Corriere 10.12.18
D’Ambrosi, fondatore del Teatro patologico
«Porto in scena i malati psichiatrici, la recita è una terapia»
di Emilia Costantini
Dario
D’Ambrosi non è un attore di teatro normale, ed è lui per primo a
dichiararlo: «Normale io? La mia esperienza artistica nasce dalla
frequentazione del Paolo Pini di Milano, l’ex ospedale psichiatrico».
Un’esperienza che inizia nei primi anni ‘80,dando vita al Teatro
Patologico e allo spettacolo Tutti non ci sono, con cui torna in scena
dall’11 dicembre al Franco Parenti. Due anni fa ha anche creato, con
l’Università di Roma Tor Vergata, il primo corso universitario di
«Teatro integrato dell’emozione».
«Ricordo la prima volta che
portai in scena Tutti non ci sono a New York — racconta — Era in sala
Andy Warhol, non so cosa capisse perché recitavo in italiano, ma si
divertiva come un matto per la reazione del pubblico alle mie
provocazioni». A cosa è dovuto il titolo? «Davanti al manicomio di
Aversa, c’era scritto: tutti non ci sono, tutti non lo sono. Ovvero,
tutti non sono rinchiusi in manicomio e tra quelli che stanno dentro non
tutti sono matti».
Lo spettacolo nasce dall’attuazione della
legge 180 di Franco Basaglia: gli ospedali psichiatrici chiudono e i
pazienti vengono dimessi. Con il rischio, commenta Dario, di «malati
abbandonati a se stessi, spesso senza famiglie pronte ad accoglierli».
D’Ambrosi
interpreta uno di loro: «Lui vorrebbe tornare tra le mura protette del
manicomio. L’unica cosa che porta con sé è un uccellino in gabbia, il
suo solo amico con cui si aggira tra gli spettatori, provocandoli,
divertendoli, e terrorizzandoli: la gente ha paura dei matti io lo so,
li frequento da anni». Dai tempi del Pini? «All’epoca facevo il
calciatore, però avevo degli amici psichiatri che mi parlavano dei
problemi legati alla legge Basaglia. Decisi di fare un’esperienza in
ospedale, un mondo di sofferenza e di creatività. Ho iniziato a fare
amicizia con i pazienti e ho avuto l’idea di creare il Teatro
patologico, dove sono transitati, in tutti questi anni, quasi duemila
malati. Portandoli in palcoscenico non li ho curati, ma integrati. In
teatro non si usano psicofarmaci, si lavora sul corpo del disabile
mentale, le sue urla improvvise, che possono impaurire, sul palcoscenico
diventano arte. Purtroppo — conclude — non si può guarire da questa
patologia, si può solo aiutare queste persone ad alzare la testa, a
conquistare un po’ di autonomia. È già tanto».