giovedì 27 dicembre 2018

La Stampa 27.12.18
Artemisia Gentileschi
Né prostituta né icona femminista Metteva nell’arte il suo erotismo
di Alex Connor


Quando ho cominciato a scrivere il romanzo su Artemisia Gentileschi, già da tempo conoscevo la sua storia e ne ero rimasta profondamente affascinata. Dopotutto, non è per questo che ci si dedica alla scrittura di un libro su qualcuno? Alla base ci dev’essere un profondo interesse nei suoi confronti e, nel caso si scriva un romanzo storico, anche un’attenta conoscenza della sua epoca.
Fin qui, tutto bene. Conoscevo la sua opera, il periodo in cui aveva vissuto, e ammiravo il suo coraggio. Ma ben presto scoprii che Artemisia aveva una certa reputazione. Non sto parlando del fatto che nel XVII secolo era considerata una «prostituta», cosa della quale soffrì moltissimo, ma di un’altra etichetta, gentile concessione del XXI secolo, ovvero quella di «icona del femminismo». Be’, io non ho mai creduto che lo fosse, anzi mi ha sempre infastidito che venisse considerata tale. Ecco a voi, quindi, la causa intentata tra la signora Artemisia Gentileschi e l’Icona femminista.
Dai resoconti dell’epoca sappiamo che Artemisia era una bellissima ragazza. Anche suo padre, Orazio, lo sapeva, e fin troppo bene, tanto che la faceva accompagnare dovunque da una donna di nome Tuzia, che doveva proteggerne l’interesse. Perché Artemisia rappresentava un notevole interesse per suo padre. Se non fosse stata vergine, non avrebbe potuto trovare un buon partito a cui darla in moglie. Ma c’era di più: Artemisia era anche la sua assistente di studio. Aveva dei fratelli, dal talento però piuttosto limitato, al contrario del suo, che invece era davvero notevole. Orazio aveva capito sin da quando la figlia era adolescente che sarebbe diventata una pittrice più brava di lui. Ne era geloso? Molto probabilmente sì. Di certo la bravura di Artemisia aveva fatto ingelosire i fratelli.
Tuttavia, nonostante si preoccupasse tanto di proteggere la figlia, Orazio ebbe la malaugurata idea di chiedere a un suo amico e collega, Agostino Tassi, di fare da tutor ad Artemisia: l’ambizione aveva avuto la meglio sul buonsenso. Tassi, che era un’opportunista, si guadagnò presto l’amicizia di Tuzia, e quest’ultima da chaperon si trasformò in ruffiana. Infatti, fu proprio lei che permise a Tassi di entrare nella stanza da letto di Artemisia per violentarla, fu lei a ignorare le sue grida d’aiuto. Tassi era una persona cattiva e in giro si sapeva: si diceva che avesse ucciso la prima moglie ed era stato accusato di incesto con la sorellastra e di furto. In effetti, è possibile che Orazio se la sia presa di più perché gli aveva sottratto un grande dipinto che ritraeva Giuditta piuttosto che per il fatto che avesse deflorato sua figlia, e che l’abbia denunciato solo per vendetta.
Quello che Orazio non aveva considerato erano le conseguenze che avrebbe avuto la questione. Era la prima volta che una donna (anzi, una diciassettenne) accusava di stupro un uomo, e Roma tutta, scandalizzata, guardava a bocca aperta questa bellissima ragazza che veniva continuamente condotta a testimoniare. Artemisia accusava Tassi, lui negava. Lei fornì la prova che l’aveva violentata, per poi prometterle di sposarla e renderla così di nuovo una donna rispettabile, unica ragione per la quale lei aveva acconsentito ad andare di nuovo a letto con lui. Quello che però Artemisia non sapeva era che Tassi era già sposato e che durante i lunghi mesi del processo le si sarebbe rivoltato contro, facendola passare per una prostituta, in modo da giustificare la sua colpa. La conseguenza fu che Artemisia venne ostracizzata dal padre e dai fratelli.
Pungente sensualità
Alla fine del processo Tassi fu giudicato colpevole e gli venne inflitta una pena, ma, siccome era uno dei favoriti del Pontefice, venne presto graziato. Ad Artemisia invece andò peggio. Aveva due possibilità: entrare in convento e continuare a vivere la propria vita nell’ombra, o ripercorrere le orme di Caravaggio e combattere per il proprio diritto di diventare un’artista famosa.
Penso che sia stato l’istinto a guidarla; si rendeva conto che per sopravvivere nel mondo dell’arte doveva dare ai suoi mecenati qualcosa di unico, per cui faceva in modo di stuzzicare lo spettatore, o meglio lo spettatore maschio, visto che solo gli uomini avevano il potere di commissionare opere d’arte. Erano gli uomini che bisognava compiacere. Con consumata abilità, Artemisia usava la propria fama come un’arma: rappresentava le donne nell’atto di vendicarsi degli uomini che avevano abusato di loro e sapeva che quelle immagini avrebbero stimolato la libido maschile. Dipinti come Giuditta e Oloferne sono di una pungente sensualità: una donna che sopraffà fisicamente un uomo, una donna al cospetto della quale l’uomo è letteralmente inerme. La posizione del missionario al contrario: il sesso soccombe davanti alla violenza e alla morte.
Ma Artemisia non si stava vendicando del suo stupratore tramite l’arte. Piuttosto stava facendo carriera, riscattandosi dall’umiliazione, trasformando la propria impotenza in un irresistibile e sensuale tour de force. Naturalmente i suoi mecenati volevano le sue opere. Avrebbero potuto fingersi sconcertati dal fatto che una donna dipingesse simili scene, invece lei li eccitava, li seduceva, otteneva commissioni e si faceva così strada nella professione, con ineguagliabile astuzia.
Il suo matrimonio fallì ed ecco le femministe tornare alla carica. Artemisia deve odiare gli uomini. Deve disprezzare sia Tassi sia suo marito, debole e adultero. No, tutto ciò servirebbe a fare di lei una figurina, una sagoma di cartone che faccia da sponsor al movimento, mentre era una donna reale. Artemisia amò un uomo alla follia, il suo mecenate e consigliere, Francesco Maria Maringhi, che però era già sposato. La loro storia a un certo punto divenne di pubblico dominio e Artemisia fu costretta a partire da Firenze, lasciandosi dietro un altro scandalo. Le lettere che lei e Marighi si scambiarono rivelano una donna dalla passione impetuosa, capace di amare e di provare forti sentimenti.
Le sue parole non sono quelle di una femminista arrabbiata, un’arpia che odia gli uomini, ma quelle di una donna capace dell’amore più profondo. Dopo Marighi, tuttavia, non amò più nessuno nello stesso modo. Nella sua vita ci furono altri fuggevoli amanti, ma non un sentimento intenso, sfacciato, divorante come quello. In ogni caso, tutta quella energia, tutta quella sensualità, non sono andate perdute, perché Artemisia le ha trasferite nella propria opera.
Un gioco sottile
Nessuna pittrice ha mai rappresentato meglio di lei il nudo femminile. Certo, lo faceva per compiacere i suoi committenti, ma anche perché si guardava allo specchio e usava sé stessa come modello. Utilizzando il proprio corpo, la propria sessualità, non ne aveva timore. La bellezza era il suo coltello affilato, con cui separava i committenti dal loro borsellino. I corpi che dipinge respirano di eccitazione e lussuria. Artemisia ha raggirato i suoi committenti, senza che loro se ne rendessero conto. Pensavano di avere davanti una vittima che cercava vendetta attraverso la pittura, mentre stavano in realtà assistendo al trionfo del potere femminile, attratti e instupiditi dal suo palpabile erotismo. E lei si riempiva le tasche esercitando la propria arte di seduzione, dando al pubblico e ai suoi committenti quello che volevano: violenza e «sensazione». Un gioco sottile, al quale avrebbe potuto giocare solo una donna molto intelligente. E i lupi accorrevano a nutrirsi.—
Traduzione di Clara Serretta