giovedì 27 dicembre 2018

Corriere 27.12.18
La sfida al destino: i protagonisti che fanno la storia
Parte oggi, con un volume di Arnaldo Marcone sul primo imperatore dell’antica Roma, la serie delle biografie in edicola con il quotidiano. Da lungo tempo si discute su quanto influiscano nelle vicende delle società umane le scelte compiute dalle figure più famose sulla base del proprio orientamento personale
di Marcello Flores


Nel 1943, nel pieno della Seconda guerra mondiale, Sidney Hook, un intellettuale impegnato che era stato comunista nei primi anni Trenta e nel 1939 aveva costituito il Committe for Cultural Freedom che intendeva opporsi ai totalitarismi di destra e sinistra, pubblicò The Hero in History. In esso sosteneva che esistono «uomini memorabili» e «uomini che creano eventi nella storia»: tra i primi ricordava il ragazzo olandese che, ponendo il dito sul buco creato nella diga, salvò la città di Haarlem dall’inondazione, ma anche Gavrilo Princip, il giovane terrorista serbo-bosniaco il cui atto — l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo e della moglie Sofia — precipitò il mondo nella tragedia della Prima guerra mondiale; tra i secondi poneva senza esitazione Vladimir Lenin, di cui ricordava ancora, evidentemente, l’infatuazione che aveva prodotto in lui e in molti intellettuali della sua generazione.
Anche se può sembrare paradossale furono proprio i marxisti, secondo i quali le forze dominanti nella storia erano quelle economiche e sociali e che affidavano alle strutture e ai contesti più generali, più che agli individui, il ruolo di muovere la storia e alimentarne le dinamiche, a riflettere sul ruolo delle singole personalità nel corso degli eventi. Il libro che ebbe maggiore successo e che, ristampato in molte lingue, venne letto da molteplici generazioni, fu quello di Georgij Valentinovic Plechanov, che nel 1898 pubblicò La funzione della personalità nella storia. In esso, dopo aver sottolineato che l’individuo costituiva «un legame inevitabile nella catena inevitabile degli eventi» — cercando così di superare gli estremismi di una visione pienamente soggettivistica e una puramente deterministica — aveva aggiunto: «La funzione degli uomini veramente grandi consiste nell’essere i promotori, perché essi vedono più lontano e hanno una volontà più forte degli altri». Egli si domandava cosa sarebbe successo alla Rivoluzione francese se Mirabeau non fosse morto improvvisamente, Robespierre fosse stato ucciso accidentalmente o Napoleone fosse stato assassinato prima d’iniziare la campagna d’Italia. E rispondeva che le cose sarebbero, forse, cambiate, ma solo di poco o per poco tempo, dal momento che ogni epoca produceva i suoi eroi adatti, riprendendo la frase dell’illuminista Claude-Adrien Helvétius, secondo cui «ogni periodo ha i suoi grandi uomini, e se mancano li inventa».
Il principale esponente del soggettivismo era stato Thomas Carlyle, che dagli anni Venti fino agli anni Cinquanta dell’Ottocento aveva sviluppato, in sintonia con il romanticismo tedesco, l’idea che la storia fosse appannaggio dei grandi uomini, di alcuni dei quali (Schiller, Cromwell, Federico II) scrisse biografie destinate a durare, trovando in essi i protagonisti di eventi collettivi (la rivoluzione francese, il romanzo tedesco, il cartismo inglese) che acquistavano significato solo attraverso i propri protagonisti. Anche all’interno della storiografia liberale whig, che nell’Ottocento egemonizzò la visione britannica del passato, il ruolo affidato agli individui nel permettere il successo della libertà civile, della tolleranza religiosa, della divisione dei poteri come base per una spinta vittoriosa al progresso industriale e sociale del Paese venne ripetutamente sottolineato.
Sarà successivamente la tradizione tedesca, nella forma prima hegeliana e poi marxista, a suggerire che a creare la storia non erano tanto i grandi individui, ma forze sovraindividuali (lo «spirito universale» di Hegel, le «masse» dei populisti utopici, le «forze produttive» del marxismo ortodosso). Anche per un romantico e un idealista come Schelling, tuttavia, la storia era in qualche modo predeterminata, e gli uomini vi giocavano un falso dramma in cui da attori rischiavano di diventare marionette; mentre per Marx la storia era il risultato dell’attività storica degli uomini, che vedeva però al tempo stesso come «autori» e «attori» del dramma che vivevano e interpretavano.
Il paradosso
Proprio i marxisti, secondo i quali le forze dominanti sono quelle economiche, hanno prestato
più attenzione al ruolo dei singoli
Per cercare di risolvere l’antinomia tra le forze sociali, economiche e collettive che dominano il processo storico e il ruolo che potrebbero avere gli individui nel determinarne gli effetti, o almeno accelerarne spostamenti e deviazioni, Karel Kosik sostenne che l’uomo è al tempo stesso un prodotto della storia, ma si trova anche a esserne potenzialmente il creatore, perché è penetrato della presenza e dell’umanità degli altri e non può trasformare il mondo che attraverso la loro collaborazione.
È difficile pensare che cosa avrebbe potuto essere la storia senza la presenza di quelle personalità che costituiscono i «protagonisti» che verranno proposti nelle prossime settimane dal «Corriere della Sera»: senza Augusto o Cristoforo Colombo, senza Pietro il Grande o Marco Polo, senza Pericle o Attila; ma anche senza Cleopatra o Livia, Teodora o Maria de’ Medici. Furono il risultato dei loro tempi o i creatori delle loro epoche? Probabilmente entrambe le cose.
È stato sempre presente, nelle vite di ognuna di queste figure, un elemento di casualità, dell’essere presenti al momento giusto quando le loro capacità potevano costituire una risorsa importante per modificare o confermare il corso della storia. Ma si trattava, in ogni modo, di figli e figlie del proprio tempo, capaci di interpretarlo con maggiore lucidità, intensità e determinazione. Fortuna e virtù, come scrisse Machiavelli — un altro dei protagonisti della serie che andrà in edicola — sono due aspetti che si compenetrano: la prima è l’occasione attraverso cui l’uomo può dimostrare il proprio valore e la propria insostituibilità.