Corriere 4.12.18
Dall’antica Neapolis a de Magistris, Storia di una città indefinibile
Paolo Macry traccia per il Mulino una mappa culturale, artistica e politica dell’identità napoletana
di Marco Demarco
Duemilacinquecento
anni di vita e ancora cerca un futuro e una identità. Per questo,
sebbene sia una delle città più scritte e raccontate del mondo, Napoli è
praticamente impossibile da definire. Se la prendi da un lato ti scappa
dall’altro; se ne cogli il declino ti sfugge il rinascimento. «Napoli è
la somma delle sue parti e ci vuol altro che un intellettuale per
mutilarla con un po’ di teoria», dice Paolo Macry. Storico e analista
politico, Macry parla di se stesso. È lui l’intellettuale in questione, e
le parti a cui accenna sono le tante contraddizioni del luogo in cui
vive da quasi cinquant’anni, lo stesso di cui si occupa nel suo ultimo
libro, Napoli. Nostalgia di domani (il Mulino). La sua sembra una
partenza rinunciataria, un prendere atto che una città così carica di
storia non la tieni dentro un’unica idea come una moneta in un pugno,
tanto più se «è il prodotto di un immaginario, e di racconti ossificati,
che spesso la stringono in panni troppo stretti». Invece, è proprio a
partire da questo spiccato senso del limite che Macry è riuscito a
scrivere un libro agile (200 pagine per procedere dalla Neapolis
greco-romana a quella attuale) e denso allo stesso tempo. Un libro di
storia, ma in parte anche autobiografico. Una guida ai luoghi della
cultura e dell’arte, ma soprattutto una guida politica.
Napoli è una
città immobile, si dice. E allora come la mettiamo, contesta Macry, con
la rivoluzione del 1799 poi decapitata in piazza o con quell’altra
ghigliottina epocale che fu il 1860 o, ancora, con le Quattro giornate
del 1943? Napoli è decantata per la presunta mescolanza residenziale tra
élite e popolo. Ma è uno stereotipo anche questo. Un abisso ha sempre
diviso il popolo dai «signori», e nel 1884, tanto per dirne una, il
colera fece dieci volte più vittime nella città bassa che nei pressi
della centrale piazza del Plebiscito. Poi c’è il pregiudizio esterno sul
ceto politico locale, spesso valutato ad una sola dimensione, quella
corrente. Anche qui Macry sorprende. Prendiamo i «sovrani repubblicani»,
i sindaci. Il monarchico Achille Lauro fu a suo modo un innovatore.
Rispose alle richieste materiali di una città uscita a pezzi dalla
guerra e la sua leadership carismatica, unita a un’idea di grande
destra, anticipò di quarant’anni quella di Berlusconi. Il post-comunista
Antonio Bassolino ha avuto alti e bassi, ma le sue politiche culturali
hanno lasciato il segno, si vedano la metropolitana dell’arte e le opere
di Paladino o Kapoor in piazza Plebiscito. E attenzione anche al
populista Luigi de Magistris. Il suo laissez faire ha prodotto
inefficienza amministrativa, ma ha tenuto insieme segmenti professionali
e generazionali assai diversi tra loro, superando incompatibilità
ideologiche e sociologiche.
I pregiudizi
L’immobilismo, si dice: ma come la mettiamo con il 1799 o le Quattro giornate del 1943?
Infine,
la questione del giudizio interno sugli scrittori che si sono occupati
in modo critico e allarmati di Napoli. Città tollerante? Fino a un certo
punto. A Pasquale Villari Napoli rimproverò di parlare senza conoscere
le cose. A Matilde Serao le chiese chi la pagasse. A Malaparte, Ortese e
Saviano ha rinfacciato di lucrare sui suoi mali per ricavarne successo
personale. Tutto questo, si spiega nel libro, è «negazionismo
identitario». Meglio: è la conferma di una debolezza identitaria
apparentemente incomprensibile in un territorio cosi ricco di cultura.
Ma in fondo il problema è proprio questo. «A Napoli — dice Macry — è
storicamente mancato, e manca ancora oggi, un sistema culturale capace
di dare vita a una stabile identità. Non qualche brillante intellettuale
che costruisca il paradigma dell’essere napoletani, ma un flusso di
cultura che innervi la comunità, tendenzialmente l’intera comunità, e le
dia gli strumenti della consapevolezza».