Corriere 11.12.18
Opere e autonomia
La lunga paralisi di un Paese
di Gian Antonio Stella
«È
un dossier all’attenzione del governo. Ci siamo riservati di
approfondire quanto prima». Sono passate solo un paio di settimane da
quando Giuseppe Conte, l’«andreottiano del cambiamento», prese
solennemente quel vago impegno sull’autonomia delle tre Regioni che
attendono di ricevere la gestione d’una serie di materie. Eppure, ad
ascoltare le fibrillazioni all’interno dei leghisti, in particolare
quelli che detengono il nocciolo duro del partito, i lombardi e i
veneti, pare passato un secolo.
Lo riconosce, sia pure pesando le
parole per non dar fuoco al pagliaio (la sua «bio» su WhatsApp è: «S’io
fossi foco, arderei lo mondo») la stessa ministra per gli Affari
Regionali e le Autonomie Erika Stefani: «La prima domanda che mi fanno è
sempre: allora, l’autonomia? La spinta è fortissima». L’ha detto e
ripetuto anche l’altro giorno in Piazza del Popolo: «A quei milioni di
veneti e lombardi che hanno chiesto l’autonomia bisogna dare una
risposta. Sul mio tavolo ci sono ben 8 Regioni che hanno chiesto
l’autonomia. E queste sono risposte che la politica e il governo devono
dare. A un anno dal referendum noi i dossier li abbiamo aperti, noi le
proposte le abbiamo fatte…». Ma?
Ma le risposte, ha fatto
intendere, tardano ad arrivare. Come se potessero inquietare certe fasce
di elettori pentastellati meridionali: e se poi si tengono «i schei»?
Ce
rto, pochi giorni fa Luigi Di Maio è salito a Treviso a dire agli
impazienti di star sereni: «L’autonomia del Veneto si deve dare il prima
possibile, nei consigli dei ministri di dicembre…». La cessione delle
competenze, però, soprattutto su certe materie come la salute o le
infrastrutture, è assai più divisiva di quanto sia fin qui emerso.
Nessuno ancora osa accusare certi ministeri di ostruzionismo. I lamenti
per come le «macchine» dei dicasteri a guida grillina siano farraginose
nel mettersi in moto, però, crescono giorno dopo giorno. Tanto più che
dopo sei mesi di governo gialloverde la stessa impazienza ha contagiato
tutte e tre le regioni in attesa. La Lombardia leghista di Attilio
Fontana, il Veneto leghista di Luca Zaia, deciso a dimostrare di non
essere arrendevole affatto davanti a un governo «amico» («Se non ci
danno l’autonomia, siamo pronti a riempire le piazze», tuonava poche
settimana fa) ma pure l’Emilia-Romagna democratica di Stefano Bonaccini.
Il quale ha scelto un percorso diverso dal referendum ma pare risoluto a
non mollare di un millimetro. Men che meno davanti a un esecutivo
ostile. Fatto sta che i tre sono costretti a chiedersi: di concreto,
oggi, cosa abbiamo in mano oltre al pre-accordo firmato a febbraio da
Paolo Gentiloni? Fossero tempi normali, amen. Un mese più, un mese meno…
Ma il clima, c’entri o no Satana come pensa il capo gabinetto del
ministero per la Famiglia, è così surriscaldato che le impazienze sulle
autonomie rischiano di sommarsi a tutto il resto. Il braccio di ferro
con l’Europa, quota 100, il reddito di cittadinanza, la legittima
difesa… Incendiando ulteriormente i rapporti. Tanto più che su temi
diversi vanno a mischiarsi gli stessi insofferenti delle aree più
vivaci, produttive e arrabbiate del Paese. Dicono molto le parole usate
da Vincenzo Boccia, già scottato dalle critiche per la mezza investitura
di Matteo Salvini, dopo l’incontro di domenica in Viminale: «Per la
prima volta da sei mesi questo governo ci ascolta, abbiamo dialogato.
Ora però aspettiamo fatti».
Troppo presto, per mettere una pietra
sopra alle tensioni di queste settimane. Dallo sfogo del presidente
degli imprenditori vicentini Luciano Vescovi («Questa è una bocciatura
integrale per la politica economica ed infrastrutturale del governo,
senza sconti») alle mobilitazioni di Confartigianato, fino alle parole
dure dei sindaci veneti (di destra) schierati come lo stesso Luca Zaia
dalla parte degli imprenditori furenti. Soprattutto quelli medio-piccoli
come Bepi Covre, già deputato della Lega e fiero di non aver mai
licenziato neanche nei momenti più bui: «Siamo sgovernati. Avanti così e
scoppia la tempesta perfetta».
Ed ecco le invettive contro il
decreto Dignità colpevole secondo le associazioni d’impresa di far
perdere dal 1° gennaio, con ogni probabilità, migliaia di posti dopo
anni di crescita che avevano spinto il Veneto (dati: Osservatorio del
lavoro regionale) al 67,2% di occupati cioè nove punti più che nel resto
d’Italia. E quelle contro la burocrazia che asfissia le aziende al
punto che secondo la Cna ci vogliono «71 pratiche per un bar, 86 per
un’officina» senza alcuna svolta rispetto al passato. E quelle ancora
contro la paralisi imposta alle infrastrutture sulla scia dell’idea di
Danilo Toninelli che, al di là dei torti e delle ragioni, dei processi e
delle condanne, è inchiodato a quanto disse poco prima del crollo del
ponte Morandi: «Tajani e tutti gli altri che blaterano su Tav si mettano
l’anima in pace. La mangiatoia è finita». Come se ogni ponte, ogni
galleria, ogni cavalcavia, ogni strada siano stati sempre inquinati
dalla corruzione. Tesi ribadita ieri dal titolo del Fatto sulla riunione
al Viminale (questa sì discutibile) dopo la manifestazione No-Tav di
Torino: «E Salvini chi riceve il giorno dopo? Gli affaristi del Sì».
Tutti «affaristi»? Mah…
Dice il vicepremier grillino, in polemica
col dirimpettaio leghista: «Ieri da lui c’erano poco più di dieci sigle,
domani noi ne riuniamo oltre 30 di tutti i comparti. Ieri hanno fatto
le parole e i fatti si fanno al Mise, perché è il Mise», cioè il
ministero per lo sviluppo economico, «che si occupa delle imprese».
Risposta del secondo gallo del pollaio gialloverde: «A me interessa la
sostanza, io incontro, ascolto, trasferisco, propongo, miglioro poi a me
interessa che il governo nel suo complesso aiuti gli italiani. Ognuno
fa il suo». Campagna elettorale permanente. Se poi resterà del tempo…