lunedì 10 dicembre 2018

Corriere 10.12.18
D’Ambrosi, fondatore del Teatro patologico
«Porto in scena i malati psichiatrici, la recita è una terapia»
di Emilia Costantini

Dario D’Ambrosi non è un attore di teatro normale, ed è lui per primo a dichiararlo: «Normale io? La mia esperienza artistica nasce dalla frequentazione del Paolo Pini di Milano, l’ex ospedale psichiatrico». Un’esperienza che inizia nei primi anni ‘80,dando vita al Teatro Patologico e allo spettacolo Tutti non ci sono, con cui torna in scena dall’11 dicembre al Franco Parenti. Due anni fa ha anche creato, con l’Università di Roma Tor Vergata, il primo corso universitario di «Teatro integrato dell’emozione».
«Ricordo la prima volta che portai in scena Tutti non ci sono a New York — racconta — Era in sala Andy Warhol, non so cosa capisse perché recitavo in italiano, ma si divertiva come un matto per la reazione del pubblico alle mie provocazioni». A cosa è dovuto il titolo? «Davanti al manicomio di Aversa, c’era scritto: tutti non ci sono, tutti non lo sono. Ovvero, tutti non sono rinchiusi in manicomio e tra quelli che stanno dentro non tutti sono matti».
Lo spettacolo nasce dall’attuazione della legge 180 di Franco Basaglia: gli ospedali psichiatrici chiudono e i pazienti vengono dimessi. Con il rischio, commenta Dario, di «malati abbandonati a se stessi, spesso senza famiglie pronte ad accoglierli».
D’Ambrosi interpreta uno di loro: «Lui vorrebbe tornare tra le mura protette del manicomio. L’unica cosa che porta con sé è un uccellino in gabbia, il suo solo amico con cui si aggira tra gli spettatori, provocandoli, divertendoli, e terrorizzandoli: la gente ha paura dei matti io lo so, li frequento da anni». Dai tempi del Pini? «All’epoca facevo il calciatore, però avevo degli amici psichiatri che mi parlavano dei problemi legati alla legge Basaglia. Decisi di fare un’esperienza in ospedale, un mondo di sofferenza e di creatività. Ho iniziato a fare amicizia con i pazienti e ho avuto l’idea di creare il Teatro patologico, dove sono transitati, in tutti questi anni, quasi duemila malati. Portandoli in palcoscenico non li ho curati, ma integrati. In teatro non si usano psicofarmaci, si lavora sul corpo del disabile mentale, le sue urla improvvise, che possono impaurire, sul palcoscenico diventano arte. Purtroppo — conclude — non si può guarire da questa patologia, si può solo aiutare queste persone ad alzare la testa, a conquistare un po’ di autonomia. È già tanto».

Corriere 10.12.18
L’anniversario
Il naufragio dei diritti umani (anche) nelle democrazie liberali
di Donatella Di Cesare


A 70 anni dalla dichiarazione universale Onu viene criminalizzato chi li difende
Sono trascorsi settant’anni da quando l’Assemblea generale della Nazioni Unite votò la Dichiarazione universale dei diritti umani. Era il 10 dicembre 1948 e il mondo non voleva né poteva dimenticare quegli orrori della Seconda guerra mondiale, che non avrebbero più dovuto ripetersi. Da quel proposito nacque un testo costituito da trenta articoli in grado di garantire giustizia, dignità, opportunità, e impedire qualsiasi discriminazione. Libertà per la persona, rispetto per la vita di ciascuno.
Nel celebrare oggi quella scelta, non si può fare a meno di constatare il naufragio dei diritti umani, soprattutto negli ultimi anni. Anziché essere protetti, rafforzati, estesi, quei diritti sono stati apertamente attaccati oppure nascostamente minati. Non solo nei regimi totalitari, ma anche nelle democrazie liberali.
I motivi del naufragio sono molteplici. Alcuni sono insiti già nel testo. Pur restando un documento fondamentale, il codice dei diritti umani è il prodotto dell’Occidente illuminato. Con il tempo ha finito per rivelarsi una sorta di lingua artificiale, priva di spessore storico. Non è un caso che i vari articoli siano stati intesi diversamente malgrado la loro pretesa universalità. Non pochi conflitti d’interpretazione sono poi degenerati in veri e propri scontri bellici. Ma c’è di più. Quel codice universale sembra scaturito da un’etica che promette solo legami astratti. D’altronde i diritti hanno un’impronta fortemente individualistica: è il singolo ad essere il protagonista. Il ruolo della comunità, che oggi appare sempre più decisivo, è invece trascurato.
All’astrattezza filosofica e alla vaghezza giuridica si aggiunge un motivo più prettamente politico: quei diritti sono destinati a restare sulla carta, perché gli Stati, pur aderendo idealmente, non sono obbligati a rispettarli. Manca, dunque, l’obbligatorietà. Perciò gli esempi di diritti negati sarebbero innumerevoli.
Che ne è ad esempio del diritto alla libertà, alla vita, al movimento? Nella nuova età dei muri e del filo spinato questi diritti sono sistematicamente violati. Anzi la violazione è eretta a sistema politico. La libertà di muoversi si arresta al confine.
Sempre più acuto è il contrasto, lasciato in eredità dalla Rivoluzione francese, fra i diritti dell’uomo e quelli del cittadino. I diritti umani valgono solo se si possiedono i privilegi del cittadino. Chi non ha cittadinanza, un passaporto da esibire, lo scudo di uno Stato-nazione, non ha protezione giuridica. Di nuovo: è lo Stato sovrano che detta legge. Lo aveva denunciato Hannah Arendt reclamando, con una formula divenuta celebre, un «diritto ad avere diritti». Perché si tratta del diritto all’appartenenza, la cui negazione costituisce la frontiera della democrazia.
Infatti a proteggere è il diritto, non l’umanità. Così, chi non è coperto da bandiere e drappi, chi è più esposto nella propria nuda umanità, non può paradossalmente avere protezione. I diritti umani, inalienabili, irriducibili, non derivanti da alcuna autorità, sono allora condannati a naufragare. E con loro gli esseri umani respinti, banditi nell’inumano.
Sappiamo bene che i diritti umani furono proclamati dopo la Shoah che aveva inferto una ferita profonda, per molti versi irreparabile, alla dignità umana. Ma che cosa vuol dire «dignità»? Non comportarsi come se si fosse nessuno, come se si fosse una cosa e non una persona. Compito, allora, affidato alla comunità, prima che al singolo. Ma soprattutto che cosa vuol dire «umanità»? Condivisa, ma sfuggente, la parola assume valore – ce lo insegna Primo Levi – nei casi di estrema umiliazione, di offesa, avvilimento, oltraggio.
Il divario sempre più ampio è ormai quello tra la sfera politica, dominata dagli Stati, e l’azione umanitaria. Si spiega così la difficoltà in cui si dibattono gli enti sovranazionali e soprattutto le organizzazioni umanitarie. A cominciare da quelle che si occupano dei rifugiati. Proprio perché dovrebbero operare tra gli Stati, non solo sono costrette all’impotenza, ma vengono continuamente delegittimate e diffamate. È l’effetto di questi tempi in cui è diffuso un oscuro e inquietante sovranismo: non la tutela e l’applicazione dei diritti umani, bensì, al contrario, la criminalizzazione di chi li difende.

Repubblica 10.12.18
L’analisi
Questa Italia senza gilet
di Piero Ignazi


Dieci anni di pace sociale nonostante  più grave crisi economica del secolo e poi, d’un tratto , l’aumento di qualche centesimo del carburante fa esplodere una rivolta. Da un mese la Francia è attraversata da proteste prima tradizionali – blocchi stradali e picchetti – e ora violente e devastatrici. Unico paragone possibile, le periferie in fiamme del novembre 2005 : allora i giovani " ghettizzati" delle banlieue, popolate soprattutto da immigrati di seconda e terza generazione, avevano dato vita a una guerriglia urbana con migliaia di auto incediate (più di 4000 in soli tre giorni) e scontri durissimi con la polizia. Ma tutto si esaurì in tre settimane senza apparenti conseguenze politiche. Era la rivolta di una gioventù emarginata, che scatenava la propria rabbia per una condizione umiliante, senza prospettare obiettivi diversi dal gesto distruttivo. L’esplosione dei gilet gialli è tutt’altra cosa: è stata innescata da persone con una età centrale, che lavorano con impieghi precari o di reddito medio e medio- basso, e residenti in centri minori. Il profilo di un elettorato medio, non di giovani arrabbiati. Siamo di fronte a un movimento sociale ancora senza capi , né coordinamento centrale, e al quale suppliscono i social media che consentono un’organizzazione reticolare e in tempo reale. La protesta ha comunque un obiettivo preciso, l’establishment. « Macron dimissioni » è l’unico slogan comune. Per il resto, i gilet gialli, coniugano ispirazioni identitarie e populiste con rivendicazioni sociali, aggressività machista con domande di riconoscimento della loro " diversità sociale" rispetto alle élite. E alla radice di tutto c’è la sensazione della perdita di status e di futuro; e che nessuno ascolti e comprenda le loro ragioni. Nemmeno le opposizioni (per ora) sono in grado di rappresentare questo movimento. Lo stesso sentimento di abbandono percorre anche gli italiani, come dimostra lo studio del Censis appena pubblicato. Non a caso, nel nostro Paese, per molto tempo fino a pochi mesi fa, la voglia di rivoluzione (letteralmente, come indicano i dati Swg) ha superato l’orientamento favorevole alle riforme. Eppure non è nato alcun movimento di protesta analogo a quello dei gilet gialli , né è probabile che questo avvenga. Questo perché negli ultimi anni molti attori politici hanno rappresentato, con diversa credibilità, l’anti- establishment. La pulsione al cambiamento radicale è stata interpretata da tutti coloro che si sono posti in contrasto con il passato. Se tracciavano una linea di demarcazione tra loro e chi li aveva preceduti, diventavano, ipso facto, credibili. Così è successo a Renzi che ha tratto grande impulso dalla sua demolizione dell’establishment del Pd. Solo che, esaurita la pars destruens, l’aura del vincitore si è trasformata nella zavorra del governante ( per di più , saccente). Anche a lui sono state inflitte tutte le stimmate che spettano a chi entra nel Palazzo. Così sta accadendo ai 5Stelle, espressione massima dell’anti- establishment al potere. Il loro pessimo esordio nella stanza dei bottoni scontenta un po’ tutti. Si vedono già i primi segni di un declino che diventerà rovinoso nel momento in cui risuoneranno nei social e nelle strade le accuse di tradimento. Le aspettative suscitate da anni di opposizione assoluta, intessuta da promesse mirabolanti, si ritorceranno come un boomerang nei loro confronti. Va comunque riconosciuto che l’insoddisfazione profonda e di lungo periodo degli italiani non è sfociata in proteste violente perché si è indirizzata verso i 5Stelle i quali ne hanno dato uno sbocco politico- parlamentare. Nemmeno il loro fallimento, però, scatenerà "la piazza" perché della crisi dei pentastellati trarrà profitto chi, sornione e navigato, ha evitato di prendere rischi. La Lega è pronta a raccogliere, e gestire, il vento della protesta, eventualmente disarcionando gli attuali alleati.

Repubblica 10.12.18
La polemica
L’educazione civica all’odio
di Chiara Saraceno


Giusto preoccuparsi che si imparino fin da bambini le regole della convivenza civile, quindi innanzitutto del rispetto per gli altri, dell’impegno per il bene comune, e che si arrivi all’età adulta avendo una conoscenza degli istituti che regolano la nostra democrazia e dei princìpi fondamentali della Costituzione. È un tema che viene periodicamente sollevato, specie da quando è stata accantonata per manifesta inutilità l’ora di educazione civica a scuola. È anche stato ed è oggetto di molte iniziative, norme, proposte di legge. Sarebbe, anzi, opportuno effettuare una ricognizione sistematica per verificare sia i contenuti di queste iniziative sia la loro efficacia. Come spesso succede, invece, è più facile, dà più visibilità, formulare un nuovo progetto, una nuova proposta di legge. Tocca ora, dopo l’Anci, alla Lega di governo, con la proposta di legge intesa a introdurre un’ora obbligatoria di educazione civica dal primo anno di scuola dell’infanzia fino al termine della scuola media superiore. Sarebbe normale routine parlamentare, se non fosse che tra i firmatari, accanto al ministro dell’Istruzione, ci sono il ministro dell’Interno e quello della Famiglia. Il ministro che più abusa del linguaggio dell’odio e sottopone i propri oppositori alla gogna pubblica, che dileggia i migranti sui barconi, incoraggia la discriminazione nei confronti degli stranieri non comunitari, anche se legalmente residenti, in nome della famiglia naturale nega ai figli di coppie dello stesso sesso il diritto ad avere due genitori. E il ministro che ha fatto della difesa della cosiddetta famiglia naturale e dell’attacco a ogni iniziativa scolastica che insegni il rispetto per le differenze di sesso e genere una delle proprie bandiere. Vista l’idea di "rapporti civili" e di "rispetto" dimostrata da almeno due dei proponenti, viene da chiedersi che idea di "convivenza civile" abbiano in mente, e dove pongano il confine sul rispetto dei valori costituzionali e della stessa legalità. Il rispetto, il dialogo, la legalità varranno solo tra autoctoni, eterosessuali, cattolici praticanti (ma non ecumenici)? Bisognerà insegnare che chi appartiene a una famiglia "non naturale", o è omosessuale, o, a prescindere dall’orientamento sessuale, non si comporta da " vero uomo" o " vera donna", o ha abitudini diverse dalla maggioranza va condannato, o comunque può essere discriminato o insultato impunemente? Che il mondo si divide in " noi" e " loro"? Anche concedendo il beneficio del dubbio, non credo che per raggiungere l’obiettivo di formare cittadini civili e informati l’ora obbligatoria di educazione civica sia il mezzo più efficace. Tanto più se in essa vengono inseriti i contenuti più vari, dall’educazione stradale alla conoscenza della Costituzione, con il rischio di farla diventare un contenitore insieme residuale e generico, da cui pescare casualmente a seconda dell’interesse del docente responsabile. Meglio focalizzarsi allora — per i ragazzi più grandi — sulla conoscenza non mnemonica della Costituzione, dei valori che l’hanno ispirata, di come trova o non trova attuazione in una società in cambiamento. L’educazione al rispetto, non solo delle regole, ma di sé e degli altri, dovrebbe invece essere trasversale ai processi formativi, non affidata a una particolare materia. Certamente è insensata una materia ad hoc per i più piccoli, già esposti, ahimè, a lezioni di religione o " materia alternativa" di cui è difficile capiscano il senso, salvo quello di una prima distinzione tra "noi" e "loro".

Repubblica 10.12.18
Fare i conti con il deficit di natalità
di Alessandro Rosina


C’è un target vitale per la solidità del futuro dell’Europa, pari a 2,1, che nessuno Stato membro da molto tempo rispetta. Non si tratta del valore del rapporto deficit/Pil ma del numero medio di figli per donna. Tale target corrisponde all’equilibrato rimpiazzo generazionale. La discesa sistematica della fecondità sotto 2,1 si situa tra fine anni Sessanta e inizio anni Ottanta nell’Europa occidentale (la Svezia nel 1969, la Spagna nel 1981).
Nell’Europa orientale il crollo della fecondità arriva invece un po’ più tardi, dopo lo sgretolamento del blocco sovietico. Oggi il valore medio dell’Unione è pari a 1,6. Una fecondità così bassa porta le generazioni dei figli a ridursi progressivamente rispetto a quelle dei genitori. La conseguenza maggiore non è tanto la diminuzione della popolazione ma un’alterazione nell’impianto strutturale demografico con il peso dei più anziani che diventa preponderante sui più giovani.
In un Paese che mantiene una fecondità vicina al rimpiazzo generazionale, l’aumento della longevità fa conquistare gradualmente anni di vita in età avanzata senza far mancare la forza di sostegno della popolazione in età attiva.
Se invece la fecondità rimane sensibilmente sotto la soglia di 2,1, il costo dell’aumento della longevità (in termini di previdenza e salute pubblica) diventa sempre meno sostenibile, perché la denatalità va ad erodere l’asse portante della popolazione attiva, indebolendo così la capacità del Paese di produrre ricchezza e benessere.
Una misura dello squilibrio demografico derivante da tale processo è l’indice di dipendenza degli anziani (rapporto tra numero di persone over 65 con quelle in età lavorativa), che risulta particolarmente elevato in Europa ed è destinato a salire ulteriormente, secondo le previsioni Eurostat (compresa anche l’immigrazione), dal 30% attuale a oltre il 50% entro la metà del secolo.
Possiamo considerare tale indice come l’equivalente demografico del debito pubblico: il suo aumento rende più instabile un Paese e riversa costi sul futuro (a carico delle nuove generazioni). Inoltre, se il deficit (divario annuale della spesa rispetto alle entrate di uno Stato) alimenta il debito pubblico, così la distanza del numero medio di figli per donna dalla soglia di rimpiazzo generazionale spinge al rialzo il tasso di dipendenza degli anziani.
Ma non esiste nessun patto di Stabilità che impegni gli Stati membri a contenere questo divario. Se definiamo "deficit demografico" quanto la fecondità di un Paese si trova sotto la soglia di equilibrio di 2,1, otteniamo un quadro molto articolato: alcuni Stati si discostano di poco, altri hanno attivo un percorso di recupero, altri rimangono su valori lontani.
Al primo gruppo appartengono Francia e Svezia, con un deficit demografico attorno a 0,2. Rientra invece nel secondo gruppo la Germania, che in pochi anni ha ridotto il deficit da oltre 0,7 a 0,5. Italia e Spagna presentano invece valori persistentemente tra i peggiori in Europa, con una distanza dalla soglia di equilibrio superiore a 0,75.
Un patto europeo per politiche che impegnino al miglioramento su questo indice aiuterebbe a fornire il ritratto di una Unione non solo interessata ai parametri finanziari, ma anche a rafforzare il modello sociale comune e il benessere delle famiglie. Il miglioramento della natalità, del resto, si realizza assieme anche al potenziamento della condizione giovanile e dell’occupazione femminile, come dimostrano politiche di successo attuate in vari Paesi. Senza intervenire su questo deficit sarà in ogni caso sempre più difficile in futuro tenere in equilibrio gli stessi conti pubblici.

Repubblica 10.12.18
L’appello promosso da Thomas Piketty
Una Ue sovrana e più giusta
Thomas Piketty, economista francese, è tra i firmatari dell’appello.

L’elenco completo è su www.tdem.eu

Noi, cittadini europei, provenienti da contesti e Paesi diversi, lanciamo oggi questo appello per una profonda trasformazione delle istituzioni e delle politiche europee. Questo Manifesto contiene proposte concrete, in particolare un progetto per un " trattato di democratizzazione" e un "progetto di budget" che può essere adottato e applicato nella sua forma attuale dai Paesi che lo desiderino, senza che nessun altro Paese possa bloccare quanti aspirino al progresso. Può essere firmato online ( www. tdem. eu) da tutti i cittadini europei che in esso si riconoscono. Può essere modificato e migliorato da qualunque movimento politico. Dopo la Brexit e l’elezione di governi antieuropeisti a capo di diversi Paesi membri, non è più pensabile continuare come prima. Non possiamo limitarci ad aspettare le prossime uscite o un ulteriore smantellamento senza apportare cambiamenti radicali all’Europa di oggi.
Oggi, da un lato il nostro continente è intrappolato tra movimenti politici il cui programma si limita alla caccia a stranieri e rifugiati, programma che ora hanno iniziato ad attuare; dall’altro, vi sono partiti che si dichiarano europei, ma che in realtà sono ancora convinti che il liberalismo di base e la diffusione della concorrenza a tutti (Stati, imprese, territori e individui) siano sufficienti a definire un progetto politico. Non riconoscono in alcun modo che è esattamente questa mancanza di ambizione sociale che conduce al sentimento di abbandono. Le nostre proposte si basano sulla creazione di un budget per la democratizzazione che verrebbe discusso e votato da un’Assemblea europea sovrana. Questo consentirà finalmente all’Europa di dotarsi di un’istituzione pubblica in grado di far fronte immediatamente alle crisi in Europa e di produrre un insieme di beni e servizi pubblici e sociali fondamentali nel quadro di un’economia duratura e solidale. In questo modo, la promessa fatta fin dal Trattato di Roma di « armonizzazione delle condizioni di vita e di lavoro » diventerà finalmente significativa. Questo budget, se l’Assemblea europea lo desidera, sarà finanziato attraverso quattro grandi imposte europee, segni tangibili di questa solidarietà europea. Esse si applicheranno agli utili delle grandi imprese, ai redditi più alti ( oltre 200.000 euro all’anno), ai maggiori possessori di patrimoni ( oltre 1 milione di euro) e alle emissioni di anidride carbonica ( con un prezzo minimo di 30 euro per tonnellata). Se fissato al 4% del Pil, come proponiamo, questo stanziamento potrebbe finanziare la ricerca, la formazione e le università europee, un ambizioso programma di investimenti per trasformare il nostro modello di crescita economica, il finanziamento dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti e il sostegno a coloro che si occupano di attuare la transizione. Potrebbe inoltre lasciare agli Stati membri un certo margine di bilancio per ridurre l’imposizione fiscale regressiva che grava sui salari o sui consumi. La questione qui non è quella di creare una " Europa dei bonifici" che tenti di prelevare denaro dai paesi " virtuosi" per destinarlo a quelli che lo sono meno. Il progetto per un "trattato di democratizzazione" lo afferma esplicitamente, limitando il divario tra le spese dedotte e le entrate versate da un Paese a una soglia dello 0,1% del proprio Pil. Il vero problema è altrove: si tratta innanzitutto di ridurre le disuguaglianze all’interno dei diversi Paesi e di investire nel futuro di tutti gli europei, a cominciare naturalmente dai più giovani, con nessun singolo Paese che goda di preferenze. Poiché dobbiamo agire rapidamente, ma dobbiamo anche far uscire l’Europa dall’attuale impasse tecnocratica, proponiamo la creazione di un’Assemblea europea. Questo permetterà di discutere e votare queste nuove imposte europee come anche il budget per la democratizzazione. Questa Assemblea europea può essere creata senza modificare i trattati europei esistenti. L’Assemblea europea dovrebbe ovviamente comunicare con le attuali istituzioni decisionali (in particolare con l’Eurogruppo in seno al quale i ministri delle finanze della zona euro si riuniscono informalmente ogni mese). Ma, in caso di disaccordo, l’Assemblea avrebbe l’ultima parola. Se così non fosse, la sua capacità di essere sede di un nuovo spazio politico transnazionale in cui partiti, movimenti sociali e Ong potrebbero finalmente esprimersi sarebbe compromessa. Allo stesso modo, sarebbe a rischio la sua effettiva efficacia, dal momento che la questione è quella di liberare finalmente l’Europa dall’eterna inerzia dei negoziati intergovernativi. Dobbiamo ricordare che la regola dell’unanimità fiscale in vigore nell’Unione europea blocca da anni l’adozione di qualsiasi imposta europea e sostiene l’eterna evasione nel dumping fiscale dei ricchi e dei più mobili, una pratica che continua ancora oggi nonostante tutti gli interventi. Questa situazione si protrarrà nel caso in cui non vengano stabilite altre regole decisionali. Riunendo i parlamentari nazionali ed europei in un’unica Assemblea, si creeranno abitudini di co- governance che al momento esistono solo tra i capi di Stato e i ministri delle Finanze. Per questo motivo proponiamo nel "trattato di democratizzazione" che l’80% dei membri dell’Assemblea europea provenga da membri dei parlamenti nazionali dei paesi firmatari del trattato ( in proporzione alla popolazione dei Paesi e dei gruppi politici), e il 20% dall’attuale Parlamento europeo ( in proporzione ai gruppi politici). Questa scelta merita di essere ulteriormente discussa. In particolare, il nostro progetto potrebbe funzionare anche con una percentuale inferiore di parlamentari nazionali (ad esempio il 50 per cento). Ora dobbiamo agire rapidamente. Se da un lato sarebbe auspicabile che tutti i paesi dell’Unione europea aderissero senza indugio a questo progetto e benché sia preferibile che i quattro maggiori Paesi della zona euro (che insieme rappresentano oltre il 70% del Pnl e della popolazione della zona euro) lo adottino fin dall’inizio, il progetto nel suo complesso è stato concepito per essere adottato e applicato da qualsiasi sottoinsieme di Paesi che lo desiderino. Questo punto è importante perché consente ai Paesi e ai movimenti politici che lo desiderino di dimostrare la propria volontà di compiere progressi ben precisi adottando questo progetto, o una sua versione migliorata, fin da subito. Invitiamo ogni uomo e ogni donna ad assumersi le proprie responsabilità e a partecipare a una discussione articolata e costruttiva per il futuro dell’Europa.

Corriere 10.12.18
Oggi la consegna
Il Nobel a Nadia Murad Ma i premi non bastano
di Viviana Mazza


L’attivista yazida Nadia Murad riceverà oggi, insieme al medico congolese Denis Mukwege, il Nobel per la Pace, ma la sua comunità di 500 mila persone, vittima di un genocidio dell’Isis nel 2014 e ora divisa tra i campi profughi d’Iraq e la Germania, non può tornare a casa. Quattro anni dopo, i villaggi yazidi nel nord dell’Iraq restano in rovina. Cinquemila morti, tra cui sua madre e i suoi fratelli, giacciono nelle fosse comuni, mentre centinaia di donne e bambini rapiti sono ancora dispersi. Nessuna organizzazione internazionale ha provveduto a rimuovere le mine, né ad esumare e identificare i corpi. Nessuno è stato punito per gli stupri, ricorda Nadia. A che servono i premi quando manca la giustizia? L’abbiamo chiesto a Shirin Ebadi, avvocata costretta a lasciare il suo Iran dopo aver vinto il Nobel per la Pace: «I premi sono un segno di rispetto per le attività di una persona, per il punto al quale è arrivata. Dicono a chi combatte per i diritti che non è solo». Quattro anni dopo un’infinita serie di discorsi, dall’Onu ai parlamenti di mezzo mondo, e di interviste in cui viene costretta a rivivere le violenze sessuali subite, Nadia continua la sua estenuante battaglia, come racconta il film «Sulle sue spalle» di Alexandria Bombach. I premi? Servono, ma non sono abbastanza. «Abbiamo bisogno di avere giustizia un giorno» dice la 25enne che voleva una vita semplice e un lavoro in un salone di bellezza, ma è stata catapultata nel mondo della difesa dei diritti.

Corriere 10.12.18
La filosofa Julia Kristeva
«La mia Europa senza più padri»
di Stefano Montefiori


«la grande sconfitta, nella cacofonia mondiale delle nazioni oggi, è l’Europa»: la filosofa Julia Kristeva, in un’intervista al Corriere, riflette sulla crisi politico-ideale del continente.
Parigi «La cultura europea esiste, la sua lingua è il multilinguismo, e il comune denominatore è la cultura dell’individuo, della nazione, della politica. Sono creazioni giudaico-cristiane, che si sono sviluppate nel tempo e che non sono culti ma aperture fragili. Il grande problema oggi è come armonizzare queste culture nazionali. Tutto il mio lavoro di intellettuale, ovvero psicoanalista, romanziera, filosofa, semiologa, affronta questo argomento». Incontriamo Julia Kristeva nella sua casa di Parigi, due giorni prima della visita a Milano e della laurea honoris causa alla Iulm, per anticipare i temi del suo intervento. Inevitabile che la cultura e l’Europa si intreccino con gli avvenimenti appena vissuti da Parigi e della Francia: la rivolta dei gilet gialli e la crisi della politica.
Come giudica lo stato attuale della cultura europea?
«Intanto, è già un punto di partenza affermare, come io mi sento di fare, che una cultura europea esiste. Quando ho accettato la proposta di venirne a parlare a Milano, tutti sapevamo che la grande sconfitta, nella cacofonia mondiale delle nazioni oggi, è l’Europa. Ma non eravamo ancora in questa situazione di crisi violenta. Quel che è appena accaduto a Parigi a mio avviso è un avviso di tempesta per tutta l’Europa, non solo per la Francia».
In tempo di conflitto aperto tra sovranisti e élite vengono subito in mente le critiche degli esclusi: facile parlare di cultura europea per chi è abituato a prendere aerei per visitare mostre a Venezia e Firenze o per passare qualche giorno nel proprio pied-à-terre a Parigi. E gli altri?
«Io ho una visione della cultura molto più larga. La cultura è una concezione dell’individuo, uno sguardo sulla singolarità di ciascuno, una cultura di patto nazionale, che si interessa alla diversità delle lingue e alla nozione di felicità, di valore, di progetto ideale per l’avvenire. Questa cultura non è affatto elitista e riguarda anche il contadino e l’artigiano».
Anche quelli che da quattro sabati manifestano a Parigi e nel resto della Francia?
«Non possiamo neanche sperare di risolvere la crisi dei gilet gialli se non ci affidiamo alla filosofia e alla sociologia per affrontare la questione del senso delle persone, della nazione, degli ideali, del futuro».
Eppure le rivendicazioni dei gilet gialli sono molto concrete: chiedono meno tasse e più potere d’acquisto.
«Certo, e io credo che il governo debba senz’altro mettere mano alla cassa e soddisfare almeno una parte delle loro richieste. Non voglio dare l’impressione di stare sulle nuvole, cominciamo con i piedi per terra e diciamo che adesso è il momento di aprire il portafogli. Fatto questo primo passo necessario ma insufficiente, dobbiamo resistere alla tentazione di considerare gli scontenti solo come consumatori in difficoltà, perché sotto c’è un malessere molto più profondo».
A che cosa si riferisce?
«Alla fine della politica per come la conosciamo da oltre due secoli. Una cosa è successa molto tempo fa in Europa, e solo in Europa: la rottura del filo della tradizione religiosa. Con la Rivoluzione francese — né dio né padrone — abbiamo cancellato dio, tagliato la testa al re e messo al loro posto l’ideologia dell’umanesimo, che ha finito per diventare un valore astratto. La politica è diventata la nuova religione, con l’idea che la democrazia rappresentativa possa risolvere i problemi della felicità, della morte, dell’avvenire, l’inferno e il paradiso qui sulla Terra. Abbiamo dato alla politica responsabilità enormi, e questo modello è crollato con la Shoah e i gulag. Sopravvive a stento un’idea più ridotta della politica come gestione dell’esistente, gestione che è comunque soffocata dalla finanziarizzazione dell’economia e della rivoluzione digitale. In questo stato di cose la politica si riduce a showbiz o carnevale. Donald Trump ne è l’espressione, e infatti arriva ad adattarsi alla situazione meglio degli altri».
Che cosa significa la politica come gestione?
«È una politica dell’impotenza, della contabilità, in cui fingiamo di credere che il problema sia davvero l’aumento del prezzo del diesel. Lo è ma solo in parte, e infatti anche quando l’aumento viene ritirato le proteste continuano. Ci troviamo in una specie di tardo Medioevo, quando uno dei miei grandi punti di riferimento, Duns Scoto, disse che non ci sono altri valori se non questo uomo, questa donna. Non i grandi ideali, non la materia, ma la persona. Solo che dopo il tardo Medioevo arrivò il Rinascimento, e un passaggio simile mi sembra ancora molto lontano da noi».
Quali caratteristiche hanno queste persone, in Francia e nel resto d’Europa?
«I cosiddetti perdenti della globalizzazione sono mal pagati ma soprattutto frustrati, la rivoluzione digitale li rende onnipotenti in teoria ma non nella pratica. Vogliono rompere questo ordine ma per adesso non hanno alternative da proporre. Invocano le dimissioni di Macron, ma allo stesso tempo dicono che con un altro al suo posto le cose non cambierebbero. Qui arriviamo alla nozione di popolo. Robespierre diceva che il popolo ha sempre ragione, invece per Wilhelm Reich certe masse vogliono il fascismo. Tra queste due visioni estreme e opposte bisognerebbe provare a rispondere alle emozioni insoddisfatte e agli ideali senza risposta. Magari ricorrendo alle categorie della psicoanalisi».
Qui entra in gioco il suo lavoro di psicoanalista. In che modo?
«Sento molte persone ripetere che vorrebbero un presidente “padre della nazione”. È una frase molto interessante per una psicoanalista perché la famiglia è in crisi di ricomposizione e siamo tutti alla ricerca del padre perduto. Gli unici padri oggi in politica sono un po’ clowneschi come Trump, o i dittatori. Quel che succede invece è che i nostri governanti giocano con la figura del fratello».
Cioè i presidenti di oggi non sono più padri della nazione ma fratelli?
«Sì, e il fratello è una figura importante nell’evoluzione di un individuo. Gli adolescenti sono tutti fratelli e condividono passioni reversibili, amore che diventa odio e viceversa. Questa reversibilità si chiama omoerotismo — che non significa omosessualità — e innamoramento. E lo abbiamo visto benissimo con il presidente Macron: adorato all’improvviso, e altrettanto repentinamente odiato».
Lo accusano di tutto: di parlare troppo o troppo poco, di essere troppo arrogante o troppo amichevole.
«Perché parla un linguaggio di vicinanza, tattile, sia con i pregiudicati delle Antille sia con i disoccupati che lo avvicinano per strada. Pensa forse che questa vicinanza tattile risponderà alle angosce delle persone ma no, al contrario, le fomenta. Resta nella reversibilità adolescenziale di amore e odio. I cittadini non capiscono il leader che gioca al loro livello, prendono questa familiarità per arroganza. Ma come Macron fanno molti altri. I leader attuali sono fratelli, non padri. Tra fratelli ci si ama e ci si odia, senza sosta. È una parte di noi che sopravvive. Tra colleghi, amici, uomo e donna, giochiamo al gatto e topo. Ma il campo politico non deve ridursi a questo. E i fratelli tradizionali in politica non ci sono più».
A che cosa si riferisce?
«Alle tipiche fraternità che sono i corpi intermedi, i sindacati, le organizzazioni non governative, le associazioni, la scuola, la Chiesa, l’esercito. Tutte queste istituzioni sono in crisi ovunque e alcuni presidenti, come il nostro in Francia, hanno diminuito il loro peso pensando che il capo dello Stato fratello avrebbe potuto fare tutto, occupare tutti quei ruoli. Non è così».
Quanto sono importanti i social media?
«Molto, perché la debolezza della politica e del capo dello Stato che non è più il padre della nazione si abbina a una interconnessione continua. Questa interconnessione digitale genera identità liquide, le persone non sanno neanche più come definirsi. C’è un odio che poi si diffonde al mondo reale».
Che cosa dovrebbe fare oggi un leader politico?
«Ovviamente non oso proporre soluzioni, i miei sono contributi alla riflessione, e poi non voglio essere troppo critica con Emmanuel Macron. Nel suo discorso all’inizio della crisi a un certo punto ha detto che la risposta sarebbe stata “la declinazione del pragmatico”. Ma cosa vuol dire? C’è troppa tecnica e troppa freddezza. Direi che la politica dovrebbe non occuparsi più solo della contabilità ma anche della cultura, intesa come educazione e accompagnamento, magari partendo dai valori ancestrali del cristianesimo, dell’islam e del giudaismo. La questione adesso è interagire con persone che non credono a niente».

Il Fatto 10.12.18
Il sociologo Marco Revelli
“Il fronte No Tav era un po’ stanco. Le madamine lo hanno svegliato”
intervista di Stefano Caselli


“Le madamine hanno svegliato il leone, hanno ridato una carica di orgoglio e di senso di mobilitazione in una valle che dopo un quarto di secolo rischiava senza dubbio di affidarsi a un meccanismo di delega. Una certa stanchezza era ormai fisologica, anche rispetto alla constatazione che la controparte non si muoveva di un millimetro. Il 10 novembre ha risvegliato molte energie”. Alla fine, dunque, il sociologo Marco Revelli, storico sostenitore del movimento NoTav, finisce per ringraziare la manifestazione pro Sì delle ormai celebri “madamine”. Senza di loro la grande marcia di sabato a Torino non sarebbe riuscita così bene.
Professor Revelli, lei a novembre coniò l’immagine di una “piazza della città perduta tradita dagli imprenditori”. Per quella di sabato invece, che parole sceglie?
Devo dire che ho visto una piazza che veicolava un forte messaggio di speranza e di futuro. Una piazza giovane – al contrario di quella del 10 novembre – sostanzialmente refrattaria alle semplificazioni e agli slogan, con un forte bisogno di verità di fronte alle tante post verità che hanno invaso in questo mese le pagine dei principali quotidiani italiani, piene di manipolazioni di dati e di artificiose operazioni di storytelling. La piazza di sabato invocava semplicemente il rispetto dei fatti: le basi statistiche su cui il progetto Tav fu concepito si sono rivelate infondate, i volumi di traffico non sono cresciuti e i costi, alla fine, saranno insostenibili, senza contare l’impatto sul sistema idrogeologico delle valli. Sabato il sindaco di un Comune francese, dove stanno scavando una galleria di servizio come quella di Chiomonte, ci ha raccontato che il suo paese è praticamente senz’acqua. Ma in piazza c’era soprattutto un clima di serenità, non c’è stato nemmeno uno slogan aggressivo o volgare.
Quindi da una parte il male e dall’altra il bene? O qualche sfumatura possiamo concederla?
Io non idealizzo nessuno. Mi limito ad osservare cha da una parte c’era l’espressione di un sistema che ha fallito nella gestione di questo territorio e che, piaccia o no, ne rappresenta il declino: quasi una manifestazione da ancien régime nel senso ottocentesco del termine, in cui mi è parso di vedere soprattutto corporazioni che rivendicavano risorse pubbliche per uso privato, che non hanno saputo innovare e che pensano che l’indotto del tunnel di base del Tav possa portare loro qualcosa. Dall’altra, invece, c’era una piazza che non pretende di avere una soluzione in tasca, ma che cerca una via alternativa al buco in cui si è cacciato questo territorio, soprattutto per non pagare il prezzo di errori commessi da altri.
Dal fronte del Sì si è detto che il 10 novembre è stata una manifestazione al 100% torinese, a differenza di quella di sabato.
Non trovo negativo che ci fossero, per esempio, il vicesindaco di Napoli e delegazioni di altri territori che cercano di difendersi da situazioni simili. Sicuramente c’era una forte componente valsusina, ma senza la mobilitazione di Torino a certi numeri – fossero 50 o 100 mila non importa – non ci si arriva. Personalmente ho visto una partecipazione che è andata molto al di là delle aspettative.
Quali saranno le conseguenze politiche? Chi ne trarrà beneficio?
È bene che il fronte che resiste al Tav non si illuda e non segua troppo le beghe interne al governo. E poi, francamente, non era una piazza a 5 stelle, era una piazza senza padroni.
Senza padroni ma decisamente di sinistra. O no?
Ormai fatico a individuare cosa sia la sinistra. Certo, era una piazza che condivideva una serie valori che erano stati della sinistra. Una piazza orfana della sinistra, questo sì.
Dia una sua personale previsione. Tra cinque anni il Tav Torino Lione sarà…?
Spero che tra cinque anni il progetto sia finito in soffitta, sarebbe un segnale di razionalità. Ma viviamo in un mondo totalmente irrazionale che forse saremo ancora a discutere sulle discenderie.

Corriere 10.12.18
Il sovraffollamento nelle carceri italiane, scandalo dimenticato
di Luigi Ferrarella


Ora tutti a (giustamente) scandalizzarsi che nella discoteca di Ancona, per una notte, 680 biglietti fossero stati venduti ai ragazzini a fronte di soli 469 posti. Eppure nessuno si scandalizza per lo Stato che (solo grazie ai miracoli di agenti penitenziari, direttori e volontari) in 50.583 posti di 190 carceri stipa 60.002 detenuti, dei quali peraltro 1 su 6 in attesa della prima sentenza e dunque non necessariamente fuorilegge come lo Stato che lo rinchiude.
Disattenzione pari alla progressione: scesi dal picco di 67.691 nel 2010 al minimo di 52.164 nel 2015 dopo le condanne europee dell’Italia per «trattamenti inumani e degradanti», i detenuti sono ricominciati a risalire a dispetto della narrazione di alcuni magistrati da talk-show e dei loro house-organ sul fatto che in Italia nessuno finisca in carcere: a fine 2017 erano 57.608, ora sono già tornati al livello dei 60.197 di fine marzo 2014.
Lo sbilancio tra detenuti e posti, che a inizio anno era di 7.160, a fine marzo è diventato 7.610, a settembre 8.653, adesso è 9.419 (cioè 2.341 in più in 11 mesi). E dalla capienza teorica di 50.583 si dovrebbero sottrarre i posti inagibili, il cui numero varia ma che ad esempio nella rilevazione del Garante dei detenuti del 23 febbraio ammontavano a ben 4.700, il che porterebbe il sovraffollamento reale quotidiano non a 9.419 detenuti, ma a 14.000 persone. Fra le quali, non a caso, si sta per raggiungere il record drammatico di 66 suicidi nel 2011, numero già oggi molto superiore (61) alla già alta media annuale (51) dei suicidi in cella tra il 1992 e il 2017.

Repubblica 10.12.18
 Il viaggio diplomatico
Ma in Israele la sua visita è un caso: " Sta con l’ultradestra"
Il quotidiano Haaretz: "Il presidente Rivlin non lo incontrerà". Cento ebrei italiani: " Condanni le forze antisemite"
di c.l.


Roma Matteo Salvini è in partenza per Gerusalemme, missione di due giorni che si concluderà martedì con l’incontro col primo ministro Benjamin Netanyahu. Ma il vicepremier italiano non vedrà il presidente dello Stato d’Israele Reuven Rivlin. Il quotidiano Haaretz ha collegato l’appuntamento mancato alle recenti dichiarazioni alla Cnn con cui il presidente, pur senza mai citare la Lega, ha detto che un movimento neo- fascista non dovrebbe essere ben accetto in Israele: « Tu non puoi dire " ammiriamo Israele e vogliamo legami stretti ma siamo neo- fascisti" » . Il quotidiano israeliano, in un editoriale, ha rincarato: «Salvini dovrebbe essere persona non gradita in Israele». Tutto questo accade mentre a Roma, con una lettera aperta, cento ebrei italiani invitano il leader della Lega a « una condanna ferma degli atti di antisemitismo e di rimozione della memoria».
Nel tentativo di smorzare il caso, in Israele interviene il portavoce di Rivlin, Jonathan Cummings, che all’Ansa fa sapere che l’incontro col ministro dell’interno italiano « non è possibile per problemi di agenda» del presidente israeliano. Fonti del Viminale prendono atto della precisazione e sottolineano come «il colloquio tra i due non era mai stato previsto: il presunto sgarbo del presidente Rivlin è frutto di una fantasiosa ricostruzione di un quotidiano israeliano di sinistra. Salvini vedrà il premier e due ministri (Pubblica Sicurezza e Giustizia) a prova dei rapporti cordiali e distesi con Tel Aviv. L’obiettivo condiviso è di rafforzarli ulteriormente». Lettura confermata da Avi Pazner, ex ambasciatore di Israele in Italia, che all’Adnkronos dichiara che «Salvini sarà ricevuto con amicizia e onore in Israele ». Oltre a incontrare Netanyahu, il ministro dell’Interno visiterà domani lo Yad Vashem, il memoriale dell’Olocausto, e la sinagoga italiana di Gerusalemme. Non basta, secondo un centinaio di ebrei italiani tra i quali Gad Lerner, Michele Sarfatti, Giorgio Gomel, Anna Foa, Luca Zevi. Sottoscrivono una lettera in cui si dicono « preoccupati per l’acuirsi di forme di intolleranza in Italia come altrove». E chiedono al vicepremier la condanna degli atti di antisemitismo « in movimenti e partiti della destra etno- nazionalista in Italia e in Europa » , degli « atti aggressivi » contro le comunità Rom e Sinti e «di razzismo contro stranieri e migranti».

Il Fatto 10.12.18
Il governo spagnolo è socialista?
“Altro che governo di sinistra: Sanchez espelle e deporta”
Le mujeres portadores
di Pierfrancesco Curzi

Gabriel ha 22 anni ed è arrivato a Ceuta dalla Guinea Conakry dopo un viaggio lungo due anni. Il 26 luglio scorso, assieme ad altri 602 migranti, per lo più subsahariani, è riuscito a valicare i due reticoli, alti sei metri e lunghi otto chilometri, che sigillano l’enclave spagnola dal Marocco. La più grande evasione al contrario che si ricordi tra Ceuta e Melilla, l’altra città iberica autonoma incastonata nella costa mediterranea. Africa ed Europa, inferno e purgatorio. Addosso, sulle gambe di Gabriel, le unghiate del filo spinato penetrato nella carne. Lo incontriamo davanti al centro d’accoglienza Ceti (Centro temporaneo per i migranti) e da lì, in autobus, arriviamo fino al varco frontaliero occidentale di Benzù, chiuso dal 2004. Sopra si erge, maestosa, la montagna della Mujer muerta, come la definiscono gli spagnoli di Ceuta: “Ci siamo nascosti per mesi nella Grande forêt (il bosco tra Fnideq e Castillejo in territorio marocchino a pochi chilometri dalla frontiera), poi quella notte il grande salto. Avvicinandoci verso la recinzione dal bosco, ci hanno consigliato di vestirci di scuro e di non alzare mai gli occhi al cielo quando sentivamo gli elicotteri della Guardia Civil, altrimenti avrebbero notato gli occhi e i denti bianchi. Da allora vivo dentro il Ceti in attesa del lascia-passare per la penisola. A casa, in Guinea, ho solo due sorelle, i genitori sono morti, se mi dovessero riportare lì sarebbe una sconfitta”.
Il Ceti è vicino ad un circolo di equitazione. Il recinto dello sgambatoio guarda sopra le baracche del Centro temporaneo dove i migranti possono uscire dalle 8 e rientrare entro le 23. Si avvicina un ragazzo del Camerun, Steven: “Sono mesi che aspetto il lascia-passare. Ormai non vado quasi più in città, che è a tre chilometri a piedi da qui. Giriamo come fantasmi, la gente ci schifa e la polizia non è buona con noi. Ogni scusa è buona per fermarci e, in molti casi, attaccarci”.
“Mi vida la déjé entre Ceuta y Gibraltar…”, “ho lasciato la mia vita tra Ceuta e Gibilterra” canta Manu Chao nella sua storica hit dal titolo emblematico, Clandestino. Per la prima volta, proprio nel 2018, la Spagna ha superato l’Italia per numero di sbarchi dalle coste nordafricane: dal 1° gennaio alla fine di novembre oltre 55mila persone sono state registrate dal governo spagnolo, contro le 22mila in Italia. Con la rotta libica resa impraticabile dal blocco delle partenze dei barconi e circa 700mila richiedenti asilo ingabbiati, il flusso di disperati si sta spostando ad ovest, attraverso Algeria e Marocco.
Il clamoroso tentativo di fine luglio è stato uno smacco per le super-attrezzate autorità frontaliere spagnole, dotate di telecamere termiche capaci di individuare la presenza di persone a chilometri di distanza. Un episodio eclatante, al punto da spingere il premier socialista Pedro Sanchez, in sella dal 2 giugno 2018, a praticare espulsioni e respingimenti in Marocco: “Il governo di Madrid ha mostrato la sua vera faccia – attacca Reduan Halid, attivista per i diritti umani e membro della piattaforma Alarm Phone –, riesumando un vecchio accordo del 1992 siglato dall’allora premier Felipe Gonzalez e dal re Hassan II: consente le deportazioni di migranti in caso di presunte violenze. Il 26 luglio le autorità hanno parlato di una ventina di agenti e militari feriti, di calce viva lanciata dai migranti contro di loro. I feriti più gravi sono stati tra i migranti, con almeno due morti. Non era mai successo prima. Governo progressista? Tutto il contrario, le espulsioni, i dinieghi per le domande di asilo sono aumentati, i controlli in mare sono ferrei e i naufragi nel tratto di mare tra Ceuta-Tangeri e Algeciras sono quotidiani”.
Oltre i migranti africani crescono i marocchini in fuga da un Paese dove non ci sono lavoro e futuro col governo che sta rimettendo obbligatoria la leva militare a 14 anni. I subsahariani passano al Ceti (in questi giorni oltre 900 per una capienza di 512 posti) per la registrazione, mentre i minori vengono accolti nel centro apposito. Diverso il discorso per i marocchini: “Per me conta la libertà, non voglio star in un centro, seguire le regole e il percorso normale. Ogni notte tento di superare i controlli per nascondermi dentro un camion o un container in partenza dal porto di Ceuta verso Algeciras. Ieri un nostro amico ce l’ha fatta”. Hamid, 15 anni, ci mostra la foto del fortunato, capace di eludere i controlli doganali. Lui, assieme ad un gruppo di coetanei, vive in mezzo agli scogli cubici messi a protezione del porto. Il giaciglio ricavato tra i cunicoli dei blocchi frangiflutti. Fa freddo, un freddo umido, e il vento non smette mai di soffiare: “Per battere il gelo ci copriamo bene – Youssef, un altro ragazzino cresciuto troppo in fretta, ci mostra i nove strati di vestiti –, da mangiare lo prepariamo qui usando il fuoco vivo. Chiediamo l’elemosina fuori dai negozi della città e coi soldi racimolati facciamo la spesa”.
Ogni secondo mercoledì del mese nella piazza principale di Ceuta si svolge il Circulo del silencio: “È l’occasione per fare il punto su cosa è successo nel mese precedente sul fronte dei diritti umani, tra migranti e le donne marocchine sfruttate – spiega Maite Perez Lopez, dirigente del centro San Antonio che offre lezioni di lingua spagnola e corsi di formazione per migranti –. Ci ritroviamo tutti insieme sperando di attirare l’attenzione della città. Purtroppo gli spagnoli di Ceuta, la maggior parte dei quali sono di origini marocchine, non vedono di buon occhio i migranti, il loro atteggiamento è aggressivo o di indifferenza e le cose stanno peggiorando”. Se i migranti non se la passano bene, a Ceuta, ci sono altri inferni.
Fiumi di donne marocchine, a caccia di un lavoro, seppur degradante, che consenta loro di sopravvivere: ogni giorno fanno la spola attraverso la frontiera di Tarajal II. Considerate lavoratrici di serie B, senza diritti e tutele, accudiscono anziani e famiglie spagnole “bene” in cambio di paghe misere per gli standard europei, dai 120 ai 250 euro a settimana. Ovviamente in nero: “Il sabato mattina lascio Fnideq, entro in Spagna e inizio il mio lavoro in casa di una famiglia per cui lavoro da qualche mese”. Aisha ha passato i cinquanta, vedova, i figli grandi, per campare fa la domestica. Nel 2017 ha perso il vecchio lavoro ed è rimasta disoccupata per mesi: “Ho pensato al peggio, sono andata in depressione, poi mi ha chiamata un’altra famiglia. Adesso sopravvivo”.
Eppure c’è chi sta ancora peggio. Le mujeres porteadoras, “spallone” nordafricane pagate una miseria per trasportare carichi pesantissimi sulla schiena attraverso la frontiera. Il sistema più economico per far passare merci da un continente all’altro. Le schiave del ventunesimo secolo. Pochi giorni fa, all’apertura dei cancelli della dogana spagnola (le porteadoras vengono fatte passare in un varco alternativo e oscurato al transito dei turisti, per non mostrare lo sfruttamento), in mezzo alla calca una donna è morta schiacciata, un’altra è in fin di vita.


Il Fatto 10.12.18
Socrate, Gesù, Alessandro Magno: la Storia è una rottura generazionale
Dal mondo antico ad oggi, l’uomo si compie nel momento della cesura della trasmissione culturale con gli avi
di Pietrangelo Buttafuoco


Iparenti meno prossimi sono proprio i più intimi, il padre e la madre: “Quale bambino”, si domanda Zaratustra, “non avrebbe ragione di piangere per i suoi genitori?”.
Friedrich Nietzsche fa un ammonimento a se stesso. Cestina, tra le ingenuità, il divieto biblico – “Tu non ucciderai” – e ai décadents raccomanda una rottura rispetto all’ascendenza: “Voi non procreerete!”. Anche la preghiera più sentita, il Pater, segna una cesura verso il continuum genealogico – “lo spezza”, dice Peter Sloterdijk, filosofo – e un padre differente, che sta nei cieli, si accompagna a un figlio differente.
Nel Corano è così recitato: “Da Lui veniamo a Lui torniamo”. Nella civiltà cristiana questa prossimità celeste si alimenta – grazie all’esemplarità dei santi, Francesco d’Assisi su tutti – con l’imitatio Christi, e ancora Sloterdijk, nel suo I figli impossibili della nuova era, un’indagine sul ruolo del bastardo nella frattura generazionale, così s’interroga: “Ogni persona ragionevole non farebbe bene a fare ritorno in Lui e ‘in lui’ il più presto possibile?”.
L’editrice Mimesis ha dato alle stampe la traduzione italiana di questo saggio – Sull’esperimento anti-genealogico dell’epoca moderna è il sottotitolo – attraverso cui, Sloterdijk, autore celebrato di Critica della Ragion cinica e di Sfere, già rettore a Karlsruhe della Staatliche Hochschule fur Gestaltung, indaga i processi generazionali e i loro esiti teorici. Socrate, Edipo, Gesù – ma anche con il Sikander, ovvero Alessandro il Macedone, con Giove Ammone, suo diretto padre, ancor più che il genitore Filippo – i modelli fondati da antenati remoti, trovano un’altra scelta.
Le riproduzioni decisive, infatti, trovano fonte sempre nell’oltretomba, ma gli imperativi rituali, veicoli di doveri essenziali, nella frattura “bastarda”, adottano un’ulteriore opzione. E così è nel palcoscenico della storia.
Il passaggio dal mondo degli avi a quello dei discendenti è una catena di imitazioni confidante in una stabilità che eviti, in qualunque modo – al prezzo di una totale appartenenza – un’esclusione mortale: “Non esistono pensieri più bui”, scrive il filosofo, “di quelli per cui i divini antenati, a cui si deve ciò che si è, non siano stati altro che gocce nell’oceano di possibilità migliori”.
L’avvento del bastardo – la cesura generazionale, la frattura che sorge dalla scoperta di un altro mondo possibile – riavvolge il filo genealogico al punto di “non lasciare intentato nulla di ciò che favorisca, per quanto lo riguarda, l’ascensione al cielo”.
La crisi immedicabile dell’umano è nell’estrema misura del possibile. Il possibile si misura nell’esatto computo di ciò che sta in terra. La paternità è radice, gea è generatrice. L’ulteriore decantazione impegna l’oscuro oggetto della continuità.
Appunto, Francesco, un figlio impossibile in questa nostra nuova era: “Finora su questa terra ho chiamato Pietro Bernardone padre mio, d’ora in avanti io voglio dire Padre nostro che sei nei cieli…”.

Il Fatto 10.12.18
Il professor Jean-Paul Fitoussi
“Ho sostenuto Macron, ma è solo un imbecille”
L’economista francese: “Il presidente ha aiutato i ricchi e ha dimenticato poveri e sinistra. Meglio il governo italiano”
di Antonello Caporale


Professor Fitoussi, un aggettivo per definire Emmanuel Macron.
Imbecille.
Jean-Paul Fitoussi, economista francese di origini tunisine, vive a Parigi ma frequenta Roma. Dalla sua casa il rumore delle bombe carta, il fumo dei lacrimogeni, le cariche della polizia paiono inesistenti. L’analisi sui gilet gialli, la protesta che ha incendiato la Francia e ha azzerato la reputazione politica del presidente Macron parte proprio da questa considerazione.
Parigi non conosce la Francia, e chi abita a Parigi non sapeva che milioni di francesi vivono difficoltà più estreme di quelle ipotizzabili. Ci si sveglia stupiti di questa rabbia, ma un politico che non conosce il suo Paese che dirigente è?
Professore, lei è stato un sostenitore di Macron.
Di più. Mi sono esposto, ho firmato un appello a suo favore. Lo ritenevo in gamba, capace di dare alla Francia ciò che chiedeva: un nuovo corso, una nuova classe dirigente.
Invece?
I francesi si sono accorti della verniciatura, neppure fatta bene, di un muro pieno di crepe. Stesso potere dietro il paravento di un giovane uomo.
Si è usata la parola “golpe” per definire il clima francese. Fa rabbrividire l’idea che la crisi politica possa infragilire quella democrazia così antica fino a immaginare come plausibile un esito violento.
È una analisi superficiale e non attuale. La Francia ha spalle solide e il presidente della Repubblica può dormire sonni tranquilli. Se vuole resterà fino al compimento dell’ultimo giorno del suo mandato. Altrimenti si può dimettere se intuisce di non avere sufficiente caratura e forza politica.
Ritiene plausibili le dimissioni?
Non sono in grado di dirlo. Auspico invece che cambi in fretta la sua politica.
Partiamo dal punto centrale: cosa ha fatto Macron per guadagnare questa protesta così dura, così estrema, anche violenta?
Macron aveva annunciato che il suo programma era costituito da due parti. Apriva alla destra, all’elite, alla borghesia imprenditoriale, garantendo la riduzione delle tasse sul capitale finanziario. E offriva però alla sinistra, al popolo, un miglioramento delle condizioni economiche. L’aiuto alla destra c’è stato subito. I ricchi e i ricconi si sono visti alleggerire le tasse sui capitali, ha lasciato intatte solo quelle sul patrimonio immobiliare. Ai poveri invece ha servito il nulla. Già questa, da sola, era una condizione pericolosa.
Troppo lontano dai nuovi poveri.
Troppo chiuso in città. Parigi è stato il suo orizzonte. Ma la Francia è grande ed è più povera di quel che a Parigi si pensa. Le fabbriche chiudono, la povertà si allarga, i servizi diminuiscono. L’aumento della benzina è stata una vera provocazione contro coloro che nelle campagne devono utilizzare l’auto anche per spostamenti che in città non sono immaginabili. Quella provocazione, frutto dell’ignoranza sulle condizioni del territorio, ha scatenato la protesta. La gente ha pensato: questo qui toglie le tasse ai ricchi e le mette a noi poveri.
Ma poi il governo ha fatto marcia indietro.
Tardi, troppo tardi. Tre settimane ha impiegato per capire che il fuoco sarebbe divampato perché la società dei margini, quella nascosta alla vista, nel frattempo è divenuta il cuore pulsante della Nazione, la colonna vertebrale della Francia.
Tutte le banlieue unite.
Le campagne e le periferie. La classe operaia e quella piccolo borghese. La condizione disastrata di un ceto sociale, quello proletario, ha contaminato altri ceti. È salita verso le fasce prima meglio protette: gli impiegati. L’immiserimento si è allargato e ha coinvolto altri soggetti, altre categorie. Questo governo non ha visto, al pari dei precedenti.
Questo presidente era il nuovo.
Infatti io credo che chi è sceso in piazza si sia sentito pienamente tradito. Altrimenti perché tutta questa rabbia? Macron era la nostra carta per il futuro: abbiamo scommesso sul giovane talentuoso. Immaginavamo che cancellasse la burocrazia politica ingobbita e insaziabile.
È il più classico degli scontri: popolo contro l’elite.
Ma no! Mica in Italia governa il popolo? L’esecutivo si dichiara populista, ma è un carattere della sua politica. La differenza tra Italia e Francia è che gli italiani hanno mandato al governo partiti e movimenti nuovi, mentre in Francia hanno creduto di mandarli. Da questa scoperta sono nate le proteste.
In Italia la protesta non è tracimata nelle piazze. Almeno fino a questo momento.
Perché i partiti di governo fanno quello che avevano promesso. A politiche di destra, come quelle fiscali, si uniscono leggi più di sinistra. La riforma delle pensioni, il reddito di cittadinanza.
L’opposizione ritiene invece il reddito di cittadinanza una misura puramente assistenziale che non giova alla crescita economica.
La natura umana rifiuta l’idea dell’assistenza. La gente cerca un lavoro non una paga gratis, la somministrazione di una elemosina di Stato. Sa che in Francia, dove i servizi sociali sono più forti e capillari, molti che avrebbero diritto rifiutano di ritirare l’assegno?
Da noi si pensa il contrario. Molti rinunceranno a cercare il lavoro, garantiti dall’assegno.
E si sbaglia di molto. La stragrande maggioranza ritrova la dignità, l’identità sociale e la libertà solo col lavoro. Negli anni Trenta ci fu un dibattito sull’opportunità di erogare l’indennità di disoccupazione. Si riteneva che anche quella fosse una misura puramente assistenzialistica. I fatti poi ci hanno dimostrato il contrario.
Il suo giudizio sul governo italiano?
Alcune azioni e decisioni, penso a quelle sull’immigrazione e sui diritti civili, non mi sono affatto piaciute. Sono immorali. La manovra finanziaria è invece perfettamente sostenibile. Tutto questo dibattito mi sembra un fuor d’opera. La crescente povertà deve spingere i governi a trovare risposte immediate e anche d’emergenza. Se hai fame devi mangiare. Altrimenti guardate cosa succede qui. Guardate a Macron.
Lei ha firmato per lui all’Eliseo.
E ho sbagliato. E come me tanti francesi. Hanno capito in ritardo che non era l’uomo nuovo.
È finita la sua stella?
Bah, cosa vuole che le dica. Magari se capisse in fretta…
Dovrebbe mutare totalmente la sua politica.
La sua presidenza non è a rischio. All’Eliseo ci rimarrà, se vorrà.
Se la protesta si allarga?
Penso che tutto rientrerà.
E Macron?
Farà come gli altri politici. Resisterà anche a dispetto dei santi.

Repubblica 10.11.18
Perché Netflix nasconde il successo di “Roma”?
di Franco Montini


Sarebbe dovuto restare in programmazione nelle sale cinematografiche solo per tre giorni (dal 3 al 5 dicembre), e invece, contrariamente a quanto annunciato, dopo una prima uscita in 58 copie, principalmente nelle sale del Circuito Cinema, catena d’esercizio specializzata nella programmazione di qualità, Roma, il film vincitore del Leone d’oro di Alfonso Cuarón, continua a essere programmato in una quarantina di sale indipendenti, dove sarà ancora visibile fino a dopodomani.
L’elenco dei cinema che in ogni regione proiettano Roma è consultabile sul sito della Cineteca di Bologna, distributrice italiana del film su grande schermo.
A questo evento imprevisto se ne aggiunge un altro non meno curioso: su Cinetel, il portale che raccoglie e diffonde quotidianamente gli incassi della stragrande maggioranza dei cinema italiani, consultabile da tutti previo abbonamento, il film di Cuarón non compare: come non esistesse, come se non fosse mai uscito.
Il sospetto di una “vendetta”, ovvero di una volontà di rimozione da parte degli esercenti italiani, in guerra con il produttore Netflix, per la scelta di proporre Roma sulla piattaforma a brevissima distanza dall’uscita in sala, svanisce rapidamente.
«Volutamente non ci sono stati forniti i codici per la rilevazione degli incassi del film» chiarisce Roberto Ferrari, presidente di Cinetel.
E un’ulteriore conferma arriva da Gian Luca Farinelli, responsabile della Cineteca di Bologna, il quale spiega che «nel contratto siglato con Netflix, una precisa clausola ci obbligava a non raccogliere e rivelare presenze e incassi».
Eppure dai dati direttamente raccolti presso i singoli esercenti, si può dedurre che nei primi tre giorni l’incasso complessivo di Roma sia stato attorno ai 100 mila euro. Resta la curiosità di capire perché Netflix, contrariamente a quanto avvenuto nel precedente caso che ha riguardato Sulla mia pelle (il film su caso di Stefano Cucchi) di cui sono stati raccolti e diffusi gli incassi, questa volta abbia voluto tenere tutto segreto.
La domanda girata alla società, tramite l’ufficio stampa italiano della multinazionale, non ha avuto risposta.

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