Corriere 10.12.18
Oggi la consegna
Il Nobel a Nadia Murad Ma i premi non bastano
di Viviana Mazza
L’attivista
yazida Nadia Murad riceverà oggi, insieme al medico congolese Denis
Mukwege, il Nobel per la Pace, ma la sua comunità di 500 mila persone,
vittima di un genocidio dell’Isis nel 2014 e ora divisa tra i campi
profughi d’Iraq e la Germania, non può tornare a casa. Quattro anni
dopo, i villaggi yazidi nel nord dell’Iraq restano in rovina. Cinquemila
morti, tra cui sua madre e i suoi fratelli, giacciono nelle fosse
comuni, mentre centinaia di donne e bambini rapiti sono ancora dispersi.
Nessuna organizzazione internazionale ha provveduto a rimuovere le
mine, né ad esumare e identificare i corpi. Nessuno è stato punito per
gli stupri, ricorda Nadia. A che servono i premi quando manca la
giustizia? L’abbiamo chiesto a Shirin Ebadi, avvocata costretta a
lasciare il suo Iran dopo aver vinto il Nobel per la Pace: «I premi sono
un segno di rispetto per le attività di una persona, per il punto al
quale è arrivata. Dicono a chi combatte per i diritti che non è solo».
Quattro anni dopo un’infinita serie di discorsi, dall’Onu ai parlamenti
di mezzo mondo, e di interviste in cui viene costretta a rivivere le
violenze sessuali subite, Nadia continua la sua estenuante battaglia,
come racconta il film «Sulle sue spalle» di Alexandria Bombach. I premi?
Servono, ma non sono abbastanza. «Abbiamo bisogno di avere giustizia un
giorno» dice la 25enne che voleva una vita semplice e un lavoro in un
salone di bellezza, ma è stata catapultata nel mondo della difesa dei
diritti.