Corriere 21.12.18
Una città senza normalità
Statuto speciale per Roma (se non è tardi)
di Ernesto Galli della Loggia
I
mastodontici bus turistici fermi per protesta (ma è legale?) perché
vogliono continuare a spadroneggiare come fanno da sempre, tassisti in
sciopero impegnati nella rissa con gli autisti con licenza da noleggio,
attese spaventose a Termini e a Fiumicino, traffico impazzito, la città
che progressivamente si blocca. A Roma l’ennesima giornata d’inferno. In
realtà solo una giornata come tante altre. Ormai infatti nella capitale
d’Italia la normalità è sparita da molto tempo: non si può essere più
sicuri in alcun modo che una qualunque cosa sia come deve essere, che
qualunque servizio funzioni.
Tutto in ogni momento può rompersi,
interrompersi, andare in pezzi, fermarsi, collassare. E da tempo,
infatti, tutto sta collassando. La pavimentazione delle strade e dei
marciapiedi è perlopiù un ricordo. Privo di un numero sufficiente di
mezzi, e con quelli in servizio molti dei quali ormai vetusti e spesso
in preda alle fiamme, il trasporto pubblico è virtualmente un servizio
che spesso esiste esclusivamente sulla carta e sulle paline delle
fermate. Le vetture quasi tutte sgangherate della metropolitana
percorrono gallerie inquinate, stazioni chiuse, tra ritardi, guasti,
assenteismo del personale. Tonnellate d’immondizia lordano quasi ogni
angolo di strada, e nelle periferie vi razzolano i cinghiali. Non curati
da anni, parchi e giardini stanno perdendo il loro aspetto ameno d’un
tempo mentre la vegetazione sta tornando allo stato selvaggio tra alberi
caduti ed efflorescenze smisurate. Intere parti di Villa Borghese sono
praticamente un cesso all’aperto dov'è impossibile perfino passare, non
dico passeggiare. Nel cimitero cittadino l’attesa delle salme per essere
cremate o poste nei loculi arriva a mesi e mesi; così come si conta a
mesi il tempo di attesa per ricevere dai servizi comunali una carta
d’identità. I marciapiedi non puliti da nessuno sono dappertutto coperti
da una fanghiglia fatta di foglie, sporcizia di anni, cartacce, che
quando piove ottura i tombini e provoca pozzanghere gigantesche
dovunque. La presenza dei vigili urbani a presidio e controllo del
territorio è di fatto inesistente: a Roma chiunque può costruirsi a suo
piacere un giaciglio di fortuna, vendere in mezzo alla strada qualsiasi
cosa, parcheggiare in qualunque modo, scrivere o disegnare sui muri o su
qualunque spazio ciò che vuole. L’impunità è ormai la norma della
città, nel cui cielo svolazzano torme di gabbiani il cui lugubre grido
suona quasi come un presagio.
Di questa vera e propria apocalisse
urbana Virginia Raggi è responsabile ma solo fino a un certo punto.
Sindaco in certo senso a sua insaputa, la poveretta si è trovata a
guidare due o tre milioni di persone tra le più difficili che potessero
capitarle: i romani. In grande parte privi di una vera tradizione
civica, difficilmente permeabili alle regole, spesso menefreghisti e
arroganti, immersi nel loro frequente opaco «particulare», negli
«affari» loro.
Questo diffuso e indomabile temperamento dai tratti
plebei (spesso tale anche se si tratta di milionari o di abitanti dei
«quartieri alti») conta, conta senz’altro, ma solo se lo si innesta in
un più generale dato storico. Roma non è una città come le altre, non
assomiglia a nessun’altra. La dimensione del Comune le è profondamente
estranea. Le è estranea l’idea di una tradizione sorta e racchiusa nella
sua cerchia urbana; priva di un vero e proprio contado ma meta fin dai
primordi di continui arrivi di forestieri, essa non conosce il vincolo
intenso di una comunità stabile nel tempo né l’operosa fattività di
questa, la sua economia e la sua stratificazione sociale essendosi
sempre modellate, per l’appunto, su un potere che abitualmente andava
ben oltre i suoi confini. Può piacere o meno ma storicamente Roma ha una
specificità, insomma, che non è riducibile a una misura urbana e
cittadina qualunque. È una città che porta nel suo dna un carattere
diverso: imperiale e universale.
Proprio per questo l’Italia ne ha
sempre sentito il fascino senza mai riuscire però a sentirla fino in
fondo come una cosa sua, come una sua parte. Proprio per questa sua
intima diversità tuttavia, se il Paese vuole conservare Roma nel suo
rango di capitale — come è giusto e inevitabile che sia — tenendola con
il decoro appropriato a tale ruolo, dovrebbe pensare a sottrarla
all’omogeneità normativa che la equipara a qualunque altra città della
Penisola.
È ciò che fu tentato in modo superficiale e con una
sicumera solo un po’ ridicola, quando anni fa il sindaco Alemanno fece
adottare la dizione «Roma capitale» al posto di quella fino allora in
uso di «Comune di Roma». Ma si è trattato di un cambio di parole che non
sembra avere avuto alcun effetto oltre quello molto probabile di
arricchire qualche tipografia incaricata di stampare milioni di nuovi
moduli con la nuova intestazione. È necessario ben altro: maggiore
fantasia e maggiore determinazione.
Bisognerebbe avere il coraggio
per una città speciale di pensare a un vero proprio Statuto speciale,
appositamente concepito. Incominciando per esempio, previa modifica
costituzionale, a inventarsi un meccanismo inedito per l’elezione della
guida della città (facendo ad esempio partecipare un elettorato più
largo di quello cittadino?), soprattutto attribuendole dotazioni
economiche e poteri speciali. Lo so, lo so: per farlo ci vorrebbe
qualcuno con la volontà e l’intelligenza necessarie, una classe
dirigente, un ministro, magari un governo. Come si vede insomma siamo
sempre lì: consumandoci in un’attesa che ormai però, almeno a Roma, sta
diventando solo l’attesa della fine.