giovedì 27 dicembre 2018

Il Sole Domenica 23.12.18
Riflessi nel grande schermo
L’amore sulla cortina di ferro
di Roberto Escobar


Si chiamavano Wiktor e Zula, i genitori di Pawel Pawlikowski, come i protagonisti di Cold War (Zimna wojna, Polonia, Francia e Gran Bretagna, 2018, 85’). A loro, morti nel 1989, poco prima della caduta del Muro, il regista polacco racconta d’aver pensato scrivendo il film. Sono i personaggi più interessanti che abbia mai incontrato, aggiunge, forti e meravigliosi come persone, «come coppia un disastro totale».
Forti per se stessi e disastrosi nel loro rapporto d’amore sono anche il Wiktor (Tomasz Kot) e la Zula (Joanna Kulig) la cui vita seguiamo dal 1949 al 1964. Pawlikowski e i cosceneggiatori Janusz Glowacki e Piotr Borkowski li raccontano nella Polonia stalinista, poi a Berlino Est, a Parigi, nella Iugoslavia di Tito, di nuovo a Parigi e in Polonia. Si cercano, si trovano, si lasciano, tornano insieme… Fino alla conclusione della loro storia, ma non del loro amore, tra le mura di una vecchia chiesa cadente, dove quindici anni prima la storia e l’amore sono iniziati.
Ripreso in un formato oggi inusuale, l’ “antico” 4:3, Cold War è girato in bianco e nero, come è accaduto nel 2013 per Ida. La Polonia del Dopoguerra, spiega Pawlikowski, aveva un colore indefinito, «una specie di grigio/marrone/verde». Era stata distrutta, le sue città erano in macerie, in campagna non c’era elettricità, i vestiti erano scuri. Non la potevo raccontare a colori, d’altra parte, continua, volevo che il film avesse toni brillanti. Il bianco e nero è stata la soluzione.
Così sono Wiktor e Zula, “brillanti” non solo in un contesto storico ma anche in una condizione esistenziale grigia/marrone/verde. Quando si incontrano, lui è un musicista di grandi aspettative, costretto a dirigere un gruppo folcloristico che il regime intende usare a scopo di propaganda. Lei è solo una giovane donna piena di energia, disposta a qualunque cosa le consenta di uscire dalla mediocrità. È intelligente, forte, decisa. Ma è certa di non essere all’altezza di lui. E continua a esserlo quando – nel 1954, ormai stella benvoluta dal regime – lo raggiunge a Parigi, dove due anni prima è fuggito da Berlino Est.
La loro vita insieme potrebbe non avere più ostacoli. Lei si è sposata con un italiano, ma solo per avere un passaporto che le consenta di lasciare la Polonia. Eppure, qualcosa la trattiene e la angoscia. Lo stesso accade a lui che, immerso nell’ambiente intellettuale e artistico parigino, non ci sta che da esule, non più polacco, non ancora francese. L’aver passato più volte la frontiera tra Occidente e Oriente, uno fuggendo, l’altra con una cittadinanza di comodo, non li ha affrancati dalla guerra fredda in corso tra due mondi contrapposti né da quella fra di loro, lui con la sua voglia di libertà e con la sua pena di sradicato, lei con il suo desiderio di successo e la sua convinzione di non essere (anche per questo) all’altezza di lui.
È una storia d’amore, Cold War, di un amore fatto di desiderio, capace di superare lontananze di luoghi e di moralità esistenziali, ma anche di un amore che non trova un luogo in cui vivere, né una scelta che gli consenta di trovarlo. Solo nel 1964, tra i muri di una chiesa diroccata, i Wiktor e Zula cinematografici scelgono e trovano, iniziando un cammino che li porterà in un luogo senza frontiere, finalmente insieme. Con loro va la memoria di Pawlikowski, indietro fino ai suoi propri Wiktor e Zula, in una Polonia che brilla, ma solo in bianco e nero.