venerdì 28 dicembre 2018

Corriere 28.12.18
L’azzardo cinese (e quello Usa)
Così l’Occidente rischia 2 volte
Nel 2019 decisivi saranno l’evoluzione politica, socioeconomica e tecnologica della Cina e il conflitto ormai aperto con l’America, pronta a contrastare la sua corsa
Il futuro del pianeta
Ma il tentativo della Cina di diventare il nuovo Paese-modello non avrà successo
di Massimo Gaggi


Facile prevedere che il prossimo sarà un altro anno mozzafiato per gli Stati Uniti, trascinati da un presidente sempre più furioso per l’assedio delle inchieste giudiziarie che lo riguardano e sempre più deciso a blindarsi dietro le politiche populiste che tanto piacciono al suo elettorato conservatore, anche a costo di destabilizzare l’economia tra guerre commerciali, scontri col Congresso e blocchi dell’attività di governo.
Da europei nel 2019 dovremo preoccuparci sempre più delle azioni con le quali Donald Trump sta minando i rapporti transatlantici indebolendo la Nato (forse la causa principale delle dimissioni di James Mattis da capo del Pentagono) e tentando addirittura di scardinare l’Unione Europea, tra attacchi continui ai suoi due partner principali — Germania e Francia — e la minaccia di negare alla Gran Bretagna accordi commerciali con gli Usa se Londra uscirà dalla Ue in modo morbido e ordinato, anziché con una rottura caotica.
Ma se vogliamo porci in una prospettiva globale e di più lungo periodo, la cosa da osservare con maggior attenzione nel 2019 sarà l’evoluzione politica, socioeconomica e tecnologica della Cina e quella del conflitto ormai aperto con l’America, decisa a contrastare la sua corsa. Un conflitto inevitabile: la Cina è l’unica area d’intervento fuori degli Usa nella quale Donald Trump sembra deciso ad andare fino in fondo, senza cambi di rotta e ripensamenti. Uno scontro destinato ad avere conseguenze pesanti, soprattutto sul piano economico.
Stiamo già vivendo una fase di rallentamento della crescita — marcata in Cina, significativa in Europa, solo agli inizi negli Usa — in gran parte legato a questi conflitti economici. La situazione potrebbe diventare assai più drammatica nel 2019 se, come temono molti, i crolli dei mercati azionari degli ultimi due mesi dovessero sfociare in una crisi finanziaria analoga a quella scoppiata a Wall Street nel 2008 e poi propagatasi in tutto il mondo. Quella «grande recessione» ha lasciato segni profondi, ma allora una ben più grave depressione economica (come quella degli anni Trenta del Novecento) fu evitata anche grazie alla cooperazione planetaria che prese forma già nel G20 che si riunì a Washington a metà del novembre 2008, due mesi dopo il fallimento della Lehman Brothers.
Nel 2019 decisivi saranno l’evoluzione politica, socioeconomica e tecnologica della Cina e il conflitto ormai aperto con l’America, pronta a contrastare la sua corsa
Quello di oggi è un mondo assai diverso, come testimoniano i resoconti del recente G20 in Argentina, ridotto a semplice occasione per una fitta serie di incontri bilaterali, vista l’impossibilità di raggiungere un consenso generale su qualunque tema rilevante. La Cina ha approfittato della defezione dell’America di Trump, che si è ritirato dall’accordo di Parigi sul clima, per prendere la guida delle politiche planetarie, almeno sulla tutela dell’ambiente.
Ma il tentativo di Pechino di diventare il nuovo Paese-modello per il futuro del pianeta difficilmente avrà successo, visti l’asprezza del suo regime e l’allarme creato ovunque dal suo espansionismo: quello militare nel Sud-Est asiatico e quello economico in Africa, America Latina e alcune parti d’Europa. Soprattutto, il 2018 è stato l’anno nel quale Xi Jinping, eliminando i limiti temporali al suo mandato presidenziale, ha creato le premesse per una dittatura a vita simile a quella di Mao Zedong. Un autoritarismo solo apparentemente diverso, algoritmico: un totalitarismo tecnologico basato su un sistema di sorveglianza dei cittadini ubiquo e governato da un’intelligenza artificiale presentata come asettica ma che, in realtà, può distribuire premi e punizioni sulla base di criteri stabiliti dal regime.
Tecnologie sofisticatissime — dall’intelligenza artificiale alla videosorveglianza incrociata con i nuovi sistemi di riconoscimento biometrico del volto dei cittadini — al servizio di un vecchio precetto maoista: solo con l’esercizio di un’autorità forte si può tenere in ordine un Paese turbolento. Deciso a seguire questa linea, Xi Jinping ha anche varato un piano che mira a garantire alla Cina il primato tecnologico entro il 2025. La volontà di Trump di contrastare questo piano può apparire velleitaria (mentre alza barriere commerciali, la Casa Bianca, tagliando l’assistenza militare al Pakistan, ha aperto a Pechino le porte di un Paese-chiave dell’Asia centrale) o basata su secondi fini (dirottare l’attenzione dell’opinione pubblica Usa dalle interferenze della Russia di Putin che ha cercato di favorire l’ascesa del presidente immobiliarista).
Il futuro del pianeta
Ma il tentativo della Cina di diventare il nuovo Paese-modello non avrà successo
In realtà, alzando le barriere doganali, il leader autoproclamatosi tariff man, cioè il Superman dei dazi, non sta soltanto proteggendo il mercato interno americano e svolgendo un’operazione mediatica: tenta anche di frenare la crescita della Cina, mettendo i bastoni tra le ruote del suo modello sociale, oltre che economico. Una strategia rischiosa, destinata ad avere conseguenze pesanti per tutti, visto il peso ormai raggiunto dalla Cina «fabbrica del mondo», ma non priva di motivazioni legittime: tante sono le distorsioni dell’economia di mercato e le vere e proprie illegalità usate per decenni dalla Cina per avvantaggiarsi nella competizione sui mercati internazionali. Dai dazi, alle manipolazioni della valuta, dallo sfruttamento illecito di tecnologie altrui alle imprese formalmente private ma in realtà sussidiate dallo Stato e al servizio del Partito comunista cinese. Fino alle aziende straniere costrette a cedere la loro tecnologia o a violare diritti politici e umani (accettando sistemi di censura o di delazione) per poter lavorare nel mercato cinese, il più vasto del mondo.
Siamo a una nuova guerra fredda, stavolta tecnologica? Forse il paragone con quella con l’Urss è eccessivo: allora tra Occidente e sistema sovietico c’erano pochi rapporti mentre oggi le economie di Cina e Usa hanno un elevato grado di interdipendenza. Ma le armi della guerra commerciale sono comunque potenti: quella lanciata da Trump ha già ridotto di un quarto il valore della Borsa cinese e fatto calare sensibilmente il tasso di crescita del Paese. Il regime di Pechino si regge su un patto sociale che promette ai cittadini più benessere e libertà di viaggiare e arricchirsi in cambio della rinuncia alla democrazia e a molti diritti politici. Cosa accadrà se, con l’arresto della crescita e un aumento della disoccupazione, verrà meno il pilastro centrale di quel patto non scritto? Per Xi questa può essere una minaccia mortale. Che non deve venire più dal solo Trump se, come notava ieri sul Corriere Danilo Taino, da qualche tempo i grandi investitori internazionali hanno cominciato a scommettere più sull’India che sulla Cina.