Il Sole Domenica 23.12.18
Riflessi nel grande schermo
L’amore sulla cortina di ferro
di Roberto Escobar
Si
chiamavano Wiktor e Zula, i genitori di Pawel Pawlikowski, come i
protagonisti di Cold War (Zimna wojna, Polonia, Francia e Gran Bretagna,
2018, 85’). A loro, morti nel 1989, poco prima della caduta del Muro,
il regista polacco racconta d’aver pensato scrivendo il film. Sono i
personaggi più interessanti che abbia mai incontrato, aggiunge, forti e
meravigliosi come persone, «come coppia un disastro totale».
Forti
per se stessi e disastrosi nel loro rapporto d’amore sono anche il
Wiktor (Tomasz Kot) e la Zula (Joanna Kulig) la cui vita seguiamo dal
1949 al 1964. Pawlikowski e i cosceneggiatori Janusz Glowacki e Piotr
Borkowski li raccontano nella Polonia stalinista, poi a Berlino Est, a
Parigi, nella Iugoslavia di Tito, di nuovo a Parigi e in Polonia. Si
cercano, si trovano, si lasciano, tornano insieme… Fino alla conclusione
della loro storia, ma non del loro amore, tra le mura di una vecchia
chiesa cadente, dove quindici anni prima la storia e l’amore sono
iniziati.
Ripreso in un formato oggi inusuale, l’ “antico” 4:3,
Cold War è girato in bianco e nero, come è accaduto nel 2013 per Ida. La
Polonia del Dopoguerra, spiega Pawlikowski, aveva un colore indefinito,
«una specie di grigio/marrone/verde». Era stata distrutta, le sue città
erano in macerie, in campagna non c’era elettricità, i vestiti erano
scuri. Non la potevo raccontare a colori, d’altra parte, continua,
volevo che il film avesse toni brillanti. Il bianco e nero è stata la
soluzione.
Così sono Wiktor e Zula, “brillanti” non solo in un
contesto storico ma anche in una condizione esistenziale
grigia/marrone/verde. Quando si incontrano, lui è un musicista di grandi
aspettative, costretto a dirigere un gruppo folcloristico che il regime
intende usare a scopo di propaganda. Lei è solo una giovane donna piena
di energia, disposta a qualunque cosa le consenta di uscire dalla
mediocrità. È intelligente, forte, decisa. Ma è certa di non essere
all’altezza di lui. E continua a esserlo quando – nel 1954, ormai stella
benvoluta dal regime – lo raggiunge a Parigi, dove due anni prima è
fuggito da Berlino Est.
La loro vita insieme potrebbe non avere
più ostacoli. Lei si è sposata con un italiano, ma solo per avere un
passaporto che le consenta di lasciare la Polonia. Eppure, qualcosa la
trattiene e la angoscia. Lo stesso accade a lui che, immerso
nell’ambiente intellettuale e artistico parigino, non ci sta che da
esule, non più polacco, non ancora francese. L’aver passato più volte la
frontiera tra Occidente e Oriente, uno fuggendo, l’altra con una
cittadinanza di comodo, non li ha affrancati dalla guerra fredda in
corso tra due mondi contrapposti né da quella fra di loro, lui con la
sua voglia di libertà e con la sua pena di sradicato, lei con il suo
desiderio di successo e la sua convinzione di non essere (anche per
questo) all’altezza di lui.
È una storia d’amore, Cold War, di un
amore fatto di desiderio, capace di superare lontananze di luoghi e di
moralità esistenziali, ma anche di un amore che non trova un luogo in
cui vivere, né una scelta che gli consenta di trovarlo. Solo nel 1964,
tra i muri di una chiesa diroccata, i Wiktor e Zula cinematografici
scelgono e trovano, iniziando un cammino che li porterà in un luogo
senza frontiere, finalmente insieme. Con loro va la memoria di
Pawlikowski, indietro fino ai suoi propri Wiktor e Zula, in una Polonia
che brilla, ma solo in bianco e nero.