Corriere 27.12.18
Il ritiro Usa dalla Siria complica tutto (anche per Israele)
di Davide Frattini
La
campagna elettorale di Benjamin Netanyahu è cominciata tra i
fedelissimi. Nei corridoi della Knesset ha illustrato ai deputati del
Likud quali suoi pregi (ri)vendere agli israeliani da qui al voto del 9
aprile. Il primo ministro ha spiegato di voler conquistare il quinto
mandato anche vantando l’amicizia con Donald Trump. Il rapporto
confidenziale è di sicuro ricambiato, ma il presidente americano è un
partner volubile, propenso a prendere decisioni geostrategiche nel giro
di una telefonata. È andata così con l’ordine di ritirare le truppe dai
deserti della Siria, retromarcia affrettata che ha portato alle
dimissioni dell’ex generale Mattis e a un calo nella fiducia da parte
degli israeliani verso l’amico americano di Netanyahu. Che adesso deve
gestire isolato la situazione dall’altra parte del confine. Una della
basi militari dove sono dispiegate le forze speciali statunitensi è
quella di Tanf nel sud della Siria: è la presenza degli americani che ha
impedito ai Pasdaran di creare un corridoio tra l’Iran, l’Iraq, la
Siria e il Libano. Senza quell’avamposto gli israeliani si sentiranno
costretti a intervenire ancora di più per impedire il trasferimento di
armamenti iraniani all’Hezbollah libanese attraverso la Siria. Com’è
successo con il bombardamento nella notte tra martedì e mercoledì alla
periferia di Damasco. L’abdicazione di Trump, a mantenere gli anfibi sul
terreno e un ruolo nella partita mediorientale, lascia Vladimir Putin
come Zar unico della contesa. Il paradosso è che la presenza americana a
Tanf serviva anche a lui per premere sui generali iraniani. Adesso il
leader russo dovrà trovare altri mezzi per convincere gli ayatollah a
ridurre le operazioni e per moderare le sortite aree israeliane. Potrà
farlo da solo decidendo le carote da offrire e soprattutto i bastoni da
brandire.