Corriere 10.12.18
La filosofa Julia Kristeva
«La mia Europa senza più padri»
di Stefano Montefiori
«la
grande sconfitta, nella cacofonia mondiale delle nazioni oggi, è
l’Europa»: la filosofa Julia Kristeva, in un’intervista al Corriere,
riflette sulla crisi politico-ideale del continente.
Parigi «La
cultura europea esiste, la sua lingua è il multilinguismo, e il comune
denominatore è la cultura dell’individuo, della nazione, della politica.
Sono creazioni giudaico-cristiane, che si sono sviluppate nel tempo e
che non sono culti ma aperture fragili. Il grande problema oggi è come
armonizzare queste culture nazionali. Tutto il mio lavoro di
intellettuale, ovvero psicoanalista, romanziera, filosofa, semiologa,
affronta questo argomento». Incontriamo Julia Kristeva nella sua casa di
Parigi, due giorni prima della visita a Milano e della laurea honoris
causa alla Iulm, per anticipare i temi del suo intervento. Inevitabile
che la cultura e l’Europa si intreccino con gli avvenimenti appena
vissuti da Parigi e della Francia: la rivolta dei gilet gialli e la
crisi della politica.
Come giudica lo stato attuale della cultura europea?
«Intanto,
è già un punto di partenza affermare, come io mi sento di fare, che una
cultura europea esiste. Quando ho accettato la proposta di venirne a
parlare a Milano, tutti sapevamo che la grande sconfitta, nella
cacofonia mondiale delle nazioni oggi, è l’Europa. Ma non eravamo ancora
in questa situazione di crisi violenta. Quel che è appena accaduto a
Parigi a mio avviso è un avviso di tempesta per tutta l’Europa, non solo
per la Francia».
In tempo di conflitto aperto tra sovranisti e
élite vengono subito in mente le critiche degli esclusi: facile parlare
di cultura europea per chi è abituato a prendere aerei per visitare
mostre a Venezia e Firenze o per passare qualche giorno nel proprio
pied-à-terre a Parigi. E gli altri?
«Io ho una visione della
cultura molto più larga. La cultura è una concezione dell’individuo, uno
sguardo sulla singolarità di ciascuno, una cultura di patto nazionale,
che si interessa alla diversità delle lingue e alla nozione di felicità,
di valore, di progetto ideale per l’avvenire. Questa cultura non è
affatto elitista e riguarda anche il contadino e l’artigiano».
Anche quelli che da quattro sabati manifestano a Parigi e nel resto della Francia?
«Non
possiamo neanche sperare di risolvere la crisi dei gilet gialli se non
ci affidiamo alla filosofia e alla sociologia per affrontare la
questione del senso delle persone, della nazione, degli ideali, del
futuro».
Eppure le rivendicazioni dei gilet gialli sono molto concrete: chiedono meno tasse e più potere d’acquisto.
«Certo,
e io credo che il governo debba senz’altro mettere mano alla cassa e
soddisfare almeno una parte delle loro richieste. Non voglio dare
l’impressione di stare sulle nuvole, cominciamo con i piedi per terra e
diciamo che adesso è il momento di aprire il portafogli. Fatto questo
primo passo necessario ma insufficiente, dobbiamo resistere alla
tentazione di considerare gli scontenti solo come consumatori in
difficoltà, perché sotto c’è un malessere molto più profondo».
A che cosa si riferisce?
«Alla
fine della politica per come la conosciamo da oltre due secoli. Una
cosa è successa molto tempo fa in Europa, e solo in Europa: la rottura
del filo della tradizione religiosa. Con la Rivoluzione francese — né
dio né padrone — abbiamo cancellato dio, tagliato la testa al re e messo
al loro posto l’ideologia dell’umanesimo, che ha finito per diventare
un valore astratto. La politica è diventata la nuova religione, con
l’idea che la democrazia rappresentativa possa risolvere i problemi
della felicità, della morte, dell’avvenire, l’inferno e il paradiso qui
sulla Terra. Abbiamo dato alla politica responsabilità enormi, e questo
modello è crollato con la Shoah e i gulag. Sopravvive a stento un’idea
più ridotta della politica come gestione dell’esistente, gestione che è
comunque soffocata dalla finanziarizzazione dell’economia e della
rivoluzione digitale. In questo stato di cose la politica si riduce a
showbiz o carnevale. Donald Trump ne è l’espressione, e infatti arriva
ad adattarsi alla situazione meglio degli altri».
Che cosa significa la politica come gestione?
«È
una politica dell’impotenza, della contabilità, in cui fingiamo di
credere che il problema sia davvero l’aumento del prezzo del diesel. Lo è
ma solo in parte, e infatti anche quando l’aumento viene ritirato le
proteste continuano. Ci troviamo in una specie di tardo Medioevo, quando
uno dei miei grandi punti di riferimento, Duns Scoto, disse che non ci
sono altri valori se non questo uomo, questa donna. Non i grandi ideali,
non la materia, ma la persona. Solo che dopo il tardo Medioevo arrivò
il Rinascimento, e un passaggio simile mi sembra ancora molto lontano da
noi».
Quali caratteristiche hanno queste persone, in Francia e nel resto d’Europa?
«I
cosiddetti perdenti della globalizzazione sono mal pagati ma
soprattutto frustrati, la rivoluzione digitale li rende onnipotenti in
teoria ma non nella pratica. Vogliono rompere questo ordine ma per
adesso non hanno alternative da proporre. Invocano le dimissioni di
Macron, ma allo stesso tempo dicono che con un altro al suo posto le
cose non cambierebbero. Qui arriviamo alla nozione di popolo.
Robespierre diceva che il popolo ha sempre ragione, invece per Wilhelm
Reich certe masse vogliono il fascismo. Tra queste due visioni estreme e
opposte bisognerebbe provare a rispondere alle emozioni insoddisfatte e
agli ideali senza risposta. Magari ricorrendo alle categorie della
psicoanalisi».
Qui entra in gioco il suo lavoro di psicoanalista. In che modo?
«Sento
molte persone ripetere che vorrebbero un presidente “padre della
nazione”. È una frase molto interessante per una psicoanalista perché la
famiglia è in crisi di ricomposizione e siamo tutti alla ricerca del
padre perduto. Gli unici padri oggi in politica sono un po’ clowneschi
come Trump, o i dittatori. Quel che succede invece è che i nostri
governanti giocano con la figura del fratello».
Cioè i presidenti di oggi non sono più padri della nazione ma fratelli?
«Sì,
e il fratello è una figura importante nell’evoluzione di un individuo.
Gli adolescenti sono tutti fratelli e condividono passioni reversibili,
amore che diventa odio e viceversa. Questa reversibilità si chiama
omoerotismo — che non significa omosessualità — e innamoramento. E lo
abbiamo visto benissimo con il presidente Macron: adorato
all’improvviso, e altrettanto repentinamente odiato».
Lo accusano di tutto: di parlare troppo o troppo poco, di essere troppo arrogante o troppo amichevole.
«Perché
parla un linguaggio di vicinanza, tattile, sia con i pregiudicati delle
Antille sia con i disoccupati che lo avvicinano per strada. Pensa forse
che questa vicinanza tattile risponderà alle angosce delle persone ma
no, al contrario, le fomenta. Resta nella reversibilità adolescenziale
di amore e odio. I cittadini non capiscono il leader che gioca al loro
livello, prendono questa familiarità per arroganza. Ma come Macron fanno
molti altri. I leader attuali sono fratelli, non padri. Tra fratelli ci
si ama e ci si odia, senza sosta. È una parte di noi che sopravvive.
Tra colleghi, amici, uomo e donna, giochiamo al gatto e topo. Ma il
campo politico non deve ridursi a questo. E i fratelli tradizionali in
politica non ci sono più».
A che cosa si riferisce?
«Alle
tipiche fraternità che sono i corpi intermedi, i sindacati, le
organizzazioni non governative, le associazioni, la scuola, la Chiesa,
l’esercito. Tutte queste istituzioni sono in crisi ovunque e alcuni
presidenti, come il nostro in Francia, hanno diminuito il loro peso
pensando che il capo dello Stato fratello avrebbe potuto fare tutto,
occupare tutti quei ruoli. Non è così».
Quanto sono importanti i social media?
«Molto,
perché la debolezza della politica e del capo dello Stato che non è più
il padre della nazione si abbina a una interconnessione continua.
Questa interconnessione digitale genera identità liquide, le persone non
sanno neanche più come definirsi. C’è un odio che poi si diffonde al
mondo reale».
Che cosa dovrebbe fare oggi un leader politico?
«Ovviamente
non oso proporre soluzioni, i miei sono contributi alla riflessione, e
poi non voglio essere troppo critica con Emmanuel Macron. Nel suo
discorso all’inizio della crisi a un certo punto ha detto che la
risposta sarebbe stata “la declinazione del pragmatico”. Ma cosa vuol
dire? C’è troppa tecnica e troppa freddezza. Direi che la politica
dovrebbe non occuparsi più solo della contabilità ma anche della
cultura, intesa come educazione e accompagnamento, magari partendo dai
valori ancestrali del cristianesimo, dell’islam e del giudaismo. La
questione adesso è interagire con persone che non credono a niente».