Corriere 11.12.18
L’Unione, il nostro destino
di Aldo Cazzullo
Da
ieri l’accordo tra Londra e l’Europa non esiste più. Eppure proprio i
fatti drammatici di questi giorni confermano che l’Europa è
ineluttabile.
L a si può e la si deve cambiare, riformare,
rifondare; ma l’Europa è più che mai il nostro destino. Pure per gli
inglesi, che non riescono a lasciarla, e non lo faranno mai del tutto.
La
settimana di dibattito a Westminster è stata un esame di coscienza
collettivo. L’autobiografia di una nazione, avrebbe detto Gobetti.
Aperta da un voto storico, in cui molti conservatori si sono uniti
all’opposizione per censurare il governo e accusarlo di aver mancato di
rispetto al Parlamento. La colpa di Theresa May era di non aver
pubblicato integralmente i documenti della trattativa con l’Europa.
Subito dopo i Comuni hanno approvato una mozione che consente loro di
modificare il «deal», l’accordo con Bruxelles, vanificando la strategia
della premier, basata sull’alternativa «o accordo o nulla». In due mosse
il Parlamento britannico ha confermato la propria centralità; proprio
nelle ore in cui a Parigi la polizia ricorreva a ogni durezza per
reprimere la rivolta di piazza, in Germania gli assetti politici
cambiavano non al Bundestag ma in un congresso di partito, e in Italia
la Camera era chiamata a votare la fiducia a una manovra immaginaria,
restando quella vera ancora da scrivere. In sostanza, il Paese che ha
inventato il Parlamento ha ricordato al mondo che la democrazia
rappresentativa rimane la peggior forma di governo, tranne tutte le
altre.
Esiste però anche la democrazia diretta. Che si è espressa
con il referendum del 23 giugno 2016. Dal dibattito, cui hanno
partecipato direttamente o indirettamente le principali istituzioni
finanziarie e culturali del Paese, è emerso con chiarezza che la classe
dirigente britannica considera la Brexit un pasticcio che può diventare
un disastro. L’hanno capito anche molti che la Brexit l’avevano
sostenuta, magari per cavalcare la tigre del malcontento popolare, da
Boris Johnson allo stesso Jeremy Corbyn, sempre molto tiepido
sull’Europa per non precludersi la chance di conquistare Downing Street.
Però
le ragioni che hanno indotto il 52% a votare per il Leave sono ancora
lì, intatte. A cominciare dalla più importante: la tutela del lavoro,
della specificità, dell’identità britannica. Londra non è più una città
inglese ma la capitale del mondo multiculturale; infatti Londra è contro
la Brexit; ma gran parte del Paese non riconosce più la propria
capitale, così com’è diventata. Molti sono contrari alla libera
circolazione dei lavoratori, arrivati a centinaia di migliaia dal Sud e
dall’Est dell’Europa, in particolare da Italia e Polonia. Molti, ancora
scossi dalle immagini della giungla di Calais abitata da africani in
attesa di passare la Manica, temono che i flussi migratori arrivino fin
qui. Più in generale, l’Europa è pensata come una gigantesca costruzione
burocratica in mano ai tedeschi; e molti inglesi non vogliono saperne
di obbedire al popolo che hanno sconfitto in due guerre mondiali.
Eppure
uscire dal mercato comune europeo non conviene neppure a loro. Ridurre
l’interdipendenza finanziaria non è certo nell’interesse della più
grande fabbrica di ricchezza, la City. Ostacolare l’arrivo di studenti
dall’Europa penalizzerebbe la seconda industria di Londra, l’istruzione.
Fermare i lavoratori d’Oltremanica danneggerebbe le multinazionali
della ristorazione e dei servizi. Infine, toccare la frontiera tra
l’Ulster e la Repubblica d’Irlanda, che resterebbe in Europa a pieno
titolo, significa evocare il fantasma di una guerra secolare; e proprio
su questo scoglio si è arenata la May.
A rendere ancora più
interessante la questione è la parabola di Nigel Farage. Il paladino
della Brexit è uscito dal partito che lui stesso aveva fondato, in
polemica con la deriva di estrema destra. Farage è un nazionalista
britannico, ma è anche un sincero liberale. In ufficio ha la foto di
Margareth Thatcher. Un movimento xenofobo e antislamico non gli
interessa; il suo obiettivo resta dividere i conservatori e rifondarli
su basi antieuropee. Non ci riuscirà; ma è consolante pensare che pure
il populismo trova in Inghilterra un suo «modus», un metodo, un limite.
A
questo punto può succedere di tutto. Un nuovo accordo. O anche un nuovo
referendum. Ma una cosa è chiara: se non sarà possibile un
ripensamento, una qualche forma di legame con l’Europa è inevitabile. E
questo dovrebbe far riflettere gli anti-europei di casa nostra.
All’uscita dall’euro i 5 Stelle sembrano aver rinunciato. La sovranità
monetaria rimane il sogno proibito di qualche apprendista stregone della
Lega. Ma Salvini non parla più di far saltare l’Europa, semmai di
riorientarla sull’asse popolare-populista, sostituendo i socialisti come
partner di un’alleanza meno ossessionata dall’austerity e più attenta
alle identità nazionali e agli interessi dei ceti produttivi. È un
progetto che può rivelarsi una velleità, di fronte alla tenuta tedesca.
Di sicuro, al tempo dei Trump e dei Putin, dell’impero cinese e
dell’avanzata islamica, pensare di fare del tutto a meno dell’Europa è
un errore che neanche gli inglesi possono permettersi.