lunedì 3 dicembre 2018

Corriere 3.12.18
Questione russa
L’Europa distratta su Kiev
di Paolo Mieli


Può darsi che Donald Trump abbia rifiutato l’incontro con Vladimir Putin al summit argentino del G20 perché il suo ex avvocato personale Michael Cohen minaccia rivelazioni sul Russiagate al procuratore Robert Mueller e in questo contesto il presidente americano non voleva mostrarsi sorridente al fianco dell’autocrate russo (salvo poi concedersi in extremis per qualche minuto). Però in quel modo almeno ha attirato l’attenzione del mondo intero sul clamoroso sequestro di tre navi della Marina di Kiev da parte dei russi e sull’incredibile arresto di ventiquattro marinai che erano colpevoli soltanto di trovarsi su quelle imbarcazioni entrate nel mare di Azov. Poco importa poi se il presidente ucraino Petro Poroshenko ha approfittato dell’incidente per varare misure abnormi quali la proclamazione della legge marziale o la chiusura ai russi delle frontiere del suo Paese (prima vittima un ballerino del Bolshoi, Andrei Merkuriev). L’Ucraina il prossimo 31 marzo dovrà affrontare una delicata tornata elettorale e Poroshenko è dato in svantaggio: ovvio che cerchi di sfruttare al meglio l’occasione offertagli da Putin per un richiamo al senso dell’onore dei suoi compatrioti. Quel che è davvero grave è che Putin prosegua nella politica inaugurata con l’annessione della Crimea (2014), proseguita con la guerra nel Donbass a cui si è aggiunta la costruzione di un ponte sullo stretto di Kerch destinata anch’essa ad agevolare l’annessione delle terre e dei mari ucraini.
Poroshenko non è il personaggio ideale per scaldare i cuori degli occidentali, neanche quelli più maldisposti nei confronti di Putin. Non è né liberale, né lungimirante. Nel maggio 2016 il Comitato per la sicurezza ucraina, massimo organo investigativo di Kiev, decise, per conto del presidente, di indagare quasi trecento giornalisti (293 per l’esattezza) che nei due anni precedenti avevano firmato reportage dal Donbass. Li si accusava di «collaborazione con i terroristi secessionisti». Il loro elenco, con relativi numeri di telefono e indirizzi, venne pubblicato sul sito del consigliere personale del ministro dell’Interno esponendoli a violenze. E fu uno scandalo. In quello stesso 2016 l’Ucraina mise al bando per cinque anni l’allora ottantacinquenne Michail Gorbaciov (grazie al quale Kiev aveva ottenuto l’indipendenza) dopo che in un’intervista al Sunday Times l’ultimo capo dell’Urss aveva dichiarato che se fosse stato al posto di Putin si sarebbe comportato come lui. E anche in questi giorni il presidente ucraino ha esagerato chiedendo alle navi della Nato di andare in suo soccorso con il rischio di far esplodere una guerra con Mosca.
Ma il conflitto tra Russia e Ucraina è fatto anche di esagerazioni verbali e di piccolezze. La cantante ucraina Susana Jamaladinova (in arte Jamala) vinse nel 2016, alla Globe Arena di Stoccolma, l’«Eurovision song contest» con la canzone «1944» dedicata alla deportazione staliniana dei duecentocinquantamila tatari musulmani di Crimea. Sconfitto, nonostante fosse risultato vincente al televoto, il cantante russo Sergey Lazarev, elegantemente si complimentò con la vincitrice. Invece la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ne fece un caso politico e dichiarò guerra a Jamala. Su tutto il territorio russo.
Da parte sua l’Europa ha approfittato di queste esagerazioni e scaramucce per far apparire quella ucraina come una questione che si faceva di giorno in giorno «minore». Tanto sapeva che Poroshenko sarebbe stato costretto in ogni caso a ringraziarla come ha fatto nell’intervista a Lorenzo Cremonesi pubblicata sabato scorso su questo giornale. Anche se, poche righe dopo quello che ha definito il proprio «apprezzamento», lo stesso Poroshenko si è contraddetto accusando gli occidentali di restarsene «in silenzio» al cospetto dei comportamenti sempre più aggressivi di Puti n . Comportamenti di fronte ai quali prese di posizione come quella della Ue («L’Unione continua a seguire da vicino la situazione ed è determinata ad agire in modo appropriato in accordo con i partner») sembrano davvero straordinariamente reticenti.
L’Unione appare animata — quantomeno in alcune sue parti tra cui si segnala l’Italia gialloverde — dall’unico desiderio di ritirare le sanzioni alla Russia. Del resto la Ue è stata fin dall’inizio assai poco generosa nei confronti dell’Ucraina. George Soros notava nel 2015 che l’ammontare del denaro destinato alla Grecia era all’epoca almeno dieci volte più grande di quello speso per l’Ucraina, «un Paese che non chiede altro che di avanzare nelle riforme». Un paradosso: c’era un Paese che voleva essere un alleato dell’Europa e veniva trascurato; e ce n’era un altro che si comportava da «suddito riluttante dell’Europa» che, «detto con franchezza, riceveva decisamente troppo». La nuova Ucraina nata con la rivoluzione di piazza Maidan, proseguiva Soros, «sarebbe una grande risorsa per l’Europa, investirvi varrebbe veramente la pena». Ma ciò non veniva capito e «questa totale incomprensione metteva a rischio la sopravvivenza stessa dell’Ucraina, il migliore alleato dell’Europa, di fronte alla pressione della Russia putiniana».
Qualche tempo dopo, un pensatore liberale, Timothy Garton Ash scrisse una «lettera aperta agli europei» in cui li invitava ad essere meno esitanti nei confronti delle rivoluzioni democratiche. «Fatevi un esame di coscienza e cercate di non essere affetti da qualcuno dei radicati pregiudizi che gli europei occidentali nutrono verso l’altra metà del continente, etichettato per secoli come remoto, esotico, misterioso, tenebroso e così via», li (ci) esortava Garton Ash. Per poi domandare: «Siete restii ad appoggiare il movimento arancione solo perché è sostenuto dagli americani?». Era lui stesso il primo ad ammettere che «ad una domanda posta in termini così brutali» la maggioranza degli interlocutori avrebbe risposto di no. Ma, osservava, la reazione istintiva dei simpatizzanti di sinistra o degli eurogollisti — all’insegna del «se gli americani la sostengono significa che c’è qualcosa che non va» — è «stupida». E allora? Se non ci va che gli americani prendano le redini della situazione in Ucraina «perché», chiedeva Garton Ash, «non lo facciamo noi?».
Noi europei? Figuriamoci. Da allora non abbiamo fatto che voltare la testa dall’altra parte e discettare su quanto le sanzioni alla Russia fossero «inutili» o addirittura «controproducenti». E adesso questo genere di discettazioni il governo italiano le fa a voce alta, vantandosi per di più di aver dato un apporto decisivo all’attenuazione della presa di posizione ufficiale della Ue. Con ciò regalando a Trump l’opportunità di essere l’unico a levare la voce e compiere un simbolico gesto di denuncia della grave violazione del diritto compiuta da Putin .