovamente a Roma l’ambasciatore?) possano ridefinire il rapporto di forza con Al Sisi. E che i Regeni del fairplay non sappiano più che farsene è del resto nella decisione di indicare i nomi di 20 ufficiali di intelligence coinvolti. Gli elementi a loro carico non sono oggi una prova legale sufficiente a una condanna per sequestro e omicidio. Ma sono abbastanza per concludere che quello di Giulio è stato un delitto di Stato. E dunque per cominciare a parlare al Regime con la sola lingua che sembra comprendere e che del resto pratica. Quella della «paura». «Gli uomini dei Servizi egiziani sappiano che ora tutti conoscono il loro nome e che se salgono su un aereo potrebbero non tornare a casa».

Corriere 6.12.18
I familiari di Regeni:
«Altri 15 sospettati»
di Gio. Bia.


ROMA «Devono avere paura, non devono sentirsi sicuri, perché sono coinvolti nel sequestro, nelle torture e nell’omicidio di un cittadino europeo», avverte l’avvocato Alessandra Ballerini, al fianco dei genitori di Giulio Regeni, riuniti nella sede della Federazione nazionale della stampa. Oltre ai cinque militari egiziani indagati dai pm di Roma per il rapimento del ricercatore trovato cadavere al Cairo il 3 febbraio 2016, il legale dice che gli accertamenti svolti attraverso i consulenti della famiglia nel Paese arabo hanno consentito di individuare almeno altre quindici persone — tra cui alcuni alti gradi della National security — che hanno avuto a che fare con la sparizione, i depistaggi e la drammatica fine di Regeni. A cominciare dal colonnello Mahmoud Hendy, il responsabile della sicurezza che mise i documenti di Giulio nella casa dei banditi uccisi e accusati falsamente del suo omicidio. Inoltre, le dichiarazioni che i militari ora inquisiti dalla magistratura italiana hanno rilasciato a suo tempo ai magistrati egiziani, si sono rivelati un maldestro tentativo di autoscagionarsi. «Regeni non rappresentava un pericolo per la sicurezza nazionale, le informazioni ricevute sul suo conto si sono dimostrate infondate, e lui era regolarmente in Egitto per motivi di studio, come tanti altri», avevano affermato il generale Tariq Sabir e il maggiore Magdi Sharif, per allontanare sospetti e indagini dal loro ufficio. Oggi quelle giustificazioni postume servono a svelare che le insinuazioni sul visto turistico di Giulio con cui le autorità locali hanno reagito alla mossa della Procura di Roma sono solo un ulteriore tentativo di inquinamento di fatti e prove. Tra le persone indicate dalla famiglia Regeni ci sono colui che si fece consegnare la fotocopia del passaporto dal coinquilino di Giulio, il medico che ha mentito sugli esiti dell’autopsia, il testimone che cercò di avallare la pista dell’omicidio a sfondo omosessuale. «Ed è molto difficile che il presidente Al Sisi non sapesse nulla di ciò che stava accadendo», accusa l’avvocato Ballerini. «Abbiamo fatto un grande passo avanti, grazie alla nostra Procura, al nostro legale e al nostri consulenti — dice Paola Regeni —, perché nessuno ha ceduto. E non cederemo neanche in futuro, noi siamo fatti così. Lo sappiano in Egitto».

Corriere 6.12.18
May va ko. La Brexit è fuori controllo
Governo sotto tre volte, il nodo Irlanda. L’intesa con l’Ue appesa a un filo. Battaglia per sostituire la premier


Londra «Il giorno in cui la May ha perso il controllo», «La Brexit in bilico»: i titoli dei giornali britannici di ieri mattina fotografavano il dramma politico che si svolge in queste ore a Londra. Perché gli ultimi due giorni sono stati quelli che probabilmente cambieranno lo scenario per l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue.
Ormai le possibilità che martedì prossimo i deputati approvino l’accordo raggiunto dal governo May con Bruxelles sono ridotte al lumicino. L’altro ieri la maggioranza attorno alla premier si è liquefatta e l’esecutivo è stato battuto tre volte: andare al recupero sembra impossibile. Tanto più dopo che il governo è stato costretto a pubblicare il parere legale ricevuto in merito al futuro dell’Irlanda del Nord: che rimarrà per sempre legata all’Europa. Non che non lo si fosse già capito, ma vederlo nero su bianco ha dato ulteriori munizioni ai conservatori euroscettici che si oppongono al compromesso con Bruxelles.
Tuttavia la mozione più importante passata dai deputati è quella che dà al Parlamento un ruolo guida nel delineare il futuro della Brexit. Questo perché si vuole impedire che, dopo il probabile affossamento del piano May la prossima settimana, la Gran Bretagna vada incontro a una uscita catastrofica dalla Ue, senza accordi.
Data ormai per scontata la sconfitta del governo, si manovra già per il giorno dopo. E l’unica cosa certa è che a Westminster c’è una maggioranza trasversale che vuole evitare il no deal: ecco allora che un gruppo di «responsabili» si sta dando da fare per pilotare la Brexit verso una opzione «norvegese», ossia una uscita supersoft che lasci Londra nel mercato unico: in questo modo si darebbe addio formalmente alla Ue, ma si parerebbero i danni economici.
I «responsabili»
A Westminster si sta creando un gruppo trasversale per arrivare all’opzione norvegese
Sembra un’opzione sensata, ma è vista come il fumo negli occhi dagli euroscettici puri e duri: che all’indomani della probabile sconfitta della May sono pronti a far partire le lettere di sfiducia e a innescare una sfida per la leadership. I candidati si stanno già posizionando: dall’ex ministro per la Brexit Dominic Raab all’immarcescibile Boris Johnson all’emergente ministro degli Interni, il «pachistano» Sajid Javid.
Che la May venga defenestrata o meno, una possibile via per uscire dall’impasse è andare a elezioni anticipate: e se l’opposizione laburista si schierasse a favore di un secondo referendum, la consultazione diverrebbe di fatto un nuovo voto sulla Brexit.
Il che conduce all’ultima opzione, caldeggiata da un sempre crescente gruppo di conservatori filo-europei: rimettere la questione nelle mani del popolo e chiedergli di esprimersi di nuovo sulla Brexit, ora che sono chiari costi e benefici della scelta. Uno scenario che sembrava improponibile fino a poco tempo fa, ma che sta man mano guadagnando consensi: e che potrebbe condurre alla cancellazione della Brexit.
Tuttavia gli ostacoli pratici e legali che si frappongono a queste possibili vie di uscita restano enormi. Innanzitutto il fattore tempo: la Gran Bretagna lascerà la Ue il 29 marzo e a Bruxelles non sembrano propensi a rinegoziare gli accordi o a concedere dilazioni. Per cui resta forte la possibilità di un no deal «accidentale», perché non si riesce a concludere nulla di meglio: e già c’è chi parla di farlo in maniera «controllata», per attutire i contraccolpi: che comunque ci saranno per tutti.

Repubblica 6.12.18
May sotto accusa ai Comuni
Brexit a rischio stallo e il nodo Irlanda
di Antonello Guerrera


LONDRA, REGNO UNITO Altro che uscita dall’Ue, il Regno Unito potrebbe rimanere legato all’Europa «per un tempo indefinito». È la scomoda verità che la premier Theresa May è stata ieri costretta a rivelare dopo aver provato a secretare per giorni il "parere legale" sulla Brexit scritto dall’attorney general del governo (cioè il suo massimo legale) Geoffrey Cox.
Non solo: nel documento c’è scritto che i negoziati tra Londra ed Europa potrebbero protrarsi potenzialmente all’infinito, che si rischia uno "stallo" diplomatico e che il Regno Unito non ha alcuna facoltà legale di recedere dall’accordo sull’Irlanda. In realtà, da quando May ha raggiunto a fatica un accordo con le autorità Ue sulla Brexit, questi rischi, seppur ipotetici, erano chiari fin dall’inizio a tutti. Ma, messi nero su bianco dalla massima autorità legale governativa, rafforzeranno non poco la propaganda dei ribelli conservatori pro-Brexit e degli altri euroscettici, che accusano la premier di aver svenduto il Regno Unito a Bruxelles.
Il meccanismo del backstop concordato nell’accordo con l’Ue prevede la permanenza a oltranza della Gran Bretagna nell’unione doganale europea e dell’Irlanda del Nord nel mercato unico per evitare il ritorno delle frontiere tra le due Irlande e delle tensioni, fino a quando non verrà trovata una soluzione stabile.
May insiste nel dire che si tratta di una scappatoia "temporanea" e che il backstop non conviene neanche all’Ue. Ma è innegabile che una possibilità, seppur minima, che il Regno Unito resti legato all’Europa per diversi altri anni esiste.
Ecco perché May ha fatto di tutto per non far pubblicare il parere legale, almeno fino a martedì, quando una mozione delle opposizioni ha sconfitto in Parlamento il governo. Ieri alla Camera dei Comuni, durante il dibattito fiume che continuerà fino all’11 dicembre quando si voterà l’accordo di May, i pro-Brexit hanno accusato il governo di voler insabbiare il parere legale di Cox. Altri hanno provato a dire che May ha mentito al popolo. Il presidente della Camera Bercow li ha subito bloccati: il regolamento della House of Commons vieta di accusare altri parlamentari di essere falsi, disonesti o ubriachi.
Le buone vecchie maniere inglesi, finché dureranno.

Repubblica 6.12.18
Crisi Russia- Ucraina
Usa pronti a inviare una nave da guerra nel mar Nero


L’America è pronta a inviare una nave da guerra nel mar Nero, dopo che lo scontro nello stretto di Kerch ha fatto riesplodere la tensione tra Russia e Ucraina.
L’ha rivelato ieri la Cnn, spiegando che il Pentagono ha già chiesto al dipartimento di Stato di informare la Turchia dei piani in preparazione, e questo perché il passaggio di vascelli militari attraverso il fiume Bosforo e i Dardanelli è regolato dalla convenzione di Montreux, un trattato del 1936 che obbliga i Paesi che non affacciano sul mar Nero a comunicare ad Ankara, con almeno 15 giorni di preavviso, i transiti nello stretto. Non è una decisione già presa ma un’opzione sul tavolo, ha precisato l’emittente, dopo il sequestro da parte di Mosca di tre navi ucraine e l’arresto dei loro equipaggi. La Nato ha chiesto alla Russia di liberare i prigionieri, la risposta finora è stata negativa.

La Stampa 6.12.18
Lenin volava alto come un’aquila, capiva la politica e le classi
Stalin non lo leggeva, ma capiva le persone in carne e ossa
di Aleksandr Solženicyn


Incredibile, ma sembrava proprio che in un anno la rivoluzione si fosse realizzata pienamente. Aspettarselo sul serio era impossibile, eppure era accaduto! Quel pagliaccio di Trockij auspicava anche una rivoluzione mondiale, non voleva la pace di Brest-Litovsk, e pure Lenin ci credeva… oh, intellettuali sognatori! Bisognava essere degli asini per credere a una rivoluzione europea; erano vissuti tanto in Europa, eppure non avevano capito niente. Stalin c’era stato solo una volta, di passaggio, e aveva capito tutto. Bisognava farsi il segno della croce se era riuscita la nostra, di rivoluzione. E starsene buoni. A ragionare.
Stalin si guardava intorno con sguardo disincantato e obiettivo. E rifletteva. Capiva chiaramente che una rivoluzione importante come quella poteva essere rovinata da simili parolai. Solo lui, Stalin, l’avrebbe indirizzata nel modo giusto. In tutta onestà, e in tutta coscienza, era lui l’unica autentica guida. Si paragonava in modo realistico a quegli smorfiosi, quei farfalloni, e vedeva chiaramente la propria superiorità nella vita, la loro fragilità, la propria stabilità. A distinguerlo da tutti loro era la capacità di capire le persone. Le capiva là dove si congiungevano alla terra, alla base, le capiva in quella parte senza la quale non potevano reggersi, non potevano stare in piedi, e quello che c’era più in alto, quello che fingevano di essere, quello che ostentavano, era una sovrastruttura, non contava nulla.
Lenin, in effetti, volava alto come un’aquila, sapeva stupire: in una notte aveva tirato fuori lo slogan «Terra ai contadini!» (poi da lì vedremo) e in un giorno aveva escogitato la pace di Brest-Litovsk (non solo per un russo, persino per un georgiano sarebbe stato un dolore cedere metà della Russia ai tedeschi, ma per lui non lo era!). Per non parlare poi della Nep, la politica più scaltra di tutte: Lenin non aveva vergogna di inventare simili manovre. La cosa più grande di tutte in Lenin, superstraordinaria, era che teneva saldo il potere reale solo nelle sue mani. Cambiavano gli slogan, cambiavano i temi di discussione, cambiavano gli alleati e gli avversari, ma il pieno potere restava esclusivamente nelle sue mani!
Era un uomo, però, sul quale non si poteva davvero contare, la sua politica economica gli avrebbe portato un sacco di guai, ci si sarebbe impantanato. Stalin sentiva perfettamente la fragilità di Lenin, la sua impazienza, cui si aggiungeva una pessima capacità di comprendere le persone, se non una totale incapacità. (Ne aveva avuto la prova personalmente: quale che fosse il lato di sé che Stalin desiderava mostrargli, Lenin solo quello vedeva.) Quell’uomo era inadatto al losco corpo a corpo della vera politica.
Stalin si sentiva più fermo e saldo di Lenin, proprio com’e vero che i 66° di latitudine di Turuchansk sono maggiori dei 54° di Šušenskoe. Che cosa aveva sperimentato quell’erudito teorico nella vita? Non aveva alle spalle un basso ceto, l’umiliazione, la miseria, la carestia: anche se non ricchissimo, restava pur sempre un possidente. Da esiliato non era tornato in patria nemmeno una volta, un esule esemplare! Una prigione vera non l’aveva mai vista, e nemmeno la vera Russia aveva visto: in quattordici anni di emigrazione si era limitato a bighellonare. Dei suoi scritti Stalin ne aveva letti non più della metà, era convinto di non poterne ricavare molto. (Be’, c’erano anche definizioni straordinarie. Per esempio: «Che cos’è una dittatura? Un governo illimitato non arginato dalle leggi». Stalin aveva scritto a margine: «Bene!»).
Se Lenin avesse potuto contare su una mente davvero razionale, fin da subito avrebbe voluto vicino Stalin più di tutti gli altri, e avrebbe detto: «Aiutami tu! Capisco la politica, le classi, ma le persone in carne e ossa non le capisco affatto!». Invece lui non aveva trovato niente di meglio che mandare Stalin a requisire il grano in un angolo sperduto della Russia. Stalin era l’uomo di cui avrebbe avuto più bisogno a Mosca, e lui lo mandava a Caricyn…

La Stampa 6.12.18
Solženicyn non è più “spennato”
Il grande affresco della Russia staliniana in traduzione integrale Manuale di psicologia di tutti i dittatori
di Anna Zafesova


Dalla prima traduzione di Nel primo cerchio, nel 1968, in poi in Italia veniva pubblicata la versione «spennata», come la definisce lo stesso Solženicyn, che lo scrittore cercò di adattare alla censura sovietica. Non ci riuscì, ma fu proprio questa stesura a venire pubblicata in Occidente e a meritare allo scrittore il Nobel. A venire sacrificati furono, ovviamente, i capitoli su Stalin, e altri passaggi cruciali ma troppo taglienti, per un totale di nove capitoli, oltre alla molla stessa del plot, resa più innocente.
Un romanzo concepito nel 1945-1953, durante la prigionia nel Gulag, scritto nel 1955-58, modificato nel 1964, ricostruito nel 1968, e che la casa editrice Voland propone al lettore italiano mezzo secolo dopo nella versione integrale, in tutta la sua grandezza da cattedrale, alla quale lo paragonò Heinrich Böll, con arcate, volte, travi a sorreggersi in un insieme imponente e leggiadro allo stesso tempo, tenuto insieme in una tensione perfetta da migliaia di mattonelle. Della cattedrale possiede il respiro della navata - il panorama multidimensionale della Russia staliniana, dalle campagne desolate ai salotti della borghesia rossa, e dalle segrete del Gulag alla dacia del leader - e la vertiginosa guglia dei capitoli su Stalin, ma anche la moltitudine di angoli reconditi, cappelle, affreschi, statue che emergono dall’oscurità, composti da singole storie, scene, personaggi, in un quadro che ricorda nella ricchezza e terribile nitidezza un gigantesco Giudizio universale a tutta parete.
Tutti finiscono dannati, in una Russia paragonata all’inferno fin dal titolo. Buona parte dell’azione si svolge nella šaraška, il primo girone «di lusso» del Gulag, la prigione privilegiata alle porte di Mosca dove ingegneri e matematici detenuti inventano apparecchiature che aiuteranno i loro carcerieri a fare altri prigionieri. Ci sono tutti i temi più cari a Solženicyn: la rivoluzione, la religione, la donna, il popolo contadino, la monarchia, la lingua russa, l’Europa, il marxismo. Ma non è un romanzo didattico e ideologico, è un racconto polifonico, mirabilmente reso nella traduzione di Denise Silvestri, con decine di storie (i personaggi sono tutti realmente esistiti) che si diramano dalla trama principale.
L’azione è invece pressata in meno di tre giorni, con però decine di flashback che vanno indietro di decenni, e lontano migliaia di chilometri, con improvvisi cambiamenti di ritmo, voragini filosofiche che si alternano a intermezzi quasi comici, in un incastro che sa di perfezione matematica, ma anche di musica. Il fucile appeso alla parete nel primo atto spara nel terzo, come raccomandava Cechov, l’infinito puzzle di dettagli, sfumature, oggetti, suoni, odori e frasi si compone senza lasciare fessure, in uno dei panorami più ampi e realistici della Russia del Novecento.
Un giorno, forse, si leggerà «soltanto» come un grande romanzo. Ma oggi, un secolo dopo la nascita dello scrittore e cinquant’anni dopo la prima pubblicazione «spennata», è ancora impossibile distinguere questo imponente affresco dal suo soggetto: lo stalinismo. L’enigma di un Paese enorme totalmente soggiogato dal suo sovrano, dove la verità e lo sguardo disincantato sulla realtà sono punibili con la prigione, e solo nella prigione diventano possibili. Tutti mentono a tutti - i mariti alle mogli, i genitori ai figli, i superiori ai sottoposti, i giornali ai lettori, i ministri a Stalin e Stalin a sé stesso, con le «fake news» di cui Solženicyn descrive il funzionamento in intuizioni che sembrano tratte da studi di comportamentismo moderno. Un sistema dove tutti sono carnefici, e tutti prigionieri, a cominciare dal Capo Supremo, che vive da recluso nella sua dacia, di notte, nell’autunno di un patriarca che non ha conosciuto una primavera gloriosa, un vecchio rancoroso, paranoico, vanitoso e permaloso, l’antirivoluzionario per definizione: più che ispirato dall’utopia marxista, è il suo becchino, un Grande Inquisitore dostojevskiano che sogna una gerarchia patriarcale.
Solženicyn voleva dimostrare che Stalin non fosse una tragica «deviazione», ma il prodotto inevitabile e logico dell’ideologia comunista. Cinquant’anni dopo, oltre ai paralleli con la Russia contemporanea, il romanzo colpisce un bersaglio non circoscritto più nello spazio e nel tempo, un manuale di psicologia del dittatore, da Mao alla dinastia dei Kim, dai peronisti latinoamericani ai rais mediorientali, fino ai sovranisti e populisti europei e americani che, in quella triste farsa che, secondo Marx, è sempre la ripetizione della storia, inneggiano al popolo per trasformarlo in plebe.

Repubblica 6.12.18
La chimica dell’amore
Liliana Segre "Alfredo mi ha liberato dal mio lager mentale"
Il ritorno da Auschwitz, l’incontro in riva al mare, una normalità da ricostruire, la depressione e finalmente la scelta di testimoniare. La senatrice racconta l’uomo che l’ha riportata alla vita
Intervista di Simonetta Fiori


MILANO «Alfredo mi mise la sua mano sul braccio tatuato. E io sentii un fluido speciale, come se quel gesto fosse destinato a durare per sempre». Una spiaggia dell’Adriatico, estate del 1948.
Liliana Segre è una ragazza selvatica, non ancora diciottenne.
Fa fatica ad adattarsi ai rituali mondani della borghesia milanese.
Ad Auschwitz ha perso i nonni e il padre adorato. E dopo l’adolescenza trascorsa all’inferno è difficile conquistare spensieratezza. «Vivevo con i nonni materni e andavamo in vacanza a Pesaro», comincia a raccontare nella sua bella casa di Milano dove tutto restituisce gusto e misura, forse per contenere i ricordi di una vita che ha sconfinato nell’assoluto. «Quando conobbi Alfredo sulla riva del mare provai un’emozione nuova. Aveva dieci anni più di me, era già avvocato, quasi mi veniva di dargli del lei. Ma allo stesso tempo pensavo che mi piaceva tanto. Ci fu uno sguardo complice, pochissime parole».
Cosa la fece innamorare?
«Un paio di giorni dopo notò il mio numero sul braccio. Io so cos’è, mi disse. E io so che tu hai sofferto molto. Mi ritrassi, non parlavo allora come non avrei parlato nei successivi quarant’anni. E lui mi raccontò che, avendo scelto di non aderire alla Repubblica Sociale, aveva trascorso due anni in sette campi di prigionia nazisti. Alfredo Belli Paci era uno dei seicentomila militari internati in Germania».
L’aver condiviso prigione e dolore vi ha unito?
«Sì, certo. Ma Alfredo per tutta la vita avrebbe fatto un passo indietro. Anche lui aveva sofferto la fame e la paura, ma era come se la sua storia meritasse meno attenzione. Così fin da subito mi innalzò sopra un altare anche esagerando — io non mi sentivo un’eroina, in fondo ero viva per caso — ma davanti ai figli non ha mai voluto mettere sullo stesso piano i nostri vissuti».
L’ha voluta proteggere.
«Moltissimo. E io percepii questa sua forza sin dal primo momento.
Anche da prigioniero era stato una roccia. Mi raccontava che, pur essendo denutrito, aveva preferito sacrificare un pezzetto di margarina pur di avere gli stivali lucidi. Voleva mantenere il suo decoro di ufficiale al cospetto dei carcerieri nazisti. A me, invece, la dignità era stata negata».
Riuscì ad aprirsi con lui?
«Poco. Ho sempre fatto una fatica enorme a raccontargli le cose. In realtà volevo godermi il nostro amore, pensare al futuro insieme. Per la prima volta amavo e mi sentivo riamata. E per una sorta di egoismo preferivo immergermi nella gioiosa quotidianità di una ragazza comune, che trepidava per una lettera o un incontro romantico».
La parola amore entrò nel suo vocabolario.
«Alfredo fu decisivo. Io non sapevo neppure baciare. E lui mi ha insegnato tutto».
Lei ha raccontato che prima di conoscerlo aveva anche pensato al suicidio.
«Non era un pensiero fisso. Ma avevo combattuto per sopravvivere per poi fare i conti con un’esistenza squallida: non sapevo comunicare e non trovavo nessuno che mi potesse ascoltare. Così la pistola che lo zio conservava nella cassaforte cominciò a solleticare la mia fantasia: ma perché devo vivere una vita così? ».
Fu Alfredo ad allontanarla da quel pensiero?
«Prima di lui mi distrasse lo studio.
Nei libri trovai la forza per andare avanti. E smisi di mangiare senza misura come avevo cominciato a fare subito dopo il lager. Quando tornai dalla Germania, sei mesi dopo Auschwitz, pesavo quaranta chili di troppo. Gli zii mi guardavano anche un po’ delusi: ma come, non morivate di fame? In noi sopravvissuti c’era sempre qualcosa di sbagliato».
Cosa fece suo marito per aiutarla?
«Non mi ha mai compatito, anzi poteva assumere toni severi e questo mi è stato di grande aiuto.
Perché se da un lato mi ha sempre messo su un gradino sopra di lui dall’altra non ha mai rinunciato a rieducarmi alla vita civile. Io ero un animale ferito, anche selvaggio, insofferente alle costrizioni sociali, disordinatissima. Lui era formale come tutti i militari, preciso, ordinato, molto composto. Non me ne faceva passare una. E io facevo di tutto per migliorare: volevo piacergli di più».
La fece uscire dal lager, almeno psicologicamente.
«In realtà non ero più prigioniera da tempo. Aprivo la finestra e vedevo i fiori, non il filo spinato. Ma certe cose erano rimaste in me, e forse le trattengo tuttora».
Lui temeva il suo sguardo.
«Mi diceva sempre che il mio sguardo era terribile perché andava oltre le cose. Invece sei qui, devi stare qui, mi incalzava. Anche i miei figli pativano questo sguardo».
Che cos’era?
«Un’astrazione dal mondo. Mi capitava di tornare a essere la ragazza di Auschwitz. Una ragazza completamente sola. La solitudine è una cicatrice che non si chiude».
Ancora oggi?
«Ha cominciato a guarire quando ho iniziato a "vomitare" le parole in pubblico: uso non a caso questo verbo, per sottolineare il senso di liberazione ma anche lo sforzo».
Come prese Alfredo la sua decisione di diventare testimone pubblica?
«Non fu contento. Temeva che l’esposizione mi avrebbe rinnovato il dolore. E temeva anche di perdere una sorta di esclusiva su di me. Ma io alla mia famiglia non chiesi consiglio: comunicai piuttosto una decisione».
Una decisione maturata nel tempo.
«Sì. Anche il mio matrimonio era cambiato. All’inizio ero stata una sposa innamorata, poi la madre affettuosa di tre figli: l’ultima, Federica, è nata nel 1965. Fin quando sprofondai nel male oscuro raccontato da Giuseppe Berto. Mi ritrovai a 46 anni senza le forze psichiche per affrontare la giornata».
E suo marito?
«Non l’accettava. Era convinto che si trattasse della menopausa.
Sottovalutò il mio malessere, ma ebbe la pazienza di far finta di crederci».
Cos’era questo suo malessere?
«Difficile da dire. Una somma di infinite cose che avevo messo in un ripostiglio della mente. Il colpo di grazia era stata la morte della nonna materna, l’ultima figura della mia infanzia».
Non era più contenta della sua
vita borghese?
«Non è proprio così, perché io ero felice di quella cornice amorosa.
Però dentro di me cominciava a serpeggiare il dubbio di non aver fatto il mio dovere di testimone. Mi ero infrattata tra queste mura agiate, dentro una famiglia rassicurante, e la Liliana di prima l’avevo completamente lasciata indietro».
Come da tutte le crisi nacque una donna diversa.
«Sì, ma forse quella donna nuova ad Alfredo piaceva meno.
Cominciai anche a lavorare nell’azienda dello zio, conquistando finalmente la mia autonomia economica. E smisi di essere gelosa. Lui era un bell’uomo, galante, un gran civettone. Qualche volta in occasioni mondane esagerava un po’, così sulla strada del ritorno litigavamo: "Hai fatto il cretino". "Ma no, cosa dici amore mio?"».
È vero che quando lei ha cominciato ad andare nelle scuole lui si sedeva nell’ultima fila e si commuoveva?
«Sì, qualche volta è successo. Aveva la lacrima facile, mentre io ho sempre fatto una gran fatica. La stagione della testimonianza è stata molto felice per noi. Superato l’ostruzionismo amoroso, mi aspettava a casa all’ora di pranzo.
Io parlavo agli studenti dopo l’intervallo. E nella strada da scuola a casa mi portavo appresso il mio sguardo perso. Finché aperta la porta sentivo la sua voce — amore mio, tutto bene? — e rientravo a fare la mia parte».
E ora che non c’è più?
«Dopo la sua morte smisi per un po’ di testimoniare. Poi ho ripreso, sapendo che nessuno mi avrebbe più detto: amore, tutto bene?».
C’è ancora in lei quella ragazza selvatica?
«Non in me, ma nella ragazzina di cui sono diventata la nonna. Già da anni sento il pericolo dello sdoppiamento. Così un giorno potranno capitare due cose. O che mi sveglio e non me la ricordo più.
Oppure torno a essere quella ragazzina. Perché entrambi i ruoli è difficile mantenerli».
FLAVIO LO SCALZO/ FLAVIO LO SCALZO / AGF
Alfredo Belli Paci è morto nel 2007

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