giovedì 27 dicembre 2018

Corriere 27.12.18
L’isola dell’utopia
Diefenbach, l’artistoide-santone che ammaliò Capri con il culto del sole
L’appuntamento «Capri, Hollywood», che si apre ufficialmente oggi, propone il grande cinema tra proiezioni, incontri, mostre. Come quella fotografica del film di Martone su un abitante «profetico», qui raccontato da uno scrittore
di Vladimiro Bottone


Esiste, nello sterminato archivio della Rete, un controcanto alle foto del set di «Capri Revolution», l’ultima fatica di Mario Martone, ora esposte nella certosa di S. Giacomo. Sono delle lastre fotografiche con il vero Karl Wilhelm Diefenbach: pittore, teosofo, attrazione caprese e profeta della religione utopistica che spira come il vento ispiratore del film.
Karl Wilhelm Diefenbach: quel tedesco dall’aspetto di messia selvaggio che i visitatori di Capri — a inizi ‘900, appena sbarcati dalla funicolare — si vedevano venire incontro. Quel personaggio dalla barba patriarcale e i capelli arruffati, abbigliato con sandali e una tunica di sacco, che li faceva oggetto di mille insistenze affinché lo seguissero presso il suo atelier. Quanti di quei viaggiatori si saranno fatti persuadere ad acquistare un dipinto? Non pochi, vista la capacità di suggestione che hanno gli estremamente suggestionabili come Diefenbach.
Diefenbach il santone al centro di una famiglia allargata di adepti, prima a Ober St. Veit periferia di Vienna, infine lì in via Camerelle. Diefenbach la guida di quelle comuni ante litteram che si riveleranno poi, immancabilmente, tante piccole corti più o meno poligamiche, imperniate intorno al maschio alfa soggiogatore dei propri fedeli. Diefenbach l’Erlöser, il Redentore che avrebbe voluto riscattare i suoi simili dalla loro condizione di bestialità, convertendoli al culto del Sole e alla mistica naturista del corpo. Una personalità eccentrica? Peggio: un artista mancato o, almeno, incompiuto. E gli artistoidi finiscono sempre per voler fare dell’Umanità la propria opera d’arte.
Chi è, dunque, l’uomo che ci guarda da alcune fotografie dell’altro secolo, fingendo di traguardare verso un orizzonte messianico? Una pietra dello scandalo per la severa morale, ancora perbenista se non vittoriana, della Vienna e della Monaco a lui coeve? Un utopista abbagliato dalla visione di una nuova morale sciolta dai lacci di quella giudaico-cristiana? Un cantore delle società mediterranee e pagane idealizzate, secondo un abbaglio storico e culturale tipicamente tedesco, come luoghi di incondizionata apertura panica alla natura e ai sensi? Diefenbach fu tutto questo ma, soprattutto, qualcos’altro. Qualcos’altro che ce lo rende contemporaneo (ed ecco svanire l’illusione prospettica emanata dalle fotografie in Rete, dalle loro seppiature, dal loro profumo di epoche apparentemente senza possibilità di congiunzione con quella presente). Perché Diefenbach fu non un utopista, non l’ideatore di costruzioni sociali immaginifiche, irrealizzabili e, di fatto, irrealizzate. Diefenbach — il pittore dal braccio paralizzato, super compensato dall’ipertrofia all’Ego da Redentore ed Eletto — fu in realtà un precursore. Vale a dire una personalità che non progetta tempi e luoghi inesistenti (u-topia), ma che semplicemente agisce in anticipo sull’avvenire. Un avvenire del quale incarna già tutti gli sviluppi, potenziali e in boccio.
Non per nulla Diefenbach il teosofo precorre l’epoca delle religioni cosmiche, dei culti privati e «fai da te». Diefenbach anticipa le comuni hippy; è il teorizzatore di una natura incontaminata e purificata. Quell’innocuo eccentrico d’inizio secolo (anche Rilke poteva sbagliare nei propri giudizi), in realtà non rappresenta affatto uno dei tanti svitati, o artisti venuti male quanto le loro opere, che il clima caprese ha attratto fra Ottocento e Novecento.
Quello spauracchio dei turisti è l’iniziatore del naturismo, l’ideologo della superiorità morale caratterizzante la nudità rispetto alla restrizione e all’artificio dell’abbigliamento. È l’aedo della dieta vegetariana, l’assertore del superamento della monogamia. È il magnete che richiama, intorno a sé, l’attivista per i diritti degli animali Magnus Schwantje, oltre che il discepolo prediletto e aiutante Hugo Höpper, la cui parabola ideologica si concluderà fra le braccia di Hitler.
L’esaltazione pagana del corpo e della gioventù come sinonimo dell’unica bellezza appartiene al nazismo. Sarà poi la pubblicità a inverarla come unica verità indiscussa del nostro tempo. Guardarsi sempre dai precursori: appartengono al Passato, ti pugnalano alle spalle dal Futuro.

Repubblica 27.12.18
Il film e le foto alla Certosa
L’isola dell’utopia nello sguardo di Mario Martone
di Conchita Sannino


È in un insolito gelo invernale, di quelli che riportano l’isola alla sua radicale essenza e ai "fantasmi" delle sue utopie, che gli si è accesa letteralmente la lampadina di Capri- Revolution. Mario Martone svela: «Fine anno, clima rigidissimo. Eravamo proprio al festival a presentare Il giovane favoloso. E in una ghiacciata mattina vediamo quei dipinti alla Certosa di San Giacomo. Le tele attraggono, ma è il rapporto tra arte e natura che c’è in Karl Diefenbach e il racconto della "comune" di artisti filosofi e musicisti che lui aveva radicato sull’isola, a farmi scattare un’intuizione. È stata la visione del contesto e della tensione in cui quella pittura nasceva a condurmi al film: come un corto circuito. Anche perché in me si attivava il ricordo personale dell’esperienza di Lucio Amelio e del suo incontro con Beuys».
Quattro anni dopo, come in una precisa risacca, l’isola restituisce l’omaggio. Il regista napoletano che con la comunità trasgressiva d’inizio secolo del film Capri- Revolution (in sala già dal 20 dicembre, scritto insieme alla moglie Ippolita Di Majo) chiude la triologia degli "indomiti" – dopo Noi credevamo e il film su Leopardi – riceve oggi il premio Master of Cinematic Art dal chairman Lee Daniels e dalla presidente del festival, Noa, durante la 23esima edizione del "Capri, Hollywood" fondato da Pascal Vicedomini. Va invece alla protagonista Marianna Fontana e ad Antonio Folletto, il riconoscimento "Attori del futuro", visto che un punto di forza dell’opera è il talentuoso cast quasi interamente under 30. «Con Ippolita già da tempo lavoravamo a una figura di donna che incarnasse desiderio di libertà e sguardo sul futuro», aggiunge il regista, «Marianna aveva il temperamento perfetto, e poi mi piace puntare sulle nuove generazioni: accanto a lei e a Folletto, Gianluca Di Gennaro, Eduardo Scarpetta, tutti magnifici attori per cominciare dai napoletani. È ciò che cerco di attivare anche in teatro, da sempre». Ne è ultima testimonianza il legame tra Martone e la compagnia Nest di San Giovanni a Teduccio, che ha prodotto il successo dell’adattamento 2.0 de Il sindaco del Rione Sanità, di Eduardo.
Nelle stesse ore, la Certosa di Capri ospita invece la mostra di Mario Spada con splendide foto scattate sul set: esposte a soli pochi metri da quei cromatismi potenti di Diefenbach, che sono stati d’ispirazione per la temperatura delle film. Che, ovviamente, non è rievocazione, ma storia di un’alba di Novecento capace di parlare al secolo successivo. «Ci siamo presi delle libertà, e il racconto punta all’idea di fondo: pone temi indispensabili oggi, a cominciare da centralità e tutela della natura, come partita decisiva per le politiche del futuro», ragiona Martone. «Le figure si mescolano, Diefenbach è morto nel 1913, il film parte dal 1914, vigilia della Grande Guerra, e il protagonista già non si dedica più alla pittura ma a perfomance». Al punto che il personaggio centrale si chiama Seybu: anagramma dell’artista sciamano Beuys. La visione di Martone risente infatti della densissima corrispondenza tra Napoli e arte contemporanea, proprio negli anni in cui la sua avanguardia teatrale incrociava la straordinaria avventura del gallerista Amelio. Martone confessa: «Quando feci il documentario sul grande Lucio, lui mi regalò un multiplo di Capri-battery, la famosa opera di Beuys in cui la lampadina si alimenta con un limone. La dedica mi è cara, mi ha sempre sorretto: "A Mario, batteria vivente. Joseph e Lucio». Firmò anche a nome dell’amico "sciamano" ormai scomparso.
Poi se ne andò anche Amelio. E anche lui volle essere sepolto a Capri. Proprio come Diefenbach.

Repubblica 27.12.18
Capri, Hollywood
Il regista Amos Gitai "Basta con le paure sosteniamo le idee"
Il maestro israeliano presenta oggi A Tramway in Jerusalem
di Roberto Nepoti


al Festival del Cinema e dell’Audiovisivo e parla dei suoi progetti. Molte le star e le anteprime alla kermesse isolana (fino al 2 gennaio). E una mostra speciale...
Pluripremiato ai festival internazionali, regista di film impegnati, ma anche di grandi attrici, attivo nel cinema di finzione come nel documentario, Amos Gitai è uno degli ultimi cineasti ai quali si adatti perfettamente la qualifica di autore. Oggi è a Capri, accompagnato dal suo film presentato fuori concorso a Venezia A Tramway in Jerusalem. Nel frattempo lo abbiamo raggiunto telefonicamente in Israele, per porgli alcune domande.
Ci permetta di cominciare su una nota luttuosa. Pochi giorni fa, assieme a tantissimi colleghi, lei ha partecipato ai funerali di Bernardo Bertolucci, cui la legava un’amicizia personale e che aveva partecipato a uno dei suoi film, Golem lo spirito dell’esilio. Ci vuole dire una parola sul regista scomparso?
«Al funerale ci sono stati molti interventi, dal vivo e anche in video: come quelli di Scorsese, di Coppola e di altri. Io ho preferito parlare di due aspetti forse meno evidenti, eppure importantissimi, dell’opera di Bernardo. Da una parte il contributo al suo cinema della moglie Clare Peploe. Dall’altra il significato dei suoi primi film, che fecero da ponte tra la grande tradizione del dopoguerra (quella dei Visconti, dei Rossellini, dei Pasolini) e il cinema moderno. È un’autentica lezione sul cinema, il cinema più importante di tutti: quello che ha il coraggio di osservare la realtà e crea significato, pur senza voler indottrinare».
Anche se alcuni dei suoi film, come "Kadosh, Kippur" e "Terra promessa", sono molto noti, il suo cinema non è destinato a priori al grande pubblico. Eppure hanno accettato di lavorare con lei star del cinema come Juliette Binoche, Natalie Portman, Rosamund Pike, Hanna Schygulla, la grandissima Jeanne Moreau. È stato difficile convincerle a partecipare alle sue opere?
«Ci sono due tipi di attori: quelli che preferiscono ripetere sempre il loro repertorio consolidato e quelli che, invece, amano sperimentare. Un giorno Jeanne Moreau mi disse che accettava di lavorare a dei progetti quando pensava di poter imparare qualcosa che non sapeva ancora. E lo stesso è per me: anch’io ho imparato molte cose dai miei attori.
Non solo dalle star del cinema, ma da Pina Bausch, dal grande regista americano Samuel Fuller e da tanti altri».
Lei ha vissuto a lungo in esilio volontario da Israele, realizzando una celebre trilogia sul tema dell’esilio e dell’emigrazione. Quale le appare, oggi, la condizione degli esiliati?
«Gran parte dell’umanità è declassata, frammentata, in fuga e in cerca di rifugio. Però tutti siamo degli esiliati. Due anni fa ho diretto l’Otello di Rossini per il teatro San Carlo di Napoli: anche Otello era un migrante, un rifugiato. Già un quarto di secolo fa, per suggestione di Enrico Ghezzi, inserii nella mia Neo- Fascist Trilogy un documentario sulla campagna elettorale di Alessandra Mussolini dal titolo In nome del Duce. Oggi il fascismo è di ritorno, ci sono tanti leader dispotici e demagogici che sfruttano le paure dei popoli; si sta diffondendo una specie di tsunami revisionista, che sparge autoritarismo. Davanti a ciò il cinema e la cultura non possono restare indifferenti, ma hanno il compito di far capire ciò accade».
L’ammirevole film "A Tramway in Jerusalem", che presenta a Capri, è tutto concentrato sull’osservazione dei passeggeri del tram che attraversa la città. È un micromondo crudele: soprattutto dalla parte degli ebrei, che sembrano sentirsi costantemente sotto assedio. Lei che, assieme a tanti intellettuali israeliani, ha firmato appelli per la pace, oggi si sente più pessimista?
« Non bisogna assolutamente essere pessimisti, altrimenti si cade nel nichilismo e ci si arrende. Anche se la situazione attuale non è buona, è necessario portare sempre nuovi contributi di idee, si deve parlare di idee. Il cinema e l’arte possono svolgere un ruolo importante».
Sta lavorando a un nuovo progetto?
«Sì, a un progetto che mi appassiona molto.
Riguarda il personaggio storico di Dona Gracia Mendes, grande figura del XVI secolo, che fu perseguitata dall’Inquisizione. Traversò tutta l’Europa alla ricerca della propria identità e la sua è una storia piena di episodi avvincenti. Da lei ebbero inizio le grandi persecuzioni contro gli ebrei. Per il cast ho pensato a Léa Seydoux, Alba Rohrwacher, Charlotte Rampling. Ho già parlato con ciascuna di loro e presto si deciderà».

Repubblica 27.12.18
Due saggi sull’inconscio cognitivo
Quante azioni posso compiere a mia insaputa
di Massimo Ammaniti


Nel linguaggio quotidiano parliamo spesso di inconscio quando vogliamo giustificare o spiegare comportamenti che non rispondano ad una logica razionale. Ma a che cosa ci si riferisce quando viene usata la parola inconscio?
Probabilmente nell’uso comune si è influenzati ancora oggi dalle concezioni di Freud discusse più di cento anni fa nel suo famoso libro L’interpretazione dei sogni.
Nonostante Freud abbia dato diverse versioni dell’inconscio, nel linguaggio comune si intende una sorta di crogiolo della mente in cui si dibattono pulsioni che vogliono emergere nella coscienza, ma da cui vengono rimosse.
Lo stesso Freud era consapevole che l’inconscio dinamico, ossia quello rimosso, «non esaurisce — come lui stesso scrisse nel 1915 - tutta la sfera dell’inconscio. L’inconscio ha un’estensione più ampia».
I territori dell’inconscio vengono esplorati in due libri di recente pubblicazione, che si intrecciano fra loro quantunque anche molto diversi, Molti inconsci per un cervello di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà (il Mulino, pagg.
205) e A tua insaputa di John Bargh (Bollati Boringhieri, pagg. 422). Il retroterra di entrambi i libri è la scoperta recente dell’inconscio cognitivo, che viene ad ampliare l’immagine conflittuale dell’inconscio freudiano. In particolare vengono prese in considerazione le esperienze mentali non consapevoli che si legano continuamente con quelle più consapevoli, senza che entrino in rotta di collisione. Il funzionamento inconscio avrebbe avuto un’origine antica agli albori della civiltà, scrive Bargh nel suo libro, infatti il cervello umano si è evoluto lentamente nel corso del tempo. In un ambiente fortemente imprevedibile e complesso, come quello dei nostri lontani antenati, l’intuizione e l’istinto potevano a volte, anche se non sempre, giocare un ruolo più adattivo rispetto al pensiero conscio più finalizzato e circoscritto. Una conferma di questa fragilità della razionalità si è verificata con la decisione del Governo Indiano di ridurre il numero dei cobra che infestavano il paese mettendo una taglia per ogni serpente consegnato. Ma il risultato è stato addirittura opposto perché molte persone hanno cominciato ad allevare i cobra per ottenere le taglie.
Ma quello che distingue l’inconscio freudiano da quello cognitivo è il fatto che quest’ultimo può essere indagato con indagini mirate, come viene ampiamente documentato nel libro di Legrenzi e Umiltà. In un esperimento viene presentata a una persona l’immagine mascherata di un cane, in modo che non sia percepita, e quando viene riproposta successivamente la risposta della stessa persona è più rapida proprio perché era stata archiviata in modo subliminare. È un ambito di studi abbastanza noto che ha destato allarme in passato per i pericoli di manipolazione dell’opinione pubblica e che si è riproposto più recentemente con i "Big Data" utilizzati per condizionare le scelte elettorali.
Legrenzi e Umiltà si chiedono se i comportamenti intenzionali siano il frutto di decisioni razionali oppure prendano origine nel cervello senza che ce ne rendiamo conto. A questo interrogativo, che sembrerebbe scontato, le ricerche hanno dato risposte inattese: si è documentato, ad esempio, che l’attivazione delle aree cerebrali motorie precede la decisione di sollevare la mano che si traduce poi nel movimento. Queste osservazioni potrebbero mettere in discussione l’intenzionalità della mente umana e ricondurre le nostre scelte esclusivamente all’attivazione dei circuiti cerebrali. Anche se l’attivazione prende origine nel cervello, quando se ne prende coscienza può essere confermata o addirittura bloccata dalla mente che rimane in ogni caso il semaforo che dirige la nostra vita.
Sono due libri di grande interesse anche per un pubblico più ampio, perché l’inconscio cognitivo può aiutarci a comprendere come nascano in modo inconsapevole fin dall’infanzia pregiudizi e rifiuti, come il razzismo, che poi condizionano i comportamenti adulti senza che ne se abbia coscienza. Si è osservato ad esempio che comportamenti fobici per ciò che è sporco oppure contagioso si associano spesso a pregiudizi e rifiuti nei confronti degli immigrati e dei diversi, percepiti anche loro come un pericolo per la propria sicurezza. Un interrogativo conclusivo è quasi scontato: l’ambito dell’inconscio cognitivo non è forse troppo limitato, perché trascura il ruolo delle emozioni e delle ansie nell’insorgenza di pregiudizi e intolleranze, che prima di essere cognitive coinvolgono il mondo affettivo e addirittura le dimensioni viscerali.

Repubblica 27.12.18
L’analisi
Il rovescio dei diritti
di Nadia Urbinati


In questo anno che si sta per concludere abbiamo avuto modo di constatare quanto vero sia il detto che chi governa il significato delle parole governa la società. Nelle democrazie costituzionali, dove opera lo Stato di diritto e dove dovrebbe essere la legge a governare, le maggioranze che si succedono si impegnano a interpretare le norme fondamentali comuni; cosicché, nonostante le differenze, la grammatica resta la stessa, come pure il significato dei termini. La recita politica della quale siamo da qualche mese spettatori non sembra voler seguire questo canovaccio. Succede che, nel nome del governo "del popolo" le parole sono piegate a significare quel che più conviene, non tanto al popolo ( che comunque da solo non parla e non ha parola) ma a chi si auto-proclama «popolo». La situazione è delle più bizzarre.
Primo esempio. Si sente dire che i diritti civili sono per le «persone normali»; quelle cioè "come noi", non solo perché italiane, ma anche perché condividono le "nostre" norme morali o hanno gli stessi "nostri" costumi. Ovviamente chi sia il "noi" è un rebus; varia da regione a regione, e perfino da paese a paese: ma questo pluralismo scompare quando si intendono i diritti come strategie per dare potere a chi ha già potere. Nell’opinione di chi pensa in questo modo, i diritti civili hanno un significato esattamente opposto a quello per il quale sono stati ideati – ovvero per proteggere da o contro chi ha, appunto, il potere ( politico e/ o culturale). Sostenere che i diritti sono " robba nostra, ovvero di noi italiani" equivale a rovesciarne il senso, poiché anche se io sono italiana avverto il bisogno di essere riconosciuta come persona singola per essere protetta nelle mie scelte. Diversamente, chi mi difenderà dall’opinione della maggioranza o di chi pensa come gruppo- nazione? Anche " noi" abbiamo bisogno di essere protetti da quelli che parlano in " nostro" nome o come " noi". Secondo esempio. Il " reddito di cittadinanza" non è, come sappiamo, un " reddito" ma un sussidio temporaneo a chi non ha lavoro o vive in condizioni di bisogno; quando entrerà in vigore, sarà quindi sottoposto a diverse regole e limitazioni. La dimensione è quella dell’aiuto, non del privilegio. Ma per funzionare in questo modo occorrono alcune condizioni di limpidezza che spesso mancano al "nostro" Paese. Il rischio di manipolazione esiste. Matteo Salvini non ha usato mezzi termini, mettendo in conto che gli evasori fiscali potrebbero apparire bisognosi di aiuto. Ma molto furbescamente, il ministro ha già lasciato intendere che uno spiraglio all’abuso verrà tollerato. Infatti, fra una fetta e l’altra di pane e cioccolato, da bonario italiano " normale" ha dichiarato che il reddito di cittadinanza non andrà nelle tasche di chi ha " i macchinoni", come se tra "i macchinoni" e il niente non ci siano piani intermedi di privilegio. Rovesciando il significato de «la legge è uguale per tutti», il nostro ministro ci invita a pensare che comunque la legge uguale non lo è, e che un occhio verrà chiuso se non si esagererà nella violazione (basta non avere "i macchinoni").
Terzo esempio. L’orgogliosa affermazione di sovranità del "nostro paese meraviglioso", che ogni giorno ci viene propinata dai social dei politici di governo, sembra significare un riscatto del Paese in tutte le sue parti e le sue risorse pubbliche. Scopriamo invece che « prima gli italiani » significa in effetti prima " questi" italiani qua: per esempio, della nostra regione o della nostra parte di Paese. Per cui, la scuola pubblica, che la Costituzione dichiara essere dell’Italia repubblicana, diventa la scuola pubblica delle " nostre" regioni. La scuola veneta o la scuola lombarda: questa è, in effetti, la scuola della " nostra gente". Ecco allora che, quella pomposa affermazione di sovranità si trasforma di significato – diventa una strategia trabocchetto non per sostenere la scuola della nostra Repubblica, ma per avere un occhio di riguardo alla scuola della " nostra" parte di Paese. In sostanza, mentre dichiara «prima i nostri», il sovranismo acquista un significato che non è per niente generale. È di parte e settoriale, come il "noi" appunto, che esclude alcuni per stare robustamente dalla parte di altri.

Repubblica 27.12.18
Hanno messo la tassa sui buoni
di Chiara Saraceno


Scrooge, l’avaro di dickensiana memoria, è tornato proprio a Natale, colpendo sistematicamente ogni azione di solidarietà. È tornato e, più che manifestarsi nel cinismo egoista che, secondo la troppo affrettata e un po’ corriva analisi dell’ultimo Rapporto Censis, caratterizzerebbe oggi gli italiani, indossa i panni del governo "del cambiamento". Chiusi i porti ai migranti e a chi li soccorre, senza neppure la carità di un pacco viveri per affrontare la lunga attesa di un porto che li accolga, la legge di Stabilità fatta approvare con voto di fiducia ad un Senato, e presto anche ad una Camera, totalmente esautorate contiene vere e proprie cattiverie nei confronti dell’agire solidale. Un balzello imposto sui sudati risparmi che i migranti (regolari) mandano nei Paesi di origine per aiutare chi è rimasto là, esattamente come hanno fatto per decenni i migranti italiani all’estero, sostenendo con le loro rimesse intere economie locali. Tasse raddoppiate alle associazioni non profit e di volontariato. Si tassa, cioè, la solidarietà familiare e di prossimità, proprio mentre contestualmente si promulga un ennesimo condono agli evasori fiscali. Questa apparente contraddizione temo possa essere spiegata, appunto, con l’effetto Scrooge: si punisce chi non corrisponde ai propri desideri, alla propria rappresentazione della realtà. Non solo i migranti, ormai diventati il simbolo del nemico da cui ci si dovrebbe difendere. Anche le associazioni non profit e le migliaia di volontari che prestano la loro opera a chi si trova in condizioni di vulnerabilità, o che diffondono conoscenze critiche e occasioni plurali e pluralistiche di approfondimento culturale. Proprio perché costituiscono una potenziale opinione critica della narrazione governativa su come vanno le cose, sulla compattezza del "popolo" dietro le scelte governative, perché mettono in campo azioni che contrastano quella narrazione, le loro azioni devono essere rese più costose. Non importa se il raddoppio della tassazione implicherà che l’anno prossimo si potranno offrire meno pasti caldi, meno posti letto ai senza dimora, meno punti di ascolto, meno servizi alla persona, meno iniziative di accompagnamento per chi è in difficoltà.
Non importa, anzi meglio così, se si faranno meno iniziative culturali libere da padroni politici. Non importa se tutto ciò porterà anche alla perdita di qualche posto di lavoro, dato che anche le associazioni non profit e di volontariato, per poter operare in modo continuativo e affidabile, devono poter contare anche su lavoratori remunerati il giusto.
Il governo cercherà di presentare la protesta che sta montando da parte di associazioni grandi e piccole, come la reazione al fatto che, anche in questo caso, «!a pacchia è finita». Ma quale «pacchia»? Quella di lavorare per il bene comune, per una maggiore inclusione e civilizzazione dei rapporti, per la costruzione di comunità di prossimità con una qualità della vita decente, se non sempre ottimale, per tenere vivo lo spirito critico, la voglia di imparare, di ascoltare anche chi la pensa diversamente? Ci saranno anche associazioni che si fregiano impropriamente di "non profit" e godono di indebiti privilegi fiscali. E non vi è dubbio che grande è l’eterogeneità qualitativa e di efficacia tra le varie associazioni. Ma si tratta di accertarlo e di definire meglio i contorni di questo mondo, non di punirlo in quanto tale perché considerato estraneo, se non ostile, al governo del cambiamento.

il manifesto 27.12.18
Le maglie strette del rancore
Scaffale. «Nel labirinto delle paure», un saggio di Aldo Bonomi e Pierfrancesco Majorino per Bollati Boringhieri. Tra politica, precarietà e immigrazione: quando la solidarietà diventa reato e la crudeltà virtù civica
di Marco Revelli


«Quanto più la paura non trova luoghi sociali di decantazione e di elaborazione emotiva, tanto più tende a trasformarsi in rancore e odio verso l’altro da sé». Nel labirinto delle paure. Politica, precarietà, immigrazione (Bollati Boringhieri, pp. 159, euro 15) ruota intorno a questo focus ed è il volume – bello e terribile – di Aldo Bonomi e Pierfrancesco Majorino. Un viaggio «di lavoro» dentro il «labirinto del sociale muto» alla ricerca del punto germinale di questa inedita cattiveria che tutti oggi ci colpisce: noi, osservatori che attoniti ci chiediamo cosa mai sia successo; loro, gli oggetti, le vittime di quanto in Europa, nel XXI secolo, non si aspettavano di subire. E forse anche gli altri, gli attori dell’odio, quelli che dopo un lungo ciclo di «italiani brava gente» oggi si ritrovano tra gli haters, irriconoscibili a se stessi nei luoghi che non riescono più a riconoscere, a ostentare come uno straccio di bandiera i propri peggiori sentimenti.
UN SOCIOLOGO di territorio e un amministratore metropolitano, entrambi col gusto delle interrogazioni radicali, s’immergono nel magma sociale che ha sostituito la vecchia società di classe alla ricerca del punto di caduta in cui «il percorso della paura si è fatto rancore e razzismo». E dal «rovesciamento antropologico» che nell’ultimo ventennio del ’900 ha trasformato l’Italia da Paese di emigranti in meta di immigrati si è passati all’«inversione morale» di questi tempi ultimi, quando la solidarietà diventa reato e la crudeltà (non più solo l’indifferenza, la crudeltà ostentata) virtù civica, proclamata dai palazzi del governo.
LO CERCANO, quel punto cieco, testardamente. Con un accanimento che non è solo culturale e scientifico, ma anche etico e politico, sapendo che i vecchi strumenti giacciono a terra inutilizzabili: il «termometro del lavoro», ormai incapace di dirci la temperatura sociale dopo che il suo oggetto è stato travolto dalla «lotta di classe dall’alto» che ne ha annientato la soggettività e la capacità di far racconto di sé; l’antico «sistema ordinatorio delle classi« dopo che il salto di paradigma del Capitale le ha triturate in un pulviscolo indecifrabile; lo stesso conflitto – il grande «nominatore» dei processi sociali nell’età industriale -, ora diventato opaco, persino torbido, fattosi orizzontale, competizione intraspecifica, non più basso verso alto, lavoro versus capitale, poveri contro ricchi, ma forma raggrumata del rancore e dell’invidia sociale indirizzata verso il vicino o, come antidoto, l’inferiore, il più povero, il più marginale, il più «nudo». E alla fine lo trovano quel punctum dolens, grazie alla consapevolezza che per uscire dal labirinto – o quantomeno per sapersi orientare nei suoi meandri – «occorre avere il coraggio di inoltrarsi nel salto d’epoca». Esso si chiama «apocalisse culturale» – nel senso usato da Ernesto De Martino, di fine di un mondo, crisi della presenza – ed è il lato oscuro della globalizzazione, quello non raccontato dalle narrazioni apologetiche da fine della storia ma sperimentato da milioni di atomi sociali, fatta di declassamento, dequalificazione dei lavori tradizionali e loro messa fuori corso, erosione del reddito, precarizzazione mascherata da flessibilità, logoramento dei luoghi sotto la spinta sradicante dei flussi, incertezza che si fa paura e, nella solitudine degli individui, psicosi individuale e collettiva.
SAREBBE STATA necessaria una rete a maglie strette di ammortizzatori sociali, un welfare rimodulato sulla prossimità e la resilienza del legame sociale (un welfare di comunità), una narrativa risarcitoria nei confronti delle vittime di quel terremoto (i loser dimenticati nel racconto dei winner). In sostanza una ridefinizione in chiave post-industriale del vecchio patto socialdemocratico, per tenere insieme «il senso della convivenza e l’utile degli interessi». Invece niente. Anzi, il contrario, con l’affermarsi del modello feroce dell’austerità, del calcolo micranioso del dare e avere all’insegna dei Guai ai vinti! La narrativa dei vincitori (pochi, al vertice della piramide, sempre più in alto) fattasi norma, anzi grundnorm, costituzione materiale del nuovo mondo «nell’epoca dell’individualismo compiuto e dell’egologia».
E AL POLO OPPOSTO, in basso e in mezzo, il rancore che cresceva, e si faceva odio sociale indifferenziato, riflesso cannibalico di una società lasciata sola. Liquida, come scrive Bauman, di una «liquidità al mercurio» come dice Bonomi, tossica, avvelenata e avvelenante, passata senza quasi accorgersene, senza riflessione politica né allarme sociale, dall’originario istinto all’accoglienza quando ancora all’inizio degli anni ’90 si profilarono i primi migranti (e Bonomi lo registrò in uno studio pionieristico), alla successiva prevalenza dell’intolleranza e poi alla «xenofobia, al razzismo, alla guerra civile molecolare, alla guerra di civiltà» finché ti ritrovi nel labirinto delle paure. Stretti tra «l’adattivismo senza visione politica» del sociale e il narcisismo predatorio delle élites (quello che in Francia è entrato nel mirino dei gilet jaunes), con in mezzo niente. O quasi. Soltanto un immenso sommerso che non è solo quello del lavoro nero e dell’evasione o elusione fiscale ma è soprattutto il rendersi invisibile di un gigantesco reticolo sociale: «invisibili ai poteri, alle tasse, ai mercati, così confluendo, come detriti, nel fiume dei tanti precipitati nel sommerso della povertà, della società dello scarto e dei dannati della terra, il cui fiume è diventato il cimitero Mediterraneo».
SONO QUELLI che si era ancora riusciti a tracciare nei successivi cicli di discontinuità, «dal fordismo alla città fabbrica» fino al «postfordismo dei distretti e delle piattaforme produttive» quando ancora si sviluppavano saperi, competenze, conflitti, forme di rappresentanze sociali, economiche, politiche, adeguate ai tempi delle dissonanze, ma di cui poi si sono perse le tracce nel labirinto del «lavoro e dei lavori nell’industria 4.0, del lavoro autonomo di prima generazione che si fa maker, di quello di seconda generazione che si fa partita iva terziaria e di quello di terza generazione uberizzato e messo al lavoro nella dittatura dell’algoritmo». Caduti gli uni, quelli posizionati sul fronte avanzato del tempo – quelli che dovrebbero «mangiare futuro» – nella crisi della presenza di chi brancola «nel dilagare delle opportunità inafferrabili»; gli altri, quelli che non si riconoscono più in quello che gli era abituale, in un’elaborazione del lutto che «non produce nostalgia consapevole ma depressione disperante».
SONO LORO le componenti di una moltitudine che non produce soggettività ma che, anzi, della crisi della soggettività è il prodotto (o il sintomo). In qualche modo la forma. I conflitti cui darà origine, se ci saranno, saranno conflitti ambigui – «sporchi», nel senso di non limpidi – in qualche misura molto destabilizzanti e poco costituenti. Che tuttavia come segni di vita dovranno essere colti, da chi non si arrende alla dittatura dell’esistente. A noi, che ci chiediamo ogni giorno Che fare, il libro indica la strada del mettersi in mezzo, lavorare a forme di comunità di cura che siano anche operose, innestate nel tessuto della società liquida diventata tossica, per tentare la via della ricostruzione di brandelli almeno di legame ed evitare che tra l’avvelenamento del sociale e il narcisismo del politico resti il vuoto.

La Stampa 27.12.18
Rivolta in Ciociaria contro l’accademia dei nuovi sovranisti
di Maria Corbi


Collepardo, il paese delle erbe, stretto dai monti della Ciociaria, non ci sta a diventare un laboratorio internazionale di populismo. La certosa di Trisulti, i luoghi di San Benedetto invasi da Steve Bannon, il guru teocon made in Usa e dai suoi seguaci? Una ferita. E così sabato tutti in marcia verso la Certosa, orgoglio locale, tappa fondamentale del cammino del Santo, per protestare contro il progetto, ormai al via, di trasformare questo luogo di pace , di accoglienza e di passaggio delle genti del mondo in un’accademia internazionale di sovranismo.
E in questo piccolo borgo immerso nei boschi consacrati dalla scienza erboristica portata avanti dai monaci che un tempo abitavano la Certosa, è arrivato anche il Washington Post per capire quel che sta per accadere. Un interesse che alla gente del posto piace poco. «Adesso saremo il paese dei fascisti», dice Aldo, un vecchietto che scuote la testa con grande disappunto. «Io sono sempre stato democristiano, non sono di sinistra ma questa storia non mi piace». E scappa via quando gli si chiede il cognome. «Non sono tempi di sincerità», si scusa.
Il sindaco Mauro Bussiglieri ammette che qui «quasi tutti sono contrari». La difficoltà maggiore è quella di vedere un luogo religioso trasformato in una accademia politica che ha come obiettivo la difesa della civiltà occidentale nei suoi valori giudaico-cristiani. Ma anche la resistenza al pericolo islamista. Insomma da palestra delle anime a palestra per gladiatori sovranisti.
A preparare il progetto, partenza il mese prossimo, c’è Benjamin Harnwell, inglese di 44 anni, referente di Bannon in Europa, definito da lui «il ragazzo più brillante in città (Roma)». E «the smartest guy» non ha problemi a spiegare che qui verranno «istituzionalizzate» le intuizioni di Bannon grazie alle donazioni di filantropi americani e inglesi che vogliono che i loro figli crescano in un paese simile a quello in cui sono cresciuti loro. I professori? Teocon, of course. E il Washington Post si è posto la domanda fatidica: «Come è possibile che un posto dove monaci, una volta facevano voto di silenzio, adesso formi la prossima generazione di Matteo Salvini e Viktor Orban?».
Harnwell intanto, mentre recluta docenti, vive nella Certosa insieme a una colonia di gatti e all’ultimo monaco superstite e a un cuoco-giardiniere. Da quando è stata firmata la convenzione tra il Dignitatis Humanae Institute e il Ministero dei Beni culturali il luogo è meno accessibile, e solo attraverso visite guidate. Ed è anche questo un altro motivo di malumore tra la gente di Collepardo, come ci dice Daniela Bianchi, ex consigliera regionale nella passata giunta Zingaretti, da sempre in prima fila nel contestare l’assegnazione della Certosa a un ente ultracattolico e sovranista. E non si può certo “incolpare” Salvini visto che la firma è di un governo di sinistra (ministro della Cultura Dario Franceschini). «È vero - dice la Bianchi - ma questa associazione aveva tutti i requisiti per farlo e all’epoca non si conosceva il legame con i sovranisti, anche perché parliamo del 2017. Solo una volta acquisita la Certosa sono usciti fuori con le loro reali intenzioni». «C’è stata la visita di Bannon molto in sordina. E poi la sua dichiarazione di fare la scuola politica alla Certosa. Stiamo parlando di un bene comune sotto tutela del Ministero e di un presidio monastico sul cammino di San Benedetto, un luogo che porta con se il significato dello scambio, dell’unione, e non certo della chiusura sovranista. Quel bando assegnava agli assegnatari dei compiti ben precisi e occorrerà verificare se sono stati rispettati».
«Quella di sabato, continua la Bianchi, non sarà solo la marcia su Trisulti contro Bannon ma anche un momento per fare proposte diverse rispetto alla sua in modo che questa voce così estranea per la nostra comunità non rimanga incontrastata».

La Stampa 27.12.18
Dalla Russia alla Cina lo “sharp power” all’attacco
di Paolo Mastrolilli


La democrazia italiana e il sistema di alleanze che l’ha sorretta per oltre mezzo secolo, consentendo a un Paese devastato dalla guerra nazionalista di diventare una delle prime potenze industriali del mondo, sono sotto attacco. Sarebbe ora di riconoscerlo, e cominciare a porvi rimedio. O quanto meno aprire un onesto dibattito politico, per chiederci se davvero la maggioranza dei nostri cittadini vuole cambiare schieramento, e quindi anche valori e stili di vita. È una riflessione che nasce leggendo il libro di Paolo Messa L’era dello sharp power, pubblicato da Università Bocconi Editore (pp. 180, € 16,50).
Il direttore del Centro Studi Americani ha posizioni atlantiste, che non nasconde. Il suo saggio parte dal fatto che il «soft power», teorizzato dal professore di Harvard Joseph Nye, sta lasciando il posto allo «sharp power». Il potere soffice della cultura, e l’attrazione esercitata dalla democrazia liberale che cerca di persuadere invece di forzare, esiste ancora e resta importante. Negli ultimi anni però sta subendo la concorrenza sempre più aggressiva del potere affilato, cioè l’offensiva lanciata da potenze non liberali come Russia e Cina, per affermare il loro modello in tutto il mondo.
Da questa considerazione accademica, Messa passa all’analisi della realtà italiana, e qui il saggio diventa stringente. L’autore elenca una serie di fatti innegabili, che dimostrano come Mosca e Pechino siano già mobilitate per influenzare o minare il nostro dibattito politico, tanto dal punto di vista della propaganda mediatica, quanto da quello economico. Domandarsi quanto siano stati efficaci i troll di San Pietroburgo nel determinare il risultato delle elezioni del 4 marzo 2018 è un ovvio errore di prospettiva, non sappiamo quanto onesto. Così come innegabile è l’offensiva economica della Repubblica Popolare, col bagaglio più discreto di influenza politica e sociale che porta con sé. Il punto chiave da riconoscere è che queste manifestazioni dello «sharp power» sono realtà, e dobbiamo decidere come reagire. In un quadro di confusione alimentata anche dagli Usa, dove l’establishment ha individuato la sfida in corso denunciando le «potenze revisioniste» nella nuova strategia nazionale, ma il presidente Trump è tanto deciso contro la Cina, quanto ambiguo verso la Russia.
Chi vuole cambiare la collocazione geopolitica, strategica e culturale dell’Italia dovrebbe avere l’onestà di ammetterlo, chiarire i propri obiettivi, e sottoporli alla scelta democratica dei cittadini. Chiedendoci anche perché tanti di questi cittadini siano disposti ad abbracciare la propaganda dello sharp power.

La Stampa 27.12.18
La paura per le mosse di Donald
di Mario Platero


Il mercato ha finalmente tirato il fiato. Dopo settimane di perdite colossali un recupero degli indici di Borsa americani come quello di ieri era dovuto, anche perché l’economia resta in crescita e in piena occupazione. Pensate ad esempio che le vendite natalizie del 2018 saranno fra le migliori degli ultimi anni. È però cambiata in America una dinamica di fondo: il rapporto di fiducia fra la Casa Bianca e gli investitori. Nelle ultime settimane infatti, il mercato, la Borsa in particolare, ha chiamato i bluff di Donald Trump e il presidente, al dunque, non aveva le carte in mano, cosa che ha generato non poca preoccupazione.
L’umore negativo del mercato è stato determinato da una serie di dichiarazioni e decisioni incongrue di Trump (negoziato commerciale con la Cina, ritiro delle truppe da Siria e Afghanistan, licenziamenti di John Kelly e Jim Mattis, garanti del buon senso alla Casa Bianca, chiusura del governo) fino alla domanda che ha dato il colpo finale alla Vigilia di Natale: «Posso licenziare Jerome Powell? (il governatore della Fed, ndr)». Trump lo ha chiesto al segretario al Tesoro Steve Mnuchin, che gli diceva di sì, poteva farlo anche se non gli sembrava una buona idea. Quel giorno, fra domenica e lunedì, Mnuchin diramava anche un tweet molto strano «Ho parlato coi banchieri, hanno una forte liquidità delle banche, dunque state tranquilli». Cosa tipica dell’«excusatio non petita», perché nessuno fino ad allora si era preoccupato della liquidità delle banche. Che ci fosse qualcosa che non si sapeva? Ecco perché il 24 dicembre, l’indice Dow Jones perdeva quasi il 3% e chiudeva a 21.792, la peggiore vigilia di Natale borsistica della storia. Quel giorno l’indice S&P 500 perdeva quasi il 20% dai massimi di settembre, a un millimetro dal mercato dell’orso. Ieri le perdite di lunedì sono state quasi azzerate, ma la caduta complessiva per dicembre resta fra le peggiori per un solo mese.
La dinamica Trump-Mnuchin è tipica del modus operandi della Casa Bianca. Trump vuol far credere alla sua base politica che la Fed e non altre vicende politiche o congiunturali, sia alla radice delle perdite in Borsa. Perché questo sia chiaro il presidente lo tweetta ai quattro venti. Poi se l’è presa con Mnunchin che avrebbe dovuto secondo lui rassicurare i mercati. Lo ha trattato malissimo minacciando di licenziare anche lui. Lo ha anche obbligato a scrivere quel tweet contrario a ogni regola finanziaria: «Devi rassicurare i mercati, parla coi banchieri». E Mnuchin ha eseguito. Un po’ come se il ministro della Sanità in una vigilia di Natale di perfetta calma annunciasse e sorpresa: «Non vi dovete preoccupare perché abbiamo vaccini a sufficienza contro un’epidemia di ebola». Nulla di peggio che scatenare preoccupazioni in chi quelle preoccupazioni non le aveva. Sul fronte Fed infine, una cosa è attaccare il governatore, in passato lo hanno fatto anche altri presidenti. Un’altra è metterne in dubbio l’autonomia al punto di minacciare il licenziamento di Powell.
In sostanza gli investitori, che guardano sempre al futuro, scontano non tanto un possibile imminente indebolimento dell’economia, ma le incertezze di leadership con cui si dovrà confrontare l’America da qui ai prossimi due anni di presidenza Trump. E’ l’impatto di decisioni improvvise e incongrue che potranno minare la solidità del sistema multilaterale, il predominio storico dell’economia americana, e anche accelerare l’arrivo di una recessione. Troppe decisioni solitarie, troppe affermazioni solo sulla parola, troppe ripetizioni - ieri Trump ha detto di nuovo che sarà il Messico a pagare per il muro ai confini meridionali. Eppure proprio questo presidente, avendo lanciato e gestito casinò e sale da gioco dovrebbe conoscere bene la dinamica del bluff: ogni tanto le carte ci vogliono. C’è da dire però, che tutte le sue case da gioco sono tristemente fallite.

Corriere 27.12.18
Il caso
«Trump evitò il Vietnam grazie a false diagnosi»
Parla la figlia del medico
L’inchiesta del «New York Times». E lui vola in Iraq
dall’inviata a Washington Viviana Mazza


Era l’autunno del Sessantotto, Donald aveva 22 anni e rischiava di partire per il Vietnam. E ancora una volta papà Fred giunse in suo soccorso. Il presidente Trump si è spesso presentato come «self-made man» che ha costruito il suo successo da solo, ma due mesi fa un’inchiesta del New York Times ha rivelato che a partire dall’età di tre anni ha ricevuto centinaia di milioni di dollari, ricavi dell’impero immobiliare di suo padre, evadendo le tasse sull’eredità. Sempre il Times, ieri, offriva una possibile spiegazione di come Trump abbia evitato anche il servizio militare, grazie all’intervento di un podologo del Queens, che firmò una diagnosi di «speroni ossei nei talloni».
Per 50 anni, scrive il quotidiano, i dettagli della vicenda sono rimasti poco chiari e non è stata mai svelata l’identità del medico, con Trump che in campagna elettorale diceva di non ricordare chi avesse firmato il documento. Ora le figlie del dottor Larry Braunstein spiegano che il certificato fu un favore al padre di Donald, che era il proprietario dello studio affittato dal podologo (il quale in cambio ottenne un trattamento preferenziale). Secondo Elysa Braunstein, medico anche lei, il giovane e atletico Donald non soffriva affatto di problemi ai talloni. Non sarebbe la prima volta che una famiglia benestante evita che i figli vadano in guerra, ma è chiaro che Trump non ci fa una gran figura, dopo aver insultato veterani del Vietnam come John McCain perché «un vero eroe non si fa catturare».
L’articolo del Times è la ciliegina sulla torta — o meglio il carbone nella calza — che completa il Natale cupo, solitario e rabbioso del presidente. Il vortice di eventi degli ultimi giorni allarma i media liberal ma anche i repubblicani: la paralisi del governo legata al rifiuto dei democratici di inserire nel bilancio 5 miliardi di dollari per il muro con il Messico; il ritiro improvviso dalla Siria, seguito dalle dimissioni del capo del Pentagono Jim Mattis e dai timori per l’intera politica estera Usa. Con 800 mila dipendenti federali rimasti senza paga e i tabloid che lo raffigurano come il Grinch che ha rubato il Natale, il presidente è dovuto rimanere a Washington anziché raggiungere i figli in Florida. Si è chiuso nella Casa Bianca a guardare Fox News, lamentandosi di essere rimasto «tutto solo (povero me)», benché Melania sia tornata apposta da Mar-a-Lago. Alla vigilia di Natale, il presidente ha scatenato una tempesta di messaggi su Twitter, sfogandosi contro tutti: i democratici, gli alleati «che si approfittano dell’America», i dimissionari a partire da Mattis, tra le voci che meditasse di mandar via anche il capo della Fed Jerome Powell, «colpevole» di aver alzato i tassi, e il ministro del Tesoro Steve Mnuchin che ha passato le feste a cercare (inutilmente) di rassicurare Wall Street crollata ai minimi. Come un cattivo presagio, persino l’albero di Natale «nazionale» a Washington si è spento e, per riaccenderlo, i dipendenti hanno lavorato gratis. «Tutto questo è una vergogna», è stato il messaggio della conferenza stampa in cui Trump ha dichiarato che lo shutdown andrà avanti finché i democratici non cederanno sul muro, che i dipendenti federali sarebbero d’accordo con lui e pronti a restare senza paga, e che esista già un misterioso contratto per una nuova sezione della barriera in Texas. Risentito e senza amici, Trump è sembrato davvero il Grinch quando, al telefono con i bambini che per tradizione chiedono dove si trovi Babbo Natale, ha detto a Collman Lloyd, 7 anni, che non è normale crederci ancora alla sua età. Lei non se l’è presa (e la sua fede in Santa Claus è immutata) e in serata anche l’inquilino della Casa Bianca è parso ravvedersi, come vuole la favola, quasi avesse realizzato che, privando dei regali la gente, la gioia del Natale non scompare. «Merry Christmas!», ha annunciato su Twitter. Poi, sorpresa, ieri è volato in Iraq con Melania: la sua prima visita alle truppe. Da lì possono attaccare l’Isis, ha promesso. Da lì non si ritireranno.
Trump confida ai suoi consiglieri di affrontare una «guerra al giorno» a Washington. Crisi anche peggiori lo aspettano con i democratici che controllano la Camera dal 3 gennaio. Così molto è cambiato dai tempi del Vietnam: ora quasi quasi è meglio andare al fronte.

La Stampa 27.12.18
L’obbligo di tutelare il risparmio
di Vladimiro Zagrebelsky


Anche la valanga comincia con piccoli smottamenti. Poi si allarga e accelera la caduta. Infine diventa disastrosa e, giunta a valle, distruttiva. Così la vicenda dell’approvazione della Finanziaria (ora detta legge di stabilità), ha certo diversi piccoli precedenti, divenuti man mano più frequenti e inquietanti, fin da quando il governo di allora mise la fiducia addirittura sul testo di una legge elettorale, poi dichiarata incostituzionale. Precedenti che ora naturalmente vengono richiamati da chi adesso è al potere e dispone di una grossa e disciplinata maggioranza in Parlamento. Il quale Parlamento, alla Camera è stato prima chiamato a votare la fiducia al governo su un testo che lo stesso governo dichiarava fittizio, già in via di profonda rielaborazione. Poi, l’altro giorno, il Senato, sempre con il metodo della fiducia al governo che taglia la discussione e ogni possibilità di emendamento di ciò che il governo propone, ha votato un testo di pochi articoli, ma di 1142 eterogenei commi, comunicato poche ore prima: impossibile da leggere e ancor meno da capire. E si tratta della legge annuale più importante. Insomma, molti colpetti all’impianto costituzionale di una Repubblica parlamentare, via via più frequenti. Ora la valanga è arrivata in fondo, ostentatamente distruttiva. Distruttiva del sistema parlamentare ed anche della credibilità e dignità del Parlamento. Naturalmente, come oramai d’abitudine, il presidente del Consiglio professor Conte ha avuto l’ardire di dar la colpa all’Unione europea, che avrebbe tirato per le lunghe nelle trattative dirette a far sì che l’Italia non si allontanasse troppo dagli impegni che aveva preso con la comunità degli Stati di cui è parte.
La legge verrà dunque approvata a scatola chiusa dalla Camera e diverrà definitiva (salvo gli aggiornamenti già promessi in corso d’anno). In realtà la legge diverrà definitiva se e quando il presidente della Repubblica la promulgherà. Il testo è all’esame del presidente per consentirgli un giudizio consapevole; un giudizio che il presidente maturerà come dovuto e che riguarderà il contenuto e la procedura seguita in rapporto alla Costituzione e agli obblighi che l’Italia ha assunto per far parte dell’Unione.
Quali sono in astratto le possibilità che si aprono? Secondo Costituzione il presidente Mattarella potrebbe rifiutare di promulgare la legge rinviandola al Parlamento, spiegandone le ragioni con un messaggio. Il Parlamento dovrebbe quindi procedere a una nuova deliberazione. Intanto però lo Stato andrebbe in «esercizio provvisorio», cioè in una semi-paralisi. Dati contenuto e stile dell’agire politico della coppia di partiti di maggioranza, è certo che il presidente sarebbe aggredito da una valanga di accuse e forse di insulti. Con lui l’aggressione investirebbe la Presidenza della Repubblica e la possibilità stessa di svolgere la cauta, ma utile ed anzi ormai indispensabile opera di consiglio e tutela delle istituzioni repubblicane. Insomma, l’impressione è che il presidente sia stato posto in una condizione difficile. Tanto più che per le gravi forzature procedurali dovrebbe reagire lo stesso Parlamento, ma i rispettivi presidenti non sembrano indignarsi e - a parte quella della senatrice Bonino - non si levano voci alte di protesta.
In alternativa il presidente può promulgare la legge, lasciando al Parlamento, al governo e ai partiti che lo compongono la responsabilità non solo del contenuto della legge, ma anche dell’offesa fatta al sistema parlamentare disegnato dalla Costituzione. Magari, come ha fatto altre volte, ad esempio richiamando l’obbligo costituzionale di tutelare il risparmio, il presidente potrebbe accompagnare la sua firma con una lettera al governo per manifestare preoccupazione e indicare esigenze costituzionali. Poco forse, rispetto a quanto abbiamo visto svolgersi nel Parlamento. Il quadro politico è tuttavia carico di minacce per l’equilibrio dei poteri costituzionali. I poteri con funzioni di garanzia, Corte Costituzionale, magistratura e -prima fra tutti - la Presidenza della Repubblica si muovono ora su un terreno divenuto estremamente conflittuale, financo aggressivo. Anche per questo motivo l’armonico svolgersi del sistema costituzionale vive con difficoltà.

Repubblica 27.12.18
Le manovre per le europee
Alleanze, sondaggi e simbolo la difficile scissione di RenziGozi: "Lavoriamo a un partito diverso dal Pd". No di Bonino a intese. Calenda: "Ma i dem al 15% dove vanno?"
di Goffredo De Marchis


Roma C’è qualche problema nella scissione antisovranista dentro il Partito democratico. Un ingolfamento. Matteo Renzi (che non ha ancora deciso) e Carlo Calenda sarebbero costretti ad andare insieme alle elezioni europee di maggio anche se non si amano affatto. « Dovremo mettere da parte le nostre idiosincrasie e fare una cosa uniti » , dice l’ex ministro dello Sviluppo economico. Che poi rilancia: « L’ideale è un fronte unico in cui ci siano anche il Partito democratico e +Europa. Altrimenti va tutto in pezzi ».
Il catastrofismo di Calenda però non viene condiviso dal Pd e dal suo candidato favorito alla segreteria Nicola Zingaretti. Non solo. I più rigidi appaiono gli esponenti di + Europa, la lista di Emma Bonino, che non ha alcuna intenzione, per il momento, di mescolarsi in un movimento ancora indistinto. Benedetto Della Vedova, uno dei principali animatori del partito europeista, è netto: « Siamo grati a Calenda che si è speso per noi in campagna elettorale. Ma per le Europee siamo concentrati su + Europa, punto e basta». È un no a qualsiasi alleanza spuria. Graffia ancora di più Bruno Tabacci, garante del simbolo: « Non farei mai un’alleanza con Renzi. Così quel poco di serietà che hai lo distruggi. Noi aderiamo al gruppo dell’Alde. Adesso arriva uno che ha inventato il fronte socialista e che gli diciamo ai liberaldemocratici: abbiamo scherzato? Un po’ di normalità, dai».
È dunque una scissione finora piena di dubbi e di no. Tabacci confessa: « Ho incontrato Gozi. Mi ha detto che lui e Renzi stanno andando avanti » . Sandro Gozi, ex sottosegretario agli affari Ue, spiega con grande onestà: «L’ex premier non ha ancora deciso. Ma noi stiamo lavorando su un partito diverso dal Pd. Non conflittuale, ma distinto. Che allarghi il campo di gioco, che sia alleato ma punti a conquistare pezzi di Forza Italia, quella parte che non si è già spostata su Salvini, pezzi del voto andato ai grillini e che forse farebbe fatica a fare un salto tornando subito nel bacino dei democratici » . Con chi? « Con Calenda certamente. Con liste civiche. Con + Europa, ovviamente». L’ex ministro dello Sviluppo però sostiene il contrario. Vede la sua soluzione preferita nel listone con tutti dentro. Di questo ha parlato con Renzi durante il pranzo di riconciliazione il 19 dicembre, loro due faccia a faccia. Quel giorno aveva sul tavolo i risultati del mega sondaggio commissionato una settimana prima. A Renzi, sulla base di quei numeri, ha raccontato che un eventuale partito dell’ex premier si ferma al 5- 6 per cento, che il 30 per cento degli elettori non conosce Calenda e questo comporta un rischio maggiore ma anche un potenziale più alto, che i due bacini sono simili e che il Pd, senza altre forze nella sua area, è oggi fermo al 15 per cento. « Per questo mi chiedo - confida Calenda agli amici - se non sia anche interesse di Zingaretti costruire insieme un soggetto unico. Un segretario appena eletto che prende il 15 per cento ha già chiuso prima di cominciare».
Il modello sarebbe la lista Uniti nell’Ulivo del 2004 quando vennero eletti a Strasburgo Lilli Gruber e Michele Santoro. Ds e Margherita si misero insieme, poi gli europarlamentari si divisero in vari gruppi. Ma oggi questa separazione avrebbe tutt’altro sapore. Il Pd ha risolto ( o avrebbero dovuto farlo) la distinzione delle due forze di centrosinistra. Sarebbe un pessimo spettacolo vedere gli eletti di una lista unica separarsi il giorno dopo le elezioni. La pensa così il governatore del Lazio che immagina liste aperte agli esterni del Pd con l’impegno però di una comune iscrizione al gruppo socialista e democratico. Su questo si batte da settimane l’eurodeputato David Sassoli che non si rassegna al valzer di Bruxelles. « Dev’essere chiaro che chi è eletto nel campo del centrosinistra poi va con i Socialisti e democratici. È solo rafforzando i gruppi parlamentari europeisti che si fermerà l’avanzata delle destre». Sassoli ha chiesto esplicitamente a Calenda di specificare a quale formazione europea vorrebbe aderire. Non ha avuto risposta.
Il nodo si scioglierà presto, anche se mancano 4 mesi alla presentazione delle liste. Calenda e Gozi indicano entrambi gennaio come termine. Vale anche per Renzi. Il 24- 25 si tiene il primo congresso di +Europa. «E io sono sicuro che il nostro simbolo - dice Tabacci - ha un valore maggiore di tutte le cose nuove messe insieme. Oggi il Pd è al 17 e noi al 3. Gli altri non so».

Corriere 27.12.18
Il primo stop per la Lega i delusi del m5s
Il Carroccio sfiora il 33% (-3,3 in un mese), il Movimento al 27%. Ma il governo tiene
di Nando Pagnoncelli


L’anno che finisce ha segnato profondi sconvolgimenti del panorama politico del nostro Paese. I risultati delle elezioni del 4 marzo segnano una frattura storica. Non solo per l’affermazione netta dei 5 Stelle e il successo leghista, quanto soprattutto per la sconfitta pesante delle due forze che hanno segnato la storia politica post Tangentopoli, Forza Italia da un lato, il Pd (nelle sue varie forme, da Ds e Margherita all’Ulivo) dall’altro. In sostanza le recenti elezioni segnano in qualche modo l’uscita di scena delle culture riformiste di cui queste formazioni erano eredi.
La nascita del governo Conte, frutto di una lunga e complessa gestazione, segna, per la prima volta tra i grandi Paesi europei, l’affermarsi di un esecutivo fuori dalle tradizioni. Portando a compimento processi di lungo periodo, che potremmo così riassumere: Il distacco élite/popolo, che appare nei primi anni 80, con la progressiva modernizzazione e secolarizzazione del Paese; l’individualizzazione, per cui il singolo diviene misura delle cose e compie quella torsione che fa sì che le opinioni del cittadino comune valgano quelle dello scienziato di fama; il presentismo, ovvero il progressivo appannarsi della memoria storica, spesso delegata al web o a strumenti esterni e non più, o sempre meno, raccontata e rinfrescata dalla politica e dalle forze intermedie; il direttismo, che consente al navigatore di confrontarsi direttamente con i leader e con i politici, in quel processo che elimina le intermediazioni e rende il politico specchio del cittadino; la semplificazione del linguaggio, portato dei precedenti, che richiede brevità, velocità, appunto semplicità.
Entriamo quindi in un nuovo mondo. Cerchiamo di vedere cosa è successo. Partiamo proprio dal governo e dal premier. I dati di consenso sono decisamente elevati. Il governo Conte parte bene con un indice di gradimento (60) vicino a quelli degli altri esecutivi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi), in luglio sale a 68 e a sei mesi dall’insediamento ritorna a 60 superando, alla stessa data, sia Berlusconi sia Renzi, anche grazie a un consenso più ampio di cui beneficiano le forze della maggioranza (60% dei voti validi). Tra settembre e oggi la perdita è di cinque punti. Non pochissimo, ma comunque meno degli altri. Il premier segue un percorso simile a quello del governo, rimanendo però sempre qualche punto sopra il dato del governo stesso. È come se gli italiani gli riconoscessero un ruolo di tenuta, di coagulo, sin dall’inizio. È il garante del contratto di governo ed è un ruolo che si è enfatizzato nella recente trattativa con l’Ue sulla manovra. A ciò si aggiunge lo standing istituzionale, a cui gli italiani si mostrano sempre attenti (soprattutto nei consessi internazionali), pur non disdegnando lo stile non convenzionale e talora aggressivo di altri della maggioranza.
I vicepremier hanno valutazioni che si vanno divaricando a favore di Salvini. Partiti appaiati all’insediamento del governo, i due vedono progressivamente allontanarsi i loro risultati. Di Maio scende dal 58 di luglio all’attuale 43, perdendo ben 15 punti. Salvini al contrario è riuscito a mantenere continuativamente il proprio consenso attorno al 60 fino a novembre, diminuendo di 4 punti a dicembre (56). Le difficoltà del M5S derivano da molti aspetti: l’impossibilità di mantenere alcuni impegni presi esplicitamente in campagna elettorale, in particolare sulle grandi opere; la complessa gestione della tragica vicenda del ponte Morandi; le diffuse resistenze rispetto al provvedimento principale del Movimento, il reddito di cittadinanza. Infine la complessità degli ambiti che fanno capo al M5S, difficili da gestire e i cui risultati potranno essere verificati in tempi non brevi. Salvini al contrario si è intestato aree più «semplici», comunque più immediate, prima fra tutte l’immigrazione. Che individua un «nemico», consente comunicazioni più dirette, salda malumori diffusi.
Dopo sei mesi Conte mantiene i consensi al 60%, più dei precedenti esecutivi. Fiducia in forte calo per Di Maio (43%), Salvini al 56%
L’andamento delle intenzioni di voto indica tendenze simili per i due partiti di governo. La Lega quasi raddoppia i propri consensi rispetto al risultato del 4 marzo, attestandosi al 32,9 per cento. Ma evidenzia i primi segnali di rallentamento. Solo un mese fa era accreditata al 36,2%, oltre tre punti in più degli attuali. Non è un rallentamento da poco. Se il «Capitano» rimane saldamente in sella, il partito risente invece di alcune difficoltà. La più evidente è il rapporto che il governo intrattiene con i ceti produttivi del Nord e del Centro-Nord. Reddito di cittadinanza, blocco delle grandi opere (in questi giorni si aspetta il verdetto annunciato contro la Tav), difficoltà a procedere speditamente verso la crescita dell’autonomia delle regioni settentrionali, non depongono a favore della Lega, che perde consensi nel lavoro autonomo, uno dei suoi capisaldi. Non a caso in queste ultime settimane il gruppo dirigente leghista e lo stesso Salvini hanno lanciato segnali in questa direzione, in qualche caso con polemiche non velate nella stessa compagine governativa. A queste domande la Lega è chiamata a rispondere in tempi rapidi, soprattutto di fronte allo scenario economico che non promette bene.
Il M5S è in difficoltà più evidenti. Se per la Lega è l’interruzione di un’ascesa eclatante, per i pentastellati il logorio invece continua. Oggi sono accreditati del 27%, cinque punti sotto le Politiche (-0,7% rispetto a novembre). La flessione è da ricondurre innanzitutto alla grande trasversalità del suo elettorato che rappresenta un enorme vantaggio stando all’opposizione, ma una grande complicazione quando si sta al governo: ogni provvedimento infatti rischia di scontentare una parte dell’elettorato che esprime attese molto diversificate e non sempre compatibili. Non a caso i delusi che hanno abbandonato il Movimento si sono rifugiati nell’incertezza o nell’astensione (circa il 20% dell’elettorato del 4 marzo) o hanno scelto la Lega (12%).
Il Pd sembra aver frenato la discesa e si attesta su un risultato analogo a quello delle Politiche (è al 18,1%). La campagna delle primarie ha riportato il partito sui media. Per quanto non entusiasmante e molto interna, fatta com’è di una battaglia prevalentemente di posizionamento, ciò ha prodotto qualche risultato. Bisognerà vedere se ci saranno le condizioni per una ripresa dopo le primarie. Forza Italia, oggi all’8%, si è quasi dimezzata rispetto al voto politico. Come indicano i flussi, il suo elettorato è stato cannibalizzato dalla Lega. I temi che questa formazione ha di fronte sono complessi. Si tratta di ridefinire la leadership e di individuare un’area che non sia «coperta» dalla Lega.
La luna di miele non si è ancora conclusa e il governo rimane saldamente in sella, nonostante le diversità di visione, gli ostacoli incontrati, la difficoltà sulle principali misure. Questo anche perché non esistono alternative. Che, per essere costruite, richiedono un cambiamento profondo, culturale, di classe dirigente, di capacità di rappresentanza sociale oggi più che mai problematica, a fronte di un crescente processo di frammentazione che genera categorie diverse rispetto al passato. E tra le tante incognite affiora una certezza: indietro non si torna.

Il Fatto 27.12.18
Il Papiro smaschera anche i giornalisti
di Tomaso Montanari


“Ora è certo: il papiro di Artemidoro è falso”; “È ufficiale: il papiro è un falso”; “La ‘sentenza’ della Procura di Torino mette fine alla querelle tra i difensori dell’antichità dell’oggetto (in particolare Claudio Gallazzi, Bärbel Kramer e Salvatore Settis) e Luciano Canfora”; e ancora: “La falsità del papiro… resterà nella storia degli studi, e non solo: in quella della cultura, e anche, forse, della politica”: e via così, in un crescendo fragoroso di tromboni.
La lettura degli articoli dedicati al caso Artemidoro è terribilmente deprimente: perché induce a credere che il giornalismo italico abbia un problema più serio del collateralismo con la politica, e perfino delle concentrazioni in mano a editori in flagrante conflitto di interessi. Quel problema è la spontanea rinuncia all’essenza stessa del mestiere: che è la lettura critica, obiettiva e approfondita delle notizie. Qua la notizia era un testo: il “papiro” di 33 pagine con il quale il procuratore della Repubblica di Torino, Armando Spataro, ha chiesto e ottenuto dal gip l’archiviazione di un reato a suo avviso sussistente, ma prescritto, cioè la truffa che sarebbe stata perpetrata dal mercante armeno Serop Simonian, che il 26 luglio 2004 vendette alla Fondazione San Paolo il papiro di Artemidoro. Ebbene, non occorreva essere papirologi, e nemmeno esperti di procedura penale, per farsi alcune domande su questo curiosissimo testo.
La prima riguarda la sua natura. In un Paese in cui nemmeno Erode sarebbe ritenuto colpevole di infanticidio prima del terzo grado di giudizio, qua tutti hanno parlato di “sentenza” tombale prima non del terzo, ma del primo grado di giudizio. È vero: la procedura impone questa (discutibile) prassi in caso di prescrizione. Ma l’enfasi mediatica impressa dalla Procura alla vicenda ha di fatto trasformato in un verdetto finale una convinzione del pm che, se fosse arrivata in tempo utile, avrebbe potuto essere smontata, contraddetta e falsificata in anni di dibattimenti pubblici, perizie, prove e deposizioni. E solo una stampa radicalmente acritica può prestarsi a infangare le reputazioni coinvolte basandosi su un documento in tutti i sensi parziale: perché di parte (l’accusa), e perché parte minima di quello che chiamiamo processo. Insomma: ammesso e non concesso che la verità scientifica si possa accertare in tre gradi di processo, certo non la si può accertare in Procura, prima di quei tre gradi.
La seconda riguarda le “prove”. Su questo giornale prima lo stesso Settis e poi il filologo classico Filippomaria Pontani sono entrati nel merito: notando, tra l’altro, che il pm ignora i numerosissimi articoli scientifici che dimostrano l’autenticità del papiro e invece accoglie solo il parere dei sostenitori della falsità, il cui insieme coincide – con poche o nulle eccezioni – con la cerchia accademica di chi ha presentato l’esposto. Dal resto dei giornali nessun lettore avrebbe potuto ricavare che nemmeno un papirologo (dicasi uno) ha sostenuto la falsità del manufatto. Oltre alla selettività delle “prove”, c’è poi la loro tenuta oggettiva. Un punto fondamentale riguarda l’autenticità degli inchiostri. Spataro non cita il “fascicolo 2010 della rivista scientifica americana Radiocarbon, che li definisce pacificamente compatibili con quelli usati nel I-II secolo d.C.” (Pontani). Racconta invece che una fonte esterna al ministero per i Beni culturali gli avrebbe riferito che le analisi in corso presso gli istituti ministeriali “sembrano supportare la tesi del falso”. Ora, perché non solo il procuratore, ma nessun giornalista ha fatto un colpo di telefono al ministero, per toccare con mano? Ebbene, io l’ho fatto: e Gino Famiglietti, direttore generale delle Belle Arti, mi ha risposto, dopo aver assunto informazioni, che nessun risultato è ancora disponibile. E dunque non sarà la Procura ad avere qualche problema con le fonti?
La terza domanda riguarda la verosimiglianza della ricostruzione della Procura. Visto che il falso sarebbe ottocentesco, il reato di truffa sarebbe provato dalla falsificazione delle foto del Konvolut, l’ammasso che conteneva il papiro. Ora, non solo quelle foto sono ritenute vere da tutti gli studiosi non legati a Canfora, ma esse non furono fornite alla Fondazione all’atto dell’acquisto (emersero quattro anni dopo, nel 2008). Ammesso e non concesso che siano false, quali elementi permettono di considerarle prova della truffa? Nemmeno una riga prova ad argomentare su questo punto cruciale.
Infine, se qualche cronista di giudiziaria avesse letto il testo della Procura, avrebbe forse notato che Spataro chiede l’archiviazione ai sensi dell’articolo 408 del codice di procedura penale: che si applica quando “la notizia di reato è infondata”. Potenza del copia-incolla, o del lapsus freudiano? In ogni caso, il passaggio più felice del papiro di Spataro.

Il Fatto 27.12.18
Sanità, è una vera sanatoria? Fisioterapisti vs massaggiatori
Iscrizione all’albo - Senza titoli di studio
di Patrizia De Rubertis


Nella manovra approvato dal Senato è stata inserita, in extremis, anche la deroga per l’iscrizione agli ordini per chi ha svolto professioni sanitarie senza il possesso di un titolo abilitante per l’iscrizione all’albo. E che ora potranno continuare a svolgere l’attività professionale iscrivendosi in appositi elenchi speciali, se hanno lavorato per un periodo minimo di 36 mesi, anche non continuativi, negli ultimi 10 anni. Un condono che ha scatenato le critiche dell’Associazione italiana fisioterapisti: “Sanatoria globale per tutti gli abusivi in sanità”.
A difendere il provvedimento ci sono, invece, i massofisioterapisti che accusano i colleghi di aver tentato per anni di “eliminarli” o “limitarli”, perché potenziali concorrenti dal mercato della riabilitazione motoria. E, in mezzo, c’è l’emendamento voluto dal M5S, difeso dalla ministra della Salute, Giulia Grillo: “È servito a evitare che 20 mila persone finissero in mezzo a una strada”. Facciamo un po’ di chiarezza.
La sanatoria. La norma serve a correggere una falla creata dalla legge 13 marzo del 2018 dell’ex ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, che impone da gennaio 2019 a circa 250mila professionisti – dai fisioterapisti ai tecnici di laboratorio, dai logopedisti ai tecnici della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro – di iscriversi a 17 nuovi ordini professionali. Ma per farlo serve un titolo di studio riconosciuto dallo Stato che, però, circa 20 mila di questi operatori non hanno mai conseguito: quando hanno iniziato a lavorare non era previsto. L’emendamento va, quindi, a sanare solo la posizione di specifici professionisti che ora si dovranno iscrivere, entro il 31 dicembre 2019, in appositi elenchi speciali a esaurimento posti.
Senza laurea. Le critiche maggiori poste all’emendamento (“così si aprono le porte della Sanità a chi non ha i titoli”, dice l’Associazione italiana fisioterapisti) non sono del tutto corrette. Migliaia di professionisti prima della legge 43/2006, che ha introdotto l’abilitazione all’esercizio professionale solo dopo il conseguimento della laurea triennale, avevano già frequentato corsi specialistici e regionali, o li hanno iniziati dopo la riforma, ma sempre prima dell’attivazione dei corsi universitari. Così per anni, in migliaia hanno lavorato con un titolo valido, secondo molti. Abusivamente, secondo altri.
A essere chiamati in causa sono i massofisioterapisti, la parte di più numerosa dei professionisti coinvolti nella sanatoria. Che, tuttavia, non ci stanno a considerati come abusivi e danno la colpa alle Regioni “che hanno consentito fino a oggi la formazione professionale, affiancata a quella universitaria”. Ma per l’Associazione italiana fisioterapisti, questa sorta di limbo abusivo continuerà ad esistere visto che nella norma non si fa riferimento a quali titoli di studio si devono possedere per richiedere l’iscrizione all’albo.
Chi è coinvolto. Nella sanatoria sono coinvolte solo le figure dei tecnici di laboratorio biomedico, audiometristi, ortopedici, della prevenzione nei luoghi di lavoro; neurofisiopatologi, dietisti, igienisti dentali, fisioterapisti, logopedisti o podologi. “Pensare che anche infermieri, ostetriche o tecnici di radiologia rientrino nella sanatoria è un errore che sta generando allarmi immotivati”, spiega la Federazione nazionale degli Ordini degli infermieri che apprezza della norma “l’obbligatorietà dell’iscrizione all’albo per tutte le categorie professionali, come grande traguardo nella lotta all’abusivismo”. La stessa linea della ministra Grillo, secondo la quale ora si metterà fine al caos prodotto da una giungla di corsi regionali che negli anni hanno creato abusivi, “eliminando solo l’indeterminatezza del quadro giuridico”.

Corriere 27.12.18
Il regalo di Putin alla Russia: testato il missile ipersonico
«È impossibile da fermare»
L’Avangard può portare testate nucleari e colpire «ovunque»
In tv le immagini del presidente che assiste agli esperimenti
di Fabrizio Dragosei


MOSCA «Un eccellente regalo
 per la nazione in occasione dell’anno nuovo». Senza alcuna ombra di ironia, Vladimir Putin ha commentato così il riuscito lancio sperimentale di un inedito missile intercontinentale al quale ha assistito dal centro di controllo del ministero della Difesa. Un razzo atomico velocissimo, non intercettabile dal «potenziale avversario» (una volta, durante la guerra fredda, gli Usa venivano definiti ufficialmente il «principale avversario»), in grado di colpire praticamente ovunque. Per anni, ha fatto capire il presidente russo con orgoglio, questa e altre armi in preparazione daranno al Paese una supremazia assoluta, garantendone la sicurezza: «Un grande momento nella vita delle forze armate e del Paese». In sostanza, la risposta ai piani americani di schierare un sistema di difesa missilistico.
Naturalmente le immagini di Vladimir Vladimirovich che fissava gli schermi sui quali veniva seguito il volo dell’Avangard, come si chiama la nuova arma, sono state diffuse in tv in modo che tutto il Paese sapesse. Si tratta di un missile che a un certo punto «planerebbe» come un aliante tra i diversi strati dell’atmosfera a venti volte la velocità del suono. Dagli Urali, il razzo di prova ha raggiunto il poligono basato in Estremo Oriente, a circa seimila chilometri di distanza.
Il sistema potrebbe essere operativo già l’anno prossimo e venir installato in 31 siti sparsi nel Paese. Ma non è la sola «meraviglia» di cui il presidente aveva parlato a lungo nel marzo scorso, proprio in risposta al cosiddetto scudo americano. Tra queste, un nuovo pesante missile balistico, il Sarmat; un siluro nucleare velocissimo, forse chiamato Poseidon; un missile balistico che può essere lanciato da un Mig modificato, il Kinzhal. Ma il fiore all’occhiello del nuovo arsenale è senz’altro l’Avangard testato ieri che raggiunge una temperatura esterna in volo di duemila gradi. Il gas ionizzato a causa dell’altissima velocità e temperatura, gli darebbe una specie di invisibilità.
Capodanno, dunque (per i russi è sempre stata la festa più importante), e tempo di entusiasmi bellici. Anche il ministero della Difesa, solitamente assai serioso, si è lasciato andare e nel calendario per il 2019 ha fatto ricorso a una sorta di macabro spirito. Nella pagina di gennaio compare un missile nascosto in un bosco. Una scritta dice: «Consegniamo carichi in qualunque parte del mondo». A settembre ecco una soldatessa che punta il suo fucile verso l’obiettivo fotografico: «Alcune donne fanno perdere la testa». A dicembre una foto con esplosioni di razzi e colpi di artiglieria che fa pensare alla fine del mondo, è accompagnata dalla «scherzosa» didascalia: «Giocattoli di Capodanno, candele e petardi».

Repubblica 27.12.18
Sistema Avangard
Testato con successo il nuovo missile ipersonico russo

Il nuovo missile ipersonico russo è stato testato con successo. Lo ha annunciato il presidente Vladimir Putin, definendo il sistema Avangard un "traguardo importante" per le forze armate di Mosca. Putin ha affermato che il missile intercontinentale, capace di viaggiare a 20 volte la velocità del suono, verrà dispiegato dal prossimo anno, garantendo la sicurezza della Russia per i prossimi decenni. Il nuovo missile è stato lanciato da una base a sud degli Urali e ha colpito il suo bersaglio in Kamchatka, a 6mila chilometri di distanza.

Corriere 27.12.18
Il ritiro Usa dalla Siria complica tutto (anche per Israele)
di Davide Frattini

La campagna elettorale di Benjamin Netanyahu è cominciata tra i fedelissimi. Nei corridoi della Knesset ha illustrato ai deputati del Likud quali suoi pregi (ri)vendere agli israeliani da qui al voto del 9 aprile. Il primo ministro ha spiegato di voler conquistare il quinto mandato anche vantando l’amicizia con Donald Trump. Il rapporto confidenziale è di sicuro ricambiato, ma il presidente americano è un partner volubile, propenso a prendere decisioni geostrategiche nel giro di una telefonata. È andata così con l’ordine di ritirare le truppe dai deserti della Siria, retromarcia affrettata che ha portato alle dimissioni dell’ex generale Mattis e a un calo nella fiducia da parte degli israeliani verso l’amico americano di Netanyahu. Che adesso deve gestire isolato la situazione dall’altra parte del confine. Una della basi militari dove sono dispiegate le forze speciali statunitensi è quella di Tanf nel sud della Siria: è la presenza degli americani che ha impedito ai Pasdaran di creare un corridoio tra l’Iran, l’Iraq, la Siria e il Libano. Senza quell’avamposto gli israeliani si sentiranno costretti a intervenire ancora di più per impedire il trasferimento di armamenti iraniani all’Hezbollah libanese attraverso la Siria. Com’è successo con il bombardamento nella notte tra martedì e mercoledì alla periferia di Damasco. L’abdicazione di Trump, a mantenere gli anfibi sul terreno e un ruolo nella partita mediorientale, lascia Vladimir Putin come Zar unico della contesa. Il paradosso è che la presenza americana a Tanf serviva anche a lui per premere sui generali iraniani. Adesso il leader russo dovrà trovare altri mezzi per convincere gli ayatollah a ridurre le operazioni e per moderare le sortite aree israeliane. Potrà farlo da solo decidendo le carote da offrire e soprattutto i bastoni da brandire.

il manifesto 27.12.18
«Podemos, la terza opzione»
Intervista. Lo choc del voto in Andalusia, la finanziaria, le prossime elezioni europee, un incontro con Pablo Echenique, numero due del partito
di Francesco Campolongo e Loris Caruso


MADRID Al termine di un’altra giornata politica incandescente nel parlamento spagnolo in cui Podemos ha difeso le ragioni del dialogo tra il governo e i partiti catalani per salvare la maggioranza e la nuova legge finanziaria, poco prima della pausa natalizia, incontriamo nel congresso dei deputati Pablo Echenique. Nonostante l’ora, il responsabile dell’organizzazione di Podemos e numero 2 del partito ci parla a lungo della situazione spagnola, del suo partito e delle europee alle porte.
Finora la Spagna era stata un’eccezione, perché non c’era un’estrema destra forte. Cos’è successo in Andalusia? C’è ancora un’eccezione spagnola?
La Spagna continua a essere un’eccezione. L’estrema destra che si è espressa in Vox prima era interna al Partito Popolare e a Ciudadanos. Ora Vox ha preso voti per metà dal Pp e per metà da Ciudadanos, niente da sinistra e quasi niente dai nuovi votanti. Fondamentalmente Vox è una scissione del partito Popolare, della sua componente più franchista, machista e razzista. Nel passato avevano scrupoli a esprimere pubblicamente queste posizioni. Ora, grazie alla radicalizzazione del discorso politico delle destre spagnole portata avanti da Pp e Ciudadanos e all’acutizzazione del conflitto catalano, le loro posizioni hanno ottenuto cittadinanza.
Se in Italia Salvini è cresciuto anche perché i media parlano da anni di immigrazione e sicurezza, in Spagna succede lo stesso con Vox, cresciuto soprattutto per la centralità che i media hanno dato al conflitto con la Catalogna, descritto come pericolo effettivo che «la Spagna si rompa». Vox non emerge, quindi, dal nulla, e non costituisce una novità radicale. Per questo penso che la Spagna continui a essere un’eccezione. Il nostro spazio politico è ancora intorno al 20%, quindi la possibilità di un’alternativa da sinistra resta concreta.
In Italia si è guardato con molta attenzione alla legge di bilancio concordata tra Psoe e Podemos. Quali sono i suoi contenuti principali?
I provvedimenti che abbiamo strappato al Psoe, e “strappare” è davvero il verbo giusto, se approvati, miglioreranno le condizioni di vita di milioni di persone. Il salario minimo sarà alzato a 900 euro (misura già anticipata con un decreto legge, ndr), un aumento del 20% decisivo per centinaia di migliaia di lavoratori poveri. Aumentiamo del 40% la spesa per l’assistenza sanitaria domiciliare. Abbiamo ottenuto un aumento del 38% delle spese statali per abitazioni pubbliche e una legge che ostacoli la crescita illegale del prezzo delle case. E per ultimo, ed è un punto decisivo, abbiamo strappato un innalzamento delle tasse per grandi imprese e grandi fortune e abbassato le tasse alle classi popolari e alle piccole imprese. Con questo siamo riusciti a evitare le sanzioni europee, perché non abbiamo fatto come il governo italiano che vuole aumentare le spese ma abbassare le tasse ai ricchi. Siamo riusciti a conciliare la volontà di Sánchez di rispettare i vincoli europei con la scelta di aumentare la spesa e la giustizia sociale, grazie all’innalzamento delle tasse ai ricchi e alle grandi imprese.
Quali sono le possibilità che la finanziaria venga approvata?
La chiave ce l’hanno gli indipendentisti catalani, che hanno fatto un errore, quello di subordinare il consenso alla finanziaria al fatto che il governo mostri avanzamenti sulla questione territoriale. È un errore perché questi partiti possono portare avanti le proprie rivendicazioni, che noi non condividiamo ma che sono legittime, nello stesso tempo in cui permettono che i provvedimenti sociali della finanziaria siano approvati. Ma Sánchez non si sta sforzando per ottenere il loro appoggio. Lo si era già visto con la mozione di sfiducia a Rajoy, che lo ha portato al governo. L’appoggio degli indipendentisti si deve molto più al nostro lavoro politico che al suo. Sulla finanziaria vediamo lo stesso schema: noi facciamo ogni sforzo perché sia approvata, Sánchez ha un atteggiamento passivo. Sembra che il Psoe non veda male il fatto che non venga approvata, per poter usare questo pretesto e convocare elezioni anticipate.
A livello europeo avete firmato il Patto di Lisbona, insieme a France Insoumise e Bloco de Esquerda. Che obiettivi ha il Patto, e come pensa di collocarsi tra le sinistre europee?
È vitale portare in Europa l’idea che non ci siano solo due opzioni, austerità neoliberista o fascismo, che indirettamente, tra l’altro, si sostengono a vicenda. Noi siamo per una terza opzione. Chiave dell’unità europea non sono l’euro, la circolazione delle persone o le radici cristiane, ma lo stato sociale. Per gli spagnoli l’Europa ha sempre rappresentato una garanzia di modernità che per noi è una rottura con il passato franchista, ma soprattutto una promessa di prosperità economica. Se questo si perde, si perde l’Europa, e bisogna salvare l’Unione europea da questa involuzione antidemocratica e antisociale. Questo è l’obiettivo fondamentale, anche con differenti prospettive nazionali tra noi. Tra noi alcuni fanno parte del Partito della sinistra europea e altri no, dobbiamo articolare una posizione comune sul modo in cui saremo presenti nel parlamento europeo, ma credo che non avremo nessun problema.
Come vi ponete rispetto al dibattito sull’uscita dall’Euro?
Noi non proponiamo un’uscita dall’euro e dall’Europa. Però pensiamo che la governance europea vada cambiata radicalmente. Non pensiamo che il problema sia l’euro, ma il modo in cui la politica economica europea si sottrae al controllo democratico. Se l’Europa non si rende conto delle conseguenze delle sue politiche sui popoli e sul Sud Europa, non avrà futuro. Noi vogliamo che lo abbia, e che si possa esercitare un controllo democratico sulle sue politiche. Ma pensiamo anche che, come ha dimostrato la vicenda della Grecia, prima di entrare in conflitto con i poteri europei bisogna accumulare forza politica e assicurarsi di avere una sufficiente forza popolare. Al momento i poteri europei sono più forti di noi. Sono un Leviatano. E al Leviatano non interessa la giustizia, gli interessano i rapporti di forze. Non li si può contrastare con la forza di un paese solo, per quanto grande possa essere.
Qual è lo stato di salute di Podemos?
Non è male. Abbiamo raggiunto molto più di quanto pensavamo. Ad ogni passaggio abbiamo avuto più forza di quella che immaginavamo.
Ora siamo preoccupati per la situazione politica che si va configurando. Siamo ancora nella situazione in cui le cose sembrano difficili, ma abbiamo accumulato un’enorme esperienza. Stiamo dimostrando che siamo capaci di governare meglio degli altri, prima a livello municipale, ora a livello statale. E abbiamo la pelle molto indurita dagli attacchi degli avversari. All’inizio ti destabilizzano, ora abbiamo imparato a difenderci. Per questo penso che non siamo in un brutto momento. Non sono riusciti a distruggerci, e questo non era scontato.
Partiamo da una base solida, e ora dobbiamo convincere molta più gente delle nostre posizioni e per farlo dobbiamo affrontare il circo mediatico, che adesso parla solo di Vox e di Catalogna. Con l’esperienza accumulata possiamo riuscirci. Dalla società arrivano segnali interessanti. La mobilitazione dei tassisti è riuscita a contrastare il bombardamento mediatico che li descriveva come corporativi e di destra. Loro hanno visto che l’unico partito che li ha difesi siamo noi. Pochi mesi fa c’è stata una grandissima mobilitazione delle donne: un movimento che difende un’architettura sociale più giusta ed egualitaria. Sono vittorie di popolo che ci fanno essere ottimisti. Bisognerà lavorare di più e continuare a combattere. Ma se dovessi scommettere, scommetterei che vinciamo.

il manifesto 27.12.18
L’attacco in Siria avvia la campagna elettorale di Netanyahu
Israele/Siria/Iran. Con il paese che andrà alle urne 9 aprile, il premier israeliano riprende gli attacchi contro Bashar Assad. Anche per confermare che il ritiro dei soldati Usa dalla Siria e le critiche della Russia non cambiano i piani di Israele contro Tehran e Damasco. Approvate altre 2.200 case per i coloni.
di Michele Giorgio


L’attacco aereo israeliano del 25 dicembre in Siria, contro presunti obiettivi iraniani, è stato il più violento da molte settimane a questa parte. E oltre a prendere di mira bersagli militari, commentava ieri il quotidiano Haaretz, ha mandato un messaggio molto chiaro: l’uscita dei soldati Usa dalla Siria annunciato da Donald Trump e la tensione tra Mosca e Tel Aviv per l’abbattimento qualche mese fa di un aereo russo da trasporto diretto in Siria, non hanno modificato in alcun modo i piani di Israele contro Tehran e Damasco. Tensione con la Russia che in queste ore è di nuovo salita a causa dei bombardamenti di due giorni fa a ovest e a sud di Damasco. Il ministero della difesa russa ha accusato gli aerei israeliani di aver posto in serio pericolo due voli commerciali che stavano atterrando negli aeroporti della capitale siriana e in quello di Beirut, tanto da spingere le autorità locali a deviare il traffico aereo sopra Damasco. A fine estate un aereo da trasporto russo in fase di atterraggio fu abbattuto dalla contraerea siriana e tutti e 15 agli avieri a bordo rimasero uccisi. Mosca accusò Israele poiché i cacciabombardieri con la stella di Davide usarono il velivolo russo come schermo in modo da sottrarsi ai razzi lanciati dai siriani.
Sui social i siriani hanno sottolineato che il raid israeliano è scattato mentre migliaia di persone nelle strade di Damasco e del resto del paese celebravano il Natale per la prima volta dal 2011 in un clima di relativa tranquillità. Avere dati precisi sugli obiettivi colpiti e gli effetti della risposta siriana come sempre in questi casi è quasi impossibile. Israele non ha confermato l’attacco. Un ministro, quello dell’energia Yuval Steinitz, si è limitato ad affermare che è stata un’operazione di intelligence ben riuscita. L’esperto di questioni militari Amos Yadlin invece ha smentito quanto riferito da Newsweek sulla morte nel bombardamento di alcuni comandanti del movimento sciita libanese Hezbollah, alleato della Siria. Secondo fonti siriane non ufficiali i missili israeliani avrebbero colpito depositi di missili Fajar iraniani e di armi. I russi affermano che i siriani sarebbero riusciti ad intercettare gran parte dei attacchi israeliani. Tel Aviv invece ha abbattuto un missile antiaereo siriano diretto verso il territorio israeliano. Foto pubblicate sui social hanno mostrano l’esplosione del missile colpito da un Patriot sparato da una postazione nei pressi di Hadera.
Di certo c’è solo che il premier israeliano Netanyahu con l’attacco della sera del giorno di Natale di fatto ha avviato la sua campagna per il voto anticipato del 9 aprile deciso dai partiti della sua coalizione di estrema destra e ufficializzato con l’approvazione della legge per lo scioglimento della Knesset. «Non possiamo accettare che l’Iran getti in Siria le basi di attacchi diretti contro di noi. Operiamo contro l’Iran con determinazione ed in continuità, anche in questi giorni», ha proclamato ieri Netanyahu, che è anche ministro della difesa, in un discorso pronunciato in una base dell’aviazione. Quindi ha ribadito che «La decisione del presidente Trump di far uscire dalla Siria i soldati americani non cambia la nostra politica. Siamo determinati a difendere le ‘linee rosse’ che abbiamo stabilito in Siria e altrove». Netanyahu infine ha riaffermato la determinazione nel voler distruggere i tunnel scavati da Hezbollah sotto il confine tra Israele e Libano. Una quinta galleria è stata scoperta proprio ieri. La campagna elettorale di Netanyahu non può non prevedere un ulteriore sviluppo della colonizzazione dei territori occupati palestinesi. Israele ha approvato i progetti per la costruzione di altri 2.200 alloggi per coloni in Cisgiordania.

La Stampa 27.12.18
Erdogan dà battaglia a Google
“Via il Kurdistan dalle mappe”
di Marta Ottaviani


Per i curdi sembra proprio non esserci pace. Nemmeno su Google. La Turchia ha chiesto al celebre motore di ricerca, che fra le sue applicazioni ha anche l’altrettanto celebre Google Maps, di cancellare la mappa del «Grande Kurdistan» fra quelle messe a disposizione per gli utenti.
Il nome della discordia
La richiesta è arrivata dopo che un deputato dell’Iyi Parti, il partito del Bene, di orientamento nazionalista e conservatore, ha presentano un’interrogazione in parlamento. Digitando le parole «Grande Kurdistan», infatti, fino a qualche ora fa compariva una mappa che include gran parte del Sud-est turco, oltre che porzioni minori della Siria, dell’Iraq e dell’Iran. Tutti territori dove si è diffusa la più grande etnia senza uno Stato nel corso dei secoli e che è stata riconosciuta come una «regione geo-culturale». Troppo perché Ankara potesse tacere e, dopo aver avuto l’approvazione di tutto il parlamento, tranne naturalmente quello del partito curdo, il governo ha preso i primi provvedimenti. Il Ministro per i trasporti e le infrastrutture, Cahit Turan, ha fatto sapere che il colosso americano è stato contattato. «L’Autorità per l’informazione e le Comunicazioni - ha spiegato - ha già parlato con alcuni rappresentanti della piattaforma, chiedendo la rimozione urgente della mappa, come atto di responsabilità rispetto agli statuti nazionali e internazionali». Il ministro ha poi aggiunto che sta seguendo con attenzione lo sviluppo della vicenda. Dal pomeriggio di ieri, digitando «Grande Kurdistan» compariva la sola regione autonoma del Nord Iraq. Sembrerebbe comunque che la mappa non sia stata creata direttamente dalla società, ma da un utente tramite l’application «My Maps». Una distinzione che non ha ammorbidito la posizione della Turchia, per la quale «Kurdistan» rimane un termine proibito, il cui utilizzo ha fatto finire davanti al giudice o in galera più di un esponente della minoranza. Nonostante sia rimasta online per un periodo limitato di tempo, la mappa del Grande Kurdistan è stata comunque visualizzata da quasi un milione e mezzo di persone.
Fiato sospeso
Intanto, Ankara sta continuando ad ammassare truppe sul confine turco-siriano in vista della grande operazione militare che la Turchia vuole condurre nelle prossime settimane. L’obiettivo è sradicare una volta per tutte le milizie dello Ypg, il braccio armato dei curdi siriani, accusato di cooperare con il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan ed essere quindi un’organizzazione terroristica. I media della Mezzaluna hanno riportato che l’esercito di Bashar al-Assad avrebbe raggiunto la zona di Manbij per aiutare i curdi a contrastare le armate della Mezzaluna. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, sembra determinato a sfruttare il vuoto lasciato dal ritiro delle truppe Usa, ma potrebbe essere fermato proprio dal suo grande alleato, Vladimir Putin, che non gradirebbe l’iniziativa turca di invadere il Nord della Siria. Sabato sarà un giorno molto delicato, con la visita di una delegazione di Ankara a Mosca.

La Stampa 27.12.18
Una spia in ogni famiglia uigura
Così Pechino controlla gli islamici
di Carlo Pizzati


Immaginatevi se ogni due mesi, per una settimana, vi capitasse in casa un quadro del Partito Comunista mandato a vivere con voi come fosse un vostro parente. Guarda la tv con voi, aiuta a cucinare pranzo e cena, tenta di chiacchierare nel tinello, viene con voi ai matrimoni e ai funerali. Un intruso. Una spia. Non avete scelta. Se rifiutate, rischiate di finire in un campo di rieducazione dove, se per caso credete in Dio, vi viene spiegato che la religione è una malattia mentale come la dipendenza dalle droghe e la depressione. Va curata. Può essere contagiosa.
«Scambio culturale»
Uno dei soliti film distopici di cui ormai siamo un po’ stufi tutti, direte voi, ma è quello che sta accadendo dal settembre scorso nella regione dello Xinjiang, Nord-ovest cinese, agli uiguri, la minoranza etnica turcofona di religione islamica. Il governo cinese, infatti, sta spedendo nelle loro case 1 milione e 100 mila quadri di partito. La chiamano al campagna «Diventare Famiglia», definito come un simpatico scambio culturale per integrare gli uiguri ai cinesi han. Ma è anche parte di un più vasto programma per convertire al laicismo e per costringere a diventare ligi membri del Partito Comunista fin dentro la propria casa.
Certo, vi pagheranno dai 2 ai 7 euro al giorno per coprire i costi, ma avrete un intruso in casa che vi comprerà un tavolo come vuole lui, perché quello etnico che avete voi per mangiare seduti a terra «non va bene», e magari cercherà di spiegarvi che tenere uno spazio per le preghiere è uno spreco inutile.
Potreste rifiutarvi. Ma questo rientrerebbe in quelle attività sospette come smettere di fumare o bere alcol, farsi crescere la barba troppo lunga o avere un nome «troppo religioso» che potrebbe farvi finire in una spiacevole villeggiatura per settimane, mese o anni nei tanti campi di «rieducazione» che dal 2014 raccolgono il 10% degli 11 milioni di uiguri.
Le proteste del 2009
La stretta di quattro anni fa è stata innescata da una manifestazione a Urumqi, capitale dello Xinjiang, in onore di due vittime uigure in uno scontro con gli han. Il 26 luglio 2009 si scatenò una battaglia con 184 morti, di cui 137 han e 46 uiguri. Pechino teme l’indipendentismo uiguro che iniziò nella prima metà del ‘900 e oggi spazia dal Partito per un Turkestan Orientale indipendente, e ha trovato terreno fertile nel Movimento Islamico del Turkestan Orientale e nell’Organizzazione di Liberazione del Turkestan Orientale. Alcuni di questi gruppi hanno lanciato attacchi alle popolazioni han, all’esercito cinese e alle strutture statali. Per gli uiguri è la repressione che causa le tensioni. Per lo stato le tensioni innescano la repressione.
Dal cibo ai nomi
Così tre mesi fa, a Urumqi, è iniziata una campagna anti-halal, il cibo preparato secondo la legge islamica, «per fermare la penetrazione nella vita laica dell’Islam che fomenta l’estremismo». Il Partito Comunista locale ha giurato ufficialmente su WeChat: «Combatteremo la battaglia decisiva contro la pan-halizzazione. I funzionari pubblici devono provare a mangiare di tutto. Devono credere nel marxismo-leninismo e non nella religione. E parlare mandarino in pubblico». Proibito anche, con una circolare, chiamare i figli con una ventina di nomi «troppo islamici» come Muhammad, Arafat o Medina. Chi sgarra, finisce nei campi. Ogni cittadino uiguro nello Xinjiang è catalogato come «sicuro», «normale» o «non-sicuro», secondo metriche di età, fede, pratica religiosa, contatti con l’estero o esperienze all’estero. I «non-sicuri» possono essere regolarmente fermati e imprigionati senza processo, come emerso da varie inchieste di gruppi per i diritti civili, e testimonianze riportate su Foreign Policy e sul Wall St. Journal. Sono «scuole per sradicare l’estremismo», dice il Partito. «Scuole vocazionali per criminali».
Le torture
Chi c’è stato dice che sono campi di concentramento dove si è costretti a ripudiare l’Islam, fare autocritica dei principi islamici e cantare canzoni di propaganda comunista tutto il giorno. Alcuni sono costretti a mangiare maiale e bere alcol. Casi di tortura. Uccisioni. Qui la fede religiosa è vista come una patologia. «Per curare dall’influenza bisogna fare la puntura agli ammalati, ma anche a una massa critica di potenziali ammalati», spiega un funzionario di partito. Esistono vere e proprie quote di arresti. In un villaggio, l’ordine era di portare dentro il 40% della popolazione per curare «questo veleno della mente con minaccia di contagio». Un funzionario han lo ha spiegato così: «Non puoi trattare una a una le erbacce nascoste nel raccolto: devi spruzzare il diserbante e ucciderle tutte».

Corriere 27.12.18
Se l’India sorpassa l’economia cinese
di Danilo Taino


Nei giorni scorsi è stato reso noto un dato che a prima vista sembra di relativa importanza ma in realtà potrebbe indicare uno spostamento geo-economico rilevante. Per la prima volta, nel 2018 l’india ha attratto più investimenti diretti nelle sue imprese della Cina: 39,54 miliardi di dollari contro 32,76, secondo la società di analisi finanziarie britannica Dealogic. Si incrociano due tendenze. La prima è l’ottima crescita dell’economia indiana, che dal quarto trimestre del 2017 è superiore a quella cinese, per esempio 8,3% nel terzo trimestre di quest’anno e 7,1% nel quarto, contro rispettivamente il 6,7 e il 6,5%. La seconda tendenza sta nel rallentamento della Cina, colpita dalla guerra commerciale che le sta portando Donald Trump, da una serie di squilibri interni, dalla caduta dei valori della Borsa di Shanghai, attorni al 25% da inizio anno. Il sorpasso indiano è importante perché, se confermato nei prossimi mesi, indicherebbe un cambiamento di sentimento negli investitori internazionali: l’economia cinese non sarebbe più la loro beniamina incontrastata. Di conseguenza, il prestigio che il modello di capitalismo autoritario, separato dalla democrazia, propagandato da Pechino faticherebbe a sostenere di essere il migliore, quello che i Paesi in via di sviluppo farebbero bene a seguire perché più efficiente: se la crescita e l’interesse globale sono maggiori per una democrazia per di più complicata come quella indiana, la tesi del Partito Comunista Cinese può vacillare. Il prestigio di Pechino in una certa misura ne soffrirà, soprattutto in Asia dove è impegnata in una sforzo straordinario per accrescere la propria influenza e ridurre quella degli Stati Uniti (e dell’India). Un cambiamento, rispetto agli scorsi anni, che potrebbe avere riflessi al vertice della leadership cinese. Anche dal punto di vista europeo, la tendenza può essere significativa. Secondo dati di Eurostat, alla fine del 2017, soggetti della Ue detenevano uno stock di investimenti in India pari a 77 miliardi contro i 328 posseduti in Cina (Hong Kong compresa) e i 227 a Singapore: se davvero l’India è diventata la più attraente tra le economie asiatiche, lo spazio per intervenire nel suo mercato è ampio. Sullo sfondo, uno scenario tutto da verificare ma forte: i quattro decenni di boom della Cina hanno ormai passato il loro picco?

Repubblica 27.12.18
Non basta Poe per fare un giallo ci vuole Marx
di Giancarlo De Cataldo


Mentre usciva il "Manifesto del partito comunista", lo scrittore americano creava il suo Dupin, padre di tutti i detective. Aveva capito che il mondo era cambiato: borghesia e opinione pubblica chiedevano un nuovo genere
Qualcuno commette un delitto e cerca di farla franca.
Qualcun altro indaga per assicurarlo alla giustizia, a volte riuscendovi, altre fallendo. Il delitto accompagna l’essere umano sin dalla notte dei tempi e non c’è narrazione intorno al delitto che non sia riconducibile a questo schema primordiale: delitto — indagine — soluzione.
C’è chi rintraccia le origini nella Bibbia — siamo tutti, in definitiva, progenie di Caino, dal momento che proprio il fratricida, scacciato dall’Eden, fondò la prima città — e chi le fa risalire alla tragedia greca, o alle Mille e una notte, o alle avventure dei giudici-poliziotti cinesi. Il dibattito è aperto, e forse ozioso. Ma su un punto l’accordo è unanime: il romanzo giallo moderno che da quasi due secoli si legge, si ammira o si odia, comunque si consuma in tutto il mondo, nasce a metà dell’Ottocento ad opera di un giovane e geniale poeta, giornalista, scrittore nativo di Boston, di nome Edgar Allan Poe. Quando, nel 1841, pubblica un lungo racconto dal titolo I delitti della via Morgue, Poe è un ragazzo irrequieto. Nato a Boston e presto orfano di due attori girovaghi, è allevato da un mercante sensibile di Richmond, ripetutamente espulso per indisciplina da scuole e accademie militari, segnato da amori sfortunati e talora tragici. I racconti gli danno fama e fortuna, ma l’assoluta mancanza di senso pratico gli fa perdere rapidamente tutto. Poe muore a quarant’anni per cause mai del tutto chiarite: forse l’etilismo, forse l’epilessia, forse il morso di un animale rabbioso, forse era stato sequestrato e drogato di whisky per farlo votare più volte in qualche elezione, secondo un costume in voga al tempo. Sta di fatto che Poe muore in quel fatidico 1849 che vede l’Europa all’indomani della spallata rivoluzionaria del Quarantotto e Marx ed Engels danno alle stampe il
Manifesto. La borghesia scalpita per conquistare il ruolo che le compete a spese del vecchio ordine. È solo questione di tempo.
Il grande cambiamento è nell’aria.
Nel frattempo, da Torino a Londra, passando per Vienna e Parigi, gli Stati emergenti e i vecchi imperi inventano la moderna polizia e il monopolio del controllo sociale e della repressione del crimine è sottratto alle squadre e squadrette di vassalli e signorotti e consegnato una volta per tutte all’autorità centrale dello Stato.
Quello Stato che presto diverrà dominio, appunto, della borghesia.
Il primo poliziotto ufficiale, ironia della storia, è un ex-galeotto: Eugene Francois Vidocq. Nativo di Arras, come Robespierre, dopo una considerevole carriera di ladro e falsario, con svariate condanne ed evasioni, si offre come informatore ai servizi di sicurezza napoleonici e in breve tempo diventa capo della (nuova) polizia. Ritiratosi in pensione dopo aver servito, con notevole competenza, molteplici padroni, Vidocq pubblica nel 1828 memorie alle quali attingeranno a piene mani Balzac, Dumas e Victor Hugo. Secondo qualche suo biografo, Poe stesso si ispirò a lui per creare Dupin. Il dubbio è quanto mai legittimo. Vidocq era un uomo d’azione, un avventuriero, un figlio della strada. Dupin è un gentiluomo di buona famiglia che indaga per diletto, e alle maniere rudi preferisce il ragionamento.
Nelle prime pagine dei Delitti della Rue Morgue lascia di sasso il proprio interlocutore elencando minuziosamente la catena dei pensieri che costui ha formulato mentre i due passeggiavano oziosamente per le vie di Parigi. E inaugura così una tecnica di presentazione del personaggio che avremmo rivisto milioni di volte nei successivi (quasi) duecento anni. Perché ogni volta che un eroe, nei primi minuti di un film, o di una serie, ci fa restare a bocca aperta fornendoci un saggio tangibile e indiscutibile delle sue abilità, lui è Dupin e noi il suo stupido partner. È Poe, dunque, annota Borges, a stabilire «le leggi fondamentali del genere: il delitto enigmatico e a prima vista insolubile, l’investigatore solitario che lo svela mediante l’immaginazione e la logica, il caso riferito a un amico impersonale e alquanto slavato dell’investigatore».
Non sappiamo se Poe conoscesse il vero poliziotto, ma sappiamo che seguiva la cronaca nera. Se l’assassino della via Morgue è un mostruoso orango (decisamente più grosso e minaccioso di quanto non sia in realtà il vero scimmione), la seconda avventura di Dupin, Il mistero di Marie Roget,
riprende e "risolve" il caso di Mary Cecilia Rogers, una fanciulla assassinata qualche tempo prima a New York.
Aveva dunque ragione Gramsci nel segnalare la stretta contiguità fra il romanzo poliziesco e i resoconti dei processi più seguiti, quelle "cause celebri" che, allora come ora, attraggono la nostra attenzione, con un misto di angoscia e morbosità.
Nasce la polizia, si afferma la borghesia, nasce il giallo.
Nessun caso, nessuna coincidenza.
Ha scritto il grande storico Eric J. Hobsbawn: «Sin dal 1848 c’erano già quasi tutti i principali ingredienti del moderno mito letterario del crimine, sebbene non fossero ancora stati combinati insieme nel detective novel del ceto medio inglese o nella crime story americana, che oggi è diventata per la società urbana occidentale l’espressione definitiva di questo mito».

Corriere 27.12.18
Sotto il segno del Gulag
Le sofferenze dei forzati, l’angoscia dei dirigenti sovietici a rischio di arresto
Urss L’edizione integrale di un romanzo di Solženitsyn (Voland). E Slezkine descrive gli incubi della nomenklatura (Feltrinelli)
Verso l’autore di «Nel primo cerchio» resta la forte diffidenza ideologica di chi non sopporta la condanna del comunismo
di Pierluigi Battista


Nella sua postfazione a Nel primo cerchio (editore Voland), la prima versione non purgata pubblicata in Italia del romanzo di Aleksandr Solženitsyn, Anna Zafesova scrive: «A Milano eravamo in una grande libreria, convinti di trovare uno dei più grandi romanzi del Novecento in cinque minuti, un po’ come si entra in un supermercato sicuri di trovare il latte o il pane. Ma il romanzo non c’era negli scaffali della letteratura straniera e nemmeno in altri reparti», e infatti «il gentile giovane commesso ci disse che era ormai fuori stampa, guardandoci con educato stupore», come se fossero apparsi «due personaggi bizzarri». Ecco: in Italia appare una bizzarria cercare «uno dei più grandi romanzi del Novecento».
Il 2018 è stato il centenario della nascita di Solženitsyn e il decimo anniversario della sua morte, ma appare ancora una bizzarria ricordarlo, pur nella bulimia delle commemorazioni che solitamente impegnano le energie di una società letteraria dedita al rito delle ricorrenze enfatiche. È una bizzarria addirittura aver letto Arcipelago Gulag (fate un sondaggio tra i vostri amici, anche quelli più acculturati: non l’ha letto quasi nessuno), una «dinamite» che al suo apparire scosse e lacerò il mondo culturale della sinistra francese, ma che fu ignorato, disprezzato, persino deriso da un mondo intellettuale censorio e conformista, lo stesso mondo intellettuale che ostracizzò con furore dottrinario nel 1977 la Biennale del dissenso voluta con coraggio a Venezia da Carlo Ripa di Meana.
Qualcuno ebbe da eccepire sulle qualità letterarie dell’opera di Solženitsyn, e questa banale estetizzazione di un radicale imbarazzo politico mi è sempre sembrata una scorciatoia fatua, un modo per parlar d’altro e non affrontare lo scandalo dei milioni di zek (il nome dei prigionieri del Gulag svelato da Solženitsyn proprio nelle pagine di Nel primo cerchio), simbolo delle mostruosità del «socialismo reale». Ma mi sbagliavo perché, come ha scritto Barbara Spinelli nell’introduzione di Arcipelago Gulag uscito anni fa nei Meridiani Mondadori, Solženitsyn e il Varlam Šalamov dei Racconti della Kolyma sono riusciti a «mettere l’alta letteratura al servizio del vero». E il vero, nelle vesti della letteratura che sa vedere e scovare le pieghe della realtà impenetrabili con gli strumenti gelidi della saggistica, ha un impatto più forte, mette in mostra le emozioni, è più pericoloso quindi. E se era ancora possibile ignorare il monumento saggistico, pieno di dati inconfutabili, del grande Robert Conquest, autore de Il Grande Terrore sui massacri staliniani, invece Solženitsyn, con la potenza letteraria della sua scrittura, non doveva essere soltanto ignorato, ma preso a bersaglio di un pregiudizio critico adibito alla demolizione di un grande scrittore: che infatti aveva voluto come sottotitolo del suo capolavoro Un’indagine letteraria.
La denuncia dei crimini del Gulag doveva essere neutralizzata, sconsigliando la lettura di un libro che non era solo denso di fatti e di testimonianze, ma era anche un esempio di «alta letteratura». La liquidazione letteraria come deterrente e prologo di una liquidazione politica. Nell’Unione Sovietica i dissidenti venivano liquidati come malati di mente e reclusi negli ospedali psichiatrici. Più banalmente, nei salotti della cultura irreggimentata dell’Occidente si liquidava con supponenza lo scrittore Solženitsyn per rinchiuderne il nome nel dimenticatoio degli autori da ignorare.
Come il gentile commesso della libreria rievocato da Anna Zafesova, che non sapeva nemmeno quanto grande fosse Solženitsyn e quanto avvincente fosse Nel primo cerchio, fosse pure nella versione più digeribile che l’autore stesso volle proporre per eludere le forche caudine della censura sovietica, nel 1968. Sei anni prima dell’uscita di Arcipelago Gulag, pubblicato all’estero anzitempo dopo che gli scherani del regime avevano messo le mani su una parte del dattiloscritto, trovato dopo l’interrogatorio della segretaria di Solženitsyn, che per la vergogna della delazione estorta con l’intimidazione si suicidò.
Pregiudizi
Con Nel primo cerchio, la descrizione letteraria di Solženitsyn non attinge ancora i vertici dell’orrore, della degradazione e dell’umiliazione patita da milioni di prigionieri. Il «primo cerchio», eco dell’Inferno dantesco, è il girone dei prigionieri «privilegiati», la šaraška dove, commenta Anna Zafesova, erano «detenuti ingegneri e di matematici», costretti a lavorare «alla costruzione di apparecchiature che aiuteranno i loro carcerieri a fare altri prigionieri». La lontananza dalle atrocità commesse nei gironi infernali «inferiori» del Gulag viene però pagata dall’atrocità di dilemmi etici dolorosi: collaborare per salvarsi, per la paura, per non piombare agli ultimi gradini dell’abiezione? Questo è il quadro simbolico, emotivo ed esistenziale in cui si muove la narrazione di Solženitsyn. Ma la pubblicazione in Italia di un altro straordinario libro, La casa del governo di Yuri Slezkine, edito da Feltrinelli, consente di penetrare nella vita quotidiana di quegli strati privilegiati della società sovietica, che però in Una storia russa di utopia e di terrore, come recita il sottotitolo del massiccio volume feltrinelliano, saranno inghiottiti dall’abisso della persecuzione e della morte.
Mentre nel resto della società sovietizzata si pativano lo squallore e la miseria della coabitazione forzata in appartamenti requisiti e ridotti a degradati e superaffollati alveari umani, l’onnipotente partito aveva preparato per la sua nomenklatura, lungo gli argini della Moscova, un complesso abitativo da incubo, con oltre cento appartamenti collegati, spazi sportivi e ricreativi comuni. Tutto in comune, anche l’angoscia di oltre cento famiglie dello stato maggiore bolscevico che passeranno dai fasti dell’«utopia», il privilegio di chi aveva condotto la rivoluzione, al «terrore» che decimerà quella nomenklatura.
C’è qualcosa di soffocante e di claustrofobico in questo complesso residenziale, un’atmosfera malsana e asfissiante che ricorda alla lontana un’altra epica del terrore vissuta nelle stanze di un luogo chiuso: il grande Hotel Lux di Enzo Bettiza. Ma la forza di questo romanzo è di aver raccolto, tra lettere, fotografie, diari uno spaccato della società sovietica dove domina il chiaroscuro della vita di tutti i giorni, con i presagi della devastazione e della persecuzione, l’atmosfera quotidiana di sospetto e di ansia che domina anche i settori meno colpito dalle durezze della vita post-rivoluzionaria.
Un affresco epico, di epica del terrore, che analizza i momenti che precedono il crollo nell’universo concentrazionario del terrore: si spariva nella Russia sovietica, nella prigione mentale e fisica del «socialismo reale», e poi intere famiglie venivano risucchiate e annichilite nella macchina crudele del Gulag, senza un perché, un avvenimento che potesse almeno alludere a qualche ragione dello sprofondare nell’apocalisse. Rivivono in questo libro i fantasmi delle famiglie scomparse, ma si ricostruisce anche un pezzo della cultura sovietica, della mentalità di chi ha promosso e poi subito le conseguenze della presa del potere da parte dei bolscevichi, della storia dell’architettura, degli oggetti, delle immagini, della scrittura, degli affetti che davano il tono e il clima al «regno del terrore» in cui dalla lontana Siberia, destinazione finale dei perseguitati e degli assassinati, spirava fin nel cuore della capitale il vento dell’angoscia e della paura.
La letteratura si conferma lo strumento migliore per afferrare e capire i dettagli esistenziali di una storia tragica, di un arcipelago del terrore che abbiamo imparato nonostante tutto a definire con il suo giusto termine: Gulag.

La Stampa 27.12.18
Artemisia Gentileschi
Né prostituta né icona femminista Metteva nell’arte il suo erotismo
di Alex Connor


Quando ho cominciato a scrivere il romanzo su Artemisia Gentileschi, già da tempo conoscevo la sua storia e ne ero rimasta profondamente affascinata. Dopotutto, non è per questo che ci si dedica alla scrittura di un libro su qualcuno? Alla base ci dev’essere un profondo interesse nei suoi confronti e, nel caso si scriva un romanzo storico, anche un’attenta conoscenza della sua epoca.
Fin qui, tutto bene. Conoscevo la sua opera, il periodo in cui aveva vissuto, e ammiravo il suo coraggio. Ma ben presto scoprii che Artemisia aveva una certa reputazione. Non sto parlando del fatto che nel XVII secolo era considerata una «prostituta», cosa della quale soffrì moltissimo, ma di un’altra etichetta, gentile concessione del XXI secolo, ovvero quella di «icona del femminismo». Be’, io non ho mai creduto che lo fosse, anzi mi ha sempre infastidito che venisse considerata tale. Ecco a voi, quindi, la causa intentata tra la signora Artemisia Gentileschi e l’Icona femminista.
Dai resoconti dell’epoca sappiamo che Artemisia era una bellissima ragazza. Anche suo padre, Orazio, lo sapeva, e fin troppo bene, tanto che la faceva accompagnare dovunque da una donna di nome Tuzia, che doveva proteggerne l’interesse. Perché Artemisia rappresentava un notevole interesse per suo padre. Se non fosse stata vergine, non avrebbe potuto trovare un buon partito a cui darla in moglie. Ma c’era di più: Artemisia era anche la sua assistente di studio. Aveva dei fratelli, dal talento però piuttosto limitato, al contrario del suo, che invece era davvero notevole. Orazio aveva capito sin da quando la figlia era adolescente che sarebbe diventata una pittrice più brava di lui. Ne era geloso? Molto probabilmente sì. Di certo la bravura di Artemisia aveva fatto ingelosire i fratelli.
Tuttavia, nonostante si preoccupasse tanto di proteggere la figlia, Orazio ebbe la malaugurata idea di chiedere a un suo amico e collega, Agostino Tassi, di fare da tutor ad Artemisia: l’ambizione aveva avuto la meglio sul buonsenso. Tassi, che era un’opportunista, si guadagnò presto l’amicizia di Tuzia, e quest’ultima da chaperon si trasformò in ruffiana. Infatti, fu proprio lei che permise a Tassi di entrare nella stanza da letto di Artemisia per violentarla, fu lei a ignorare le sue grida d’aiuto. Tassi era una persona cattiva e in giro si sapeva: si diceva che avesse ucciso la prima moglie ed era stato accusato di incesto con la sorellastra e di furto. In effetti, è possibile che Orazio se la sia presa di più perché gli aveva sottratto un grande dipinto che ritraeva Giuditta piuttosto che per il fatto che avesse deflorato sua figlia, e che l’abbia denunciato solo per vendetta.
Quello che Orazio non aveva considerato erano le conseguenze che avrebbe avuto la questione. Era la prima volta che una donna (anzi, una diciassettenne) accusava di stupro un uomo, e Roma tutta, scandalizzata, guardava a bocca aperta questa bellissima ragazza che veniva continuamente condotta a testimoniare. Artemisia accusava Tassi, lui negava. Lei fornì la prova che l’aveva violentata, per poi prometterle di sposarla e renderla così di nuovo una donna rispettabile, unica ragione per la quale lei aveva acconsentito ad andare di nuovo a letto con lui. Quello che però Artemisia non sapeva era che Tassi era già sposato e che durante i lunghi mesi del processo le si sarebbe rivoltato contro, facendola passare per una prostituta, in modo da giustificare la sua colpa. La conseguenza fu che Artemisia venne ostracizzata dal padre e dai fratelli.
Pungente sensualità
Alla fine del processo Tassi fu giudicato colpevole e gli venne inflitta una pena, ma, siccome era uno dei favoriti del Pontefice, venne presto graziato. Ad Artemisia invece andò peggio. Aveva due possibilità: entrare in convento e continuare a vivere la propria vita nell’ombra, o ripercorrere le orme di Caravaggio e combattere per il proprio diritto di diventare un’artista famosa.
Penso che sia stato l’istinto a guidarla; si rendeva conto che per sopravvivere nel mondo dell’arte doveva dare ai suoi mecenati qualcosa di unico, per cui faceva in modo di stuzzicare lo spettatore, o meglio lo spettatore maschio, visto che solo gli uomini avevano il potere di commissionare opere d’arte. Erano gli uomini che bisognava compiacere. Con consumata abilità, Artemisia usava la propria fama come un’arma: rappresentava le donne nell’atto di vendicarsi degli uomini che avevano abusato di loro e sapeva che quelle immagini avrebbero stimolato la libido maschile. Dipinti come Giuditta e Oloferne sono di una pungente sensualità: una donna che sopraffà fisicamente un uomo, una donna al cospetto della quale l’uomo è letteralmente inerme. La posizione del missionario al contrario: il sesso soccombe davanti alla violenza e alla morte.
Ma Artemisia non si stava vendicando del suo stupratore tramite l’arte. Piuttosto stava facendo carriera, riscattandosi dall’umiliazione, trasformando la propria impotenza in un irresistibile e sensuale tour de force. Naturalmente i suoi mecenati volevano le sue opere. Avrebbero potuto fingersi sconcertati dal fatto che una donna dipingesse simili scene, invece lei li eccitava, li seduceva, otteneva commissioni e si faceva così strada nella professione, con ineguagliabile astuzia.
Il suo matrimonio fallì ed ecco le femministe tornare alla carica. Artemisia deve odiare gli uomini. Deve disprezzare sia Tassi sia suo marito, debole e adultero. No, tutto ciò servirebbe a fare di lei una figurina, una sagoma di cartone che faccia da sponsor al movimento, mentre era una donna reale. Artemisia amò un uomo alla follia, il suo mecenate e consigliere, Francesco Maria Maringhi, che però era già sposato. La loro storia a un certo punto divenne di pubblico dominio e Artemisia fu costretta a partire da Firenze, lasciandosi dietro un altro scandalo. Le lettere che lei e Marighi si scambiarono rivelano una donna dalla passione impetuosa, capace di amare e di provare forti sentimenti.
Le sue parole non sono quelle di una femminista arrabbiata, un’arpia che odia gli uomini, ma quelle di una donna capace dell’amore più profondo. Dopo Marighi, tuttavia, non amò più nessuno nello stesso modo. Nella sua vita ci furono altri fuggevoli amanti, ma non un sentimento intenso, sfacciato, divorante come quello. In ogni caso, tutta quella energia, tutta quella sensualità, non sono andate perdute, perché Artemisia le ha trasferite nella propria opera.
Un gioco sottile
Nessuna pittrice ha mai rappresentato meglio di lei il nudo femminile. Certo, lo faceva per compiacere i suoi committenti, ma anche perché si guardava allo specchio e usava sé stessa come modello. Utilizzando il proprio corpo, la propria sessualità, non ne aveva timore. La bellezza era il suo coltello affilato, con cui separava i committenti dal loro borsellino. I corpi che dipinge respirano di eccitazione e lussuria. Artemisia ha raggirato i suoi committenti, senza che loro se ne rendessero conto. Pensavano di avere davanti una vittima che cercava vendetta attraverso la pittura, mentre stavano in realtà assistendo al trionfo del potere femminile, attratti e instupiditi dal suo palpabile erotismo. E lei si riempiva le tasche esercitando la propria arte di seduzione, dando al pubblico e ai suoi committenti quello che volevano: violenza e «sensazione». Un gioco sottile, al quale avrebbe potuto giocare solo una donna molto intelligente. E i lupi accorrevano a nutrirsi.—
Traduzione di Clara Serretta

Corriere 27.12.18
La sfida al destino: i protagonisti che fanno la storia
Parte oggi, con un volume di Arnaldo Marcone sul primo imperatore dell’antica Roma, la serie delle biografie in edicola con il quotidiano. Da lungo tempo si discute su quanto influiscano nelle vicende delle società umane le scelte compiute dalle figure più famose sulla base del proprio orientamento personale
di Marcello Flores


Nel 1943, nel pieno della Seconda guerra mondiale, Sidney Hook, un intellettuale impegnato che era stato comunista nei primi anni Trenta e nel 1939 aveva costituito il Committe for Cultural Freedom che intendeva opporsi ai totalitarismi di destra e sinistra, pubblicò The Hero in History. In esso sosteneva che esistono «uomini memorabili» e «uomini che creano eventi nella storia»: tra i primi ricordava il ragazzo olandese che, ponendo il dito sul buco creato nella diga, salvò la città di Haarlem dall’inondazione, ma anche Gavrilo Princip, il giovane terrorista serbo-bosniaco il cui atto — l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo e della moglie Sofia — precipitò il mondo nella tragedia della Prima guerra mondiale; tra i secondi poneva senza esitazione Vladimir Lenin, di cui ricordava ancora, evidentemente, l’infatuazione che aveva prodotto in lui e in molti intellettuali della sua generazione.
Anche se può sembrare paradossale furono proprio i marxisti, secondo i quali le forze dominanti nella storia erano quelle economiche e sociali e che affidavano alle strutture e ai contesti più generali, più che agli individui, il ruolo di muovere la storia e alimentarne le dinamiche, a riflettere sul ruolo delle singole personalità nel corso degli eventi. Il libro che ebbe maggiore successo e che, ristampato in molte lingue, venne letto da molteplici generazioni, fu quello di Georgij Valentinovic Plechanov, che nel 1898 pubblicò La funzione della personalità nella storia. In esso, dopo aver sottolineato che l’individuo costituiva «un legame inevitabile nella catena inevitabile degli eventi» — cercando così di superare gli estremismi di una visione pienamente soggettivistica e una puramente deterministica — aveva aggiunto: «La funzione degli uomini veramente grandi consiste nell’essere i promotori, perché essi vedono più lontano e hanno una volontà più forte degli altri». Egli si domandava cosa sarebbe successo alla Rivoluzione francese se Mirabeau non fosse morto improvvisamente, Robespierre fosse stato ucciso accidentalmente o Napoleone fosse stato assassinato prima d’iniziare la campagna d’Italia. E rispondeva che le cose sarebbero, forse, cambiate, ma solo di poco o per poco tempo, dal momento che ogni epoca produceva i suoi eroi adatti, riprendendo la frase dell’illuminista Claude-Adrien Helvétius, secondo cui «ogni periodo ha i suoi grandi uomini, e se mancano li inventa».
Il principale esponente del soggettivismo era stato Thomas Carlyle, che dagli anni Venti fino agli anni Cinquanta dell’Ottocento aveva sviluppato, in sintonia con il romanticismo tedesco, l’idea che la storia fosse appannaggio dei grandi uomini, di alcuni dei quali (Schiller, Cromwell, Federico II) scrisse biografie destinate a durare, trovando in essi i protagonisti di eventi collettivi (la rivoluzione francese, il romanzo tedesco, il cartismo inglese) che acquistavano significato solo attraverso i propri protagonisti. Anche all’interno della storiografia liberale whig, che nell’Ottocento egemonizzò la visione britannica del passato, il ruolo affidato agli individui nel permettere il successo della libertà civile, della tolleranza religiosa, della divisione dei poteri come base per una spinta vittoriosa al progresso industriale e sociale del Paese venne ripetutamente sottolineato.
Sarà successivamente la tradizione tedesca, nella forma prima hegeliana e poi marxista, a suggerire che a creare la storia non erano tanto i grandi individui, ma forze sovraindividuali (lo «spirito universale» di Hegel, le «masse» dei populisti utopici, le «forze produttive» del marxismo ortodosso). Anche per un romantico e un idealista come Schelling, tuttavia, la storia era in qualche modo predeterminata, e gli uomini vi giocavano un falso dramma in cui da attori rischiavano di diventare marionette; mentre per Marx la storia era il risultato dell’attività storica degli uomini, che vedeva però al tempo stesso come «autori» e «attori» del dramma che vivevano e interpretavano.
Il paradosso
Proprio i marxisti, secondo i quali le forze dominanti sono quelle economiche, hanno prestato
più attenzione al ruolo dei singoli
Per cercare di risolvere l’antinomia tra le forze sociali, economiche e collettive che dominano il processo storico e il ruolo che potrebbero avere gli individui nel determinarne gli effetti, o almeno accelerarne spostamenti e deviazioni, Karel Kosik sostenne che l’uomo è al tempo stesso un prodotto della storia, ma si trova anche a esserne potenzialmente il creatore, perché è penetrato della presenza e dell’umanità degli altri e non può trasformare il mondo che attraverso la loro collaborazione.
È difficile pensare che cosa avrebbe potuto essere la storia senza la presenza di quelle personalità che costituiscono i «protagonisti» che verranno proposti nelle prossime settimane dal «Corriere della Sera»: senza Augusto o Cristoforo Colombo, senza Pietro il Grande o Marco Polo, senza Pericle o Attila; ma anche senza Cleopatra o Livia, Teodora o Maria de’ Medici. Furono il risultato dei loro tempi o i creatori delle loro epoche? Probabilmente entrambe le cose.
È stato sempre presente, nelle vite di ognuna di queste figure, un elemento di casualità, dell’essere presenti al momento giusto quando le loro capacità potevano costituire una risorsa importante per modificare o confermare il corso della storia. Ma si trattava, in ogni modo, di figli e figlie del proprio tempo, capaci di interpretarlo con maggiore lucidità, intensità e determinazione. Fortuna e virtù, come scrisse Machiavelli — un altro dei protagonisti della serie che andrà in edicola — sono due aspetti che si compenetrano: la prima è l’occasione attraverso cui l’uomo può dimostrare il proprio valore e la propria insostituibilità.

Corriere 27.12.18
Tutti i poeti del principe
La cultura sotto AugustoAttraverso il circolo del fedele amico Mecenate
Ottaviano legittimò il suo predominio assoluto
Immaginario. Il sovrano s’identificò nella figura di Enea: il nuovo eroe epico, l’avo della «gens Iulia»
di Franco Manzoni


Un’impronta comune caratterizza la produzione letteraria durante l’età augustea. Come se un’abile e occulta regia avesse guidato tutti gli autori nel tendere verso un equilibrio etico. Con il principio di evitare eccessi stilistici quali la volgarità del linguaggio e l’esaltazione della lussuria o dell’estasi erotica. D’altronde qualsiasi forma di potere necessita di legittimazione.
Così per aumentare il proprio consenso Ottaviano, che per primo riuscì a riformare la costituzione repubblicana di Roma senza annullarla ma svuotandola di contenuto, decise di utilizzare l’ars poetica sotto vigile controllo, pronto a ricorrere a drastiche misure di repressione contro quegli scrittori che non si fossero allineati alla sua politica culturale. Un abile progetto di propaganda: dopo le guerre civili, il periodo del grande terrore compreso fra la morte di Cesare e la battaglia di Azio, è chiaro che Augusto, simile al dio Helios, doveva essere esaltato per la sua straordinaria capacità di donare la pace universale al popolo, di restituire importanza alla famiglia e agli antichi costumi morali, di certificare la missione dei Romani nel «civilizzare» i barbari fino ad inglobarli.
Il suo nome andò di conseguenza a coincidere con la ricostruzione dei valori tradizionali nell’ambito di una concordia raggiunta. Mai più lotte intestine. Per controllare e orientare i maggiori letterati del tempo il princeps ordinò al caro amico e sostenitore Mecenate, ricco cavaliere, abile diplomatico, raffinato appassionato di cultura, di costituire una cerchia di scrittori disponibili a collaborare agli obiettivi della politica augustea. Che cosa offrire in cambio? Protezione, garanzia di carriera, munifiche elargizioni e cospicui sovvenzionamenti.
Con fiuto da eccellente talent scout, Mecenate lanciò i giovani ma già apprezzati Virgilio e Orazio. E non solo: sotto la propria ala protettrice accolse Tibullo, Properzio e altri poeti, considerati poi minori dalla critica: Lucio Vario Rufo, Cornelio Gallo, Aristio Fusco, Plozio Tucca, Valgio Rufo, Domizio Marso, Quintilio Varo, Caio Melisso ed Emilio Macro. Un autentico esercito di letterati come armi da usare per il sostegno del disegno imperiale teso ad una riforma complessiva dello Stato.
Attraverso le loro opere Mecenate, che da privato cittadino esercitava un potere senza nome né definizione, riuscì a costruire un’operazione «modello» di promozione a favore dell’ideologia di Augusto. Soltanto in tale modo è possibile comprendere la stupefacente coerenza stilistica delle Odi di Orazio e dei capolavori di Virgilio. Mentre la creazione nell’Urbe delle prime biblioteche pubbliche permetteva all’imperatore di mettere a disposizione di tutti esclusivamente letture gradite al regime.
I rapporti tra principe e intellettuali non erano però sempre armoniosi. Persino Virgilio fu convinto ad eliminare dall’Eneide il nome dell’amico Cornelio Gallo, costretto al suicidio per ordine dell’imperatore. Ovidio pagò l’esaltazione dei piaceri dell’eros e degli insoliti connubi sessuali presenti nelle Metamorfosi con l’esilio in una sperduta località sul Mar Nero. Lo storico Tito Labieno, colpevole di non essere più in sintonia con Augusto, venne invece punito dando i suoi libri alle fiamme.
Nella smania di conquistare un potere illimitato il princeps s’incarnò di conseguenza nella figura di Enea, l’antenato della gens Iulia, il nuovo eroe epico frutto dell’erudita fantasia di Virgilio. Ma quell’Enea iniziatore della stirpe coincide tuttavia con un fomentatore di guerra a qualsiasi costo. Non si tratta di una contraddizione. Prima di divenire portatore di pace, Ottaviano sparse sangue ovunque, assumendo il ruolo di vendicatore contro i cesaricidi Bruto e Cassio e di salvatore della patria nei confronti dell’Oriente invasore di Cleopatra e Antonio.
Nell’arco di un ventennio è proprio con Augusto che iniziò la stagione dei massimi scrittori della letteratura latina, quei classici senza tempo come Virgilio, Orazio, Properzio, Tibullo, Ovidio e Livio, in grado di competere con gli autori della Grecia antica. Tutti alle dipendenze dell’imperatore, uomo di polso, non di clemenza.

Corriere 27.12.18
L’omelia del ’78 di Ratzinger
«Un mondo senza dolore non è umano
Ecco perché Karl Marx aveva torto»
di Joseph Ratzinger


Il tempo di Natale: Dio ha scelto di condividere con gli uomini il peso della vita
«C onsolate, consolate il mio popolo!» (Is 40,1). Questo abbiamo appena ascoltato dalla voce del profeta Isaia. Queste grandi, antiche parole di speranza e di fiducia del popolo d’Israele, toccano sempre di nuovo il cuore. All’interno della storia dei profeti suonavano nuove: all’inizio, al tempo dei Re — a partire da Elia e, passando per Amos, Osea e Michea, fino a Isaia e Geremia — i profeti erano stati soprattutto ammonitori duri ed esigenti che, a difesa della causa dei dimenticati, delle vedove, degli orfani e dei poveri, scuotevano la coscienza degli ipocriti, potenti e sicuri di sé con la loro giustizia esteriore. Si ascoltavano parole inquietanti e sconvolgenti come queste: «Le vostre feste, le vostre preghiere non le posso più sentire, non posso più sopportare l’odore del vostro incenso. Il digiuno che voglio è piuttosto rendere giustizia all’orfano e alla vedova» (cfr. Is 1,11-17).
Alla fine della lunga serie di ammonitori che scuotono, sta Geremia, il quale, contro l’ostinato nazionalismo che vuole appropriarsi di Dio e strumentalizzarlo, si leva con le ragioni della fede e diviene martire. Seguì il grande silenzio dell’esilio babilonese. Ma dopo settant’anni, dopo che Israele era stato schiacciato e sembrava quasi cancellato, si sente questa voce del tutto nuova! «Basta soffrire. La grande potenza, che vi ha deportato, non c’è più». Si riaprono le porte della patria. La steppa si muta in strada e ora i calpestati, i vinti, alla fine sono i veri vincitori. Dio si è ricordato di loro, ed egli è più potente delle grandi potenze di questo mondo, anche se è lui a scegliere il momento nel quale intervenire. «Consolate il mio popolo!». Dio non dimentica i sofferenti, ma li ama e li solleva.
Per quanto questo ci commuova e ci tocchi il cuore, permane in noi una qualche obiezione o perlomeno una domanda: questa consolazione non è troppo lontana nel tempo? E non ha forse ottenuto troppo poco? Ben presto Israele stesso è caduto di nuovo in disgrazia. E se oggi osserviamo il mondo, non mancano immagini di desolazione che ci toccano.
Proprio quando vediamo come domini in mezzo ai popoli benestanti la desolazione, tanto più ci domandiamo: «Signore, dov’è la tua consolazione?». Ma forse tanto più comprendiamo che abbiamo bisogno della Chiesa, che con piena autorità oggi può pronunciare nel nome del Signore le parole di allora: «Consolate il mio popolo!». È lei che dà la vera consolazione.
La Chiesa, nel corso del suo anno liturgico, ripercorre l’intera storia della salvezza. Per molte settimane si presenta a noi con l’atteggiamento di Osea o di Elia: e cioè ammonendoci, scuotendoci, esortandoci, volendo strapparci dal nostro egoismo, dalla nostra avidità, dal nostro autocompiacimento. Ma nell’Avvento giunge l’ora del Dio buono, del Dio che consola. Diviene evidente che la Chiesa non è solo un’agenzia morale, un’organizzazione umanitaria, che essa non esige solo il rispetto di vari precetti, indica bisogni e pone richieste, ma che è lo spazio della grazia, in cui Dio le va incontro soprattutto come colui che dona e che dà. Ma dove si trova questa consolazione? Dio come consola in realtà?
Il primo livello consiste nel fatto che siamo chiamati. Egli desidera che irradiamo la luce della fede che ha posto nei nostri cuori e così riscaldiamo il mondo. Egli vuole consolare attraverso di noi e ci fa sapere che egli ama in particolar modo proprio gli afflitti, gli sconsolati, che s’identifica con loro e in essi attende noi e la nostra bontà. Il nome dello Spirito Santo è «Consolatore». Dio ci aiuta nello Spirito Santo tanto più quanto più siamo uomini che consolano, uomini di una bontà che consola. Questo significa anche che noi non dobbiamo essere come quelli per i quali la piccola consolazione della vita quotidiana è troppo poco e che dicono: no, questo sistema deve essere trasformato, abbiamo bisogno di un mondo nel quale la consolazione non sia più necessaria; ovvero, come ha detto Brecht esasperando il concetto: «Vogliamo un mondo nel quale non ci sia più bisogno di amore». Un mondo così, però, nel quale non c’è più bisogno di consolazione, sarebbe un mondo desolato; un mondo in cui l’amore non fosse più necessario, perché il sistema provvede già a tutto, sarebbe un mondo disumano. Dio vuole consolare attraverso di noi.
Ma invece, di continuo si solleva il sospetto che siano solo parole, promesse consolatorie. Chiediamoci allora: che cosa avviene quando un uomo consola un bambino a cui è morta la mamma? Non può annullare quella morte, non può cancellare il dolore da essa provocato, non può magicamente trasformare il mondo con ciò che esso ha di triste. Può però entrare nella solitudine generata dall’amore distrutto, che è l’autentico motivo del dolore, come uno che condivide il dolore e dà amore. Così, pur non potendo cancellare l’accaduto, non è un parolaio; se penetra, amando, nella solitudine dell’amore perduto, trasforma dall’interno, sana all’origine, sana l’essenziale. E non c’è alcun dubbio che, se egli veramente condivide il dolore e dà amore, allora le sue non saranno solo parole.
Dio non ha operato — come noi sogneremmo e come poi Karl Marx ha gridato a gran voce al mondo — in modo da far scomparire il dolore e cambiare il sistema, così che non ci sia più bisogno di consolazione. Questo significherebbe toglierci l’umanità. Ed è quello che nel segreto desideriamo. Sì, essere uomini ci è troppo pesante. Ma se ci venisse tolta la nostra umanità, smetteremmo di essere uomini e il mondo diverrebbe disumano. Dio non ha operato così. Ha scelto un modo più sapiente, più difficile, da un certo punto di vista, ma proprio per questo migliore, più divino. Egli non ci ha tolto la nostra umanità, ma la condivide con noi. Egli è entrato nella solitudine dell’amore distrutto come uno che condivide il dolore, come consolazione. Questo è il modo divino della redenzione. Forse possiamo capire nel modo migliore che cosa significhi cristianamente redenzione a partire da qui: non trasformazione magica del mondo, non che ci viene tolta la nostra umanità, ma che siamo consolati, che Dio condivide con noi il peso della vita e che ormai la luce del suo condividere l’amore e il dolore sta per sempre in mezzo a noi.

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