Repubblica Roma
Complesso del Vittoriano
Pollock e la scuola di New York
Complesso del Vittoriano, via S. Pietro in Carcere tutti i giorni dalle 9.30, tel. 06-8715111
Anticonformismo, introspezione psicologica e sperimentazione: al Complesso del Vittoriano l’action painting di Pollock e dei più grandi rappresentanti della Scuola di New York. Nell’Ala Brasini uno dei nuclei più preziosi della collezione del Whitney Museum di New York.
Repubblica 2.11.18
Il commento
La sinistra senza partito
di Nadia Urbinati
La discussione sulla fine della Sinistra è attuale e necessaria perché riguarda direttamente il destino della democrazia. Questo non è un modo di dire generico, ma un fatto misurabile con una ricca messe di dati. Dove la Sinistra è un partito organizzato, il populismo non sbanca. L’intervista di Repubblica a Rossana Rossanda invita a essere letta in questa prospettiva.
La questione non rientra nel fenomeno sentimentale della nostalgia per quel che non c’è più. Rientra nel pensare l’azione politica, che è interessata al futuro e per questo vuole capire il passato. Sono tre i nuclei di riflessione che Rossanda propone: la specificità; lo stile del discorso; la visione del mondo.
La specificità della "parte" è stata il vero obiettivo sacrificale, a partire dalla Bolognina ( che portò allo scioglimento del Pci e alla nascita del Pds nel 1991) fino alla recente campagna elettorale. Il metodo seguito è stato coerente all’obiettivo: voltare pagina, senza avere però impostato il capitolo successivo; senza aver metabolizzato la critica al passato e di lì derivare la necessaria revisione. Invece è stato un terremoto devastante, una rivolta contro il partito politico. Che non ha contribuito al mutamento della Sinistra tradizionale. L’ha sepolta con un esercizio di centrismo. Anche di lì è partita la strada che avrebbe portato al populismo. Fine della specificità, celebrazione della genericità. E un partito pigliatutto che non piglia più nulla è il non lieto fine della favola del partito genericamente democratico che, proprio per voler essere solo questo, non riesce a far da diga a chi democratico lo è davvero poco: i nazionalisti, gli xenofobi, i razzisti. Affondato il centro resta una polarizzazione governata solo in una sua parte, poiché l’altra parte non ha specificità.
Lo stile del discorso segue a ruota, la sfera pubblica che si fa, nello stile, una espansione di quella privata. La politica vuole essere comprensione per ragioni e scopi pratici che includono gli altri, i quali sono a noi estranei e tuttavia "amici" come cittadini. Rispettare questa condizione di socievole antagonismo è essenziale perché le parti si manifestino nelle loro differenze, e creino un clima dialettico. Lo stile segue il contenuto: senza specificità dei contenuti tutto si traduce in ricerca di parole efficaci, che sono spesso e volentieri offensive. Lo stile viene deciso dall’audience, il vero sovrano. Quindi linguaggio a effetto, che ricusa ogni analisi delle questioni, che si ferma alle tattiche del qui e ora, alla caratterizzazione dell’avversario, al gioco di parole.
La visione del mondo è conseguente. Stile semplice, plebeo quasi, e senza alcuna attenzione alle implicazioni che non siano quelle del gradimento personale. Non vi è nulla di meglio, dunque, che trovare nemici assoluti e consolare. Così la Lega, dice in poche efficaci parole Rossanda, racconta la favola che il lavoro è portato via dall’immigrato; un fatto che non ha responsabilità nel sistema ma in altri nemici (la Ue) e così via, nemici dopo nemici. E di fronte a nemici totali vale solo la "consolazione" della rabbia (aizzata sempre).
La visione del mondo, a destra come a sinistra, è uno specchio di questo mondo senza visione: che cosa rende il Partito democratico diverso? Nessuno lo saprebbe dire, salvo cercare di imitare un poco la Lega ( sulla politica dell’immigrazione), e un poco i Cinque stelle (nelle proposte di aiuto ai giovani o alle famiglie). Dove sta la differenza non si capisce, perché dal suo Dna è stata da anni espunta la progettualità della "difesa dei più deboli" per consentire dignità di cittadinanza (art. 3 della Costituzione). Questo a Sinistra " non lo pensa più nessuno" e lo si vede dal non discorso sulle politiche del lavoro e redistributive. Distribuire sussidi è certo necessario perché emergenziale. Ma non è una risposta politica all’economica post- industriale. Non è progetto di difesa della democrazia sociale. Non è nulla di specifi
Repubblica 2.11.18
Atlante politico
Il sondaggio di Demos - Repubblica
Salvini divora Di Maio il M5S arretra al 27,6% primo calo del governo
La fiducia nell’esecutivo resta alta ma scende di quattro punti in un mese. Il leghista considerato il vero capo, Draghi sorpassa Di Maio
di Ilvo Diamanti
Cinque mesi dopo l’avvio, il governo guidato da Giuseppe Conte continua a mantenere un consenso altissimo.
Come la maggioranza che lo sostiene. Ma fra gli italiani si colgono anche segni di preoccupazione. O meglio, di prudenza. Il sondaggio di Demos condotto negli ultimi giorni, per l’Atlante Politico di Repubblica, lo rileva e lo sottolinea con evidenza. Nei confronti del governo, infatti, il 58% dei cittadini (intervistati) esprime un giudizio positivo. Si tratta, dunque, di un dato elevato (e anche di più...). Tuttavia, in lieve calo, nell’ultimo mese: 4 punti in meno. D’altronde, non è possibile andare oltre questi livelli. Se guardiamo gli orientamenti di voto e il gradimento dei leader, peraltro, è possibile cogliere l’origine di questa tendenza. Per quel che riguarda le stime elettorali, la Lega mantiene pressoché la stessa "misura" osservata a settembre: 30%.
Appena una virgola in meno: 0,2.
Mentre il M5S scivola un po’ più in basso. Al 27,6%. Quasi due punti (1,8, per la precisione). Ma perde oltre 5 punti, rispetto alle elezioni. E 3,5 in confronto alle stime dello scorso maggio. Peraltro, dietro c’è quasi il vuoto. Il Pd continua a scendere. Ora è al 16,5%, mentre Fi risale al 9,4%.
Insieme, i due partner di governo si avvicinano al 58%. E confermano una maggioranza solida e stabile. Ma scendono un poco. Per la prima volta dopo il voto.
È, comunque, evidente come questa maggioranza abbia un volto ben preciso. Ha i tratti di Matteo Salvini, che mantiene il 60% dei consensi personali.
Mentre Luigi Di Maio risulta gradito al 53% degli elettori. Tanti. Ma meno di un mese fa (4 punti).
Superato dal premier, Giuseppe Conte. Anch’egli in lieve calo di consensi. Si attesta, comunque, a sua volta, quasi al 60%. Tuttavia, secondo quasi il 60% degli italiani, il vero Capo del governo e della maggioranza resta il leader leghista. Mentre il premier è ritenuto tale solamente dal 16%. E Di Maio dal 14%. La marcia della "Lega a 5S" (L5S), dunque, procede. Ma accompagnata, fra gli italiani, da dubbi e perplessità. Il giudizio sulla manovra di bilancio, come chiariscono Bordignon e Biorcio, è, infatti, positivo. Ma fra i cittadini emergono riserve significative. In particolare: sul reddito di cittadinanza. Il prodotto di bandiera. O meglio: per la maggioranza dei cittadini può essere utile, ma non è una priorità. Mentre preoccupano le conseguenze delle politiche di governo nei confronti dell’Unione europea. Oltre metà degli italiani chiede esplicitamente che si tenga conto delle osservazioni della Ue.
Anche a costo di riscriverne alcuni punti essenziali. D’altra parte, negli ultimi anni, l’idea di uscire dall’euro non è mai stata tanto impopolare. Condivisa, attualmente, da non più di 2 elettori su 10. Perfino tra gli elettori della Lega e del M5S supera di poco un terzo dei consensi.
È un atteggiamento che abbiamo già osservato – descritto – in passato. Anche di recente. Gli italiani, infatti, non apprezzano l’Unione europea. La considerano un organismo burocratico, che pone e impone vincoli, senza delineare un progetto politico condiviso. Tuttavia, temono di uscirne. Di restarne fuori. Lo stesso orientamento viene espresso nei confronti dell’euro.
La moneta unica. Non piace.
È ritenuta causa di molti mali e di molti disagi. Per i bilanci del Paese. E delle famiglie. Ma uscirne appare, ai più, anzi: a quasi tutti, un salto nel buio. Anche per queste ragioni Lega e M5S hanno modificato le loro posizioni, sull’argomento. E non parlano più di uscire dall’euro – e dalla Ue.
«Non è scritto nel contratto», ha ripetuto spesso Di Maio, nelle ultime settimane. Ma l’euro-diffidenza dei partiti e dei leader politici di governo e dei loro leader è nota.
Si spiega anche così l’indice di gradimento espresso verso il presidente della Bce, Mario Draghi: 58%. Quasi allo stesso livello di Salvini e Conte. Ma sopra a Di Maio. Draghi, agli occhi degli italiani, costituisce un’ancora per trattenere la barca italiana in acque europee. Per non venire spinti verso sponde e zone pericolose.
D’altra parte, un problema evidente, messo in luce anche da questo sondaggio, è costituito dalla debolezza, per non dire l’assenza, delle opposizioni.
L’abbiamo già osservato più sopra: a Centro-Sinistra, il Pd ha perduto ancora consensi. Oggi è stimato sotto il 17%. Sotto la soglia di sopravvivenza. O almeno: sotto al livello di guardia. Per un partito che fino a pochi anni fa aveva raggiunto il 40%. Mentre, a Centro-Destra, Forza Italia non arriva al 9,5%. E se si volge lo sguardo ai leader – in tempi di personalizzazione della politica e dei partiti – il quadro peggiora ulteriormente. A Centro-Sinistra, solo Paolo Gentiloni mantiene un livello di consensi elevato.
Probabilmente perché considerato "fuori dai giochi".
Mentre i principali candidati alla segreteria, Luca Zingaretti e Marco Minniti, non superano il 40%. E Matteo Renzi mantiene saldamente l’ultimo posto della fila, con il 24%. Lontano da tutti.
Nonostante il rito della Leopolda.
Mentre Silvio Berlusconi, inventore del "partito personale" e alleato di Salvini, alle recenti elezioni, è poco più sopra. Al 30%.
Così, la L5S oggi deve temere solo se stessa. La propria eccedenza.
L’iper-personalizzazione di Salvini. Onnipresente sui media – social e tradizionali. Deve, inoltre, tenere d’occhio l’euro-prudenza dei cittadini. Perché gli italiani non amano l’euro, ma guai ad abbandonarlo. E, per questa ragione, navigano a vista. Fra Draghi e Di Maio.
il manifesto 2.11.18
25 aprile, 2 giugno feste divisive, teniamocele strette
di Angelo D’Orsi
Alla fine del suo intervento a Milano, ospite del sindaco Sala, Domenico Lucano viene salutato dal pubblico con un commosso e commovente “Bella ciao”. A cui è seguito, il coro “Ora e sempre Resistenza”.Un episodio fra tanti, che mostra che vi è una Italia del “non mollare”, che non desiste e, appunto, resiste.
Ma a quella Italia si affianca e contrappone, in modo sempre più netto, un’altra parte del Paese, e si tratta non di due metà (anche se disuguali) di un tutto, ma, diciamolo, di due nazioni, che sono la dimostrazione che la patria, come ebbe a scrivere Ernest Renan nel lontano 1882 “è un plebiscito di tutti i giorni”, ossia si appartiene a una patria non perché vi si è nati, ma perché si sceglie di esserne cittadini, e la patria che scelgo io non è detto sia la stessa del mio vicino di casa o di banco o di scrivania. Si è accomunati non dal sangue, e solo in parte dalla lingua (la babele linguistica è una specie di percorso inevitabile), o dai costumi (che cambiano): si è accomunati da scelte ideali, da un “idem sentire”, per cui ci si può sentire affratellati a un pescatore senegalese o a un operaio serbo che vengono a vivere in Italia più di quanto non ci si possa riconoscere, per fare un esempio, in quel partitino di destra estrema che si è chiamato retoricamente “Fratelli d’Italia”.
Ebbene proprio la responsabile di quel partitino, Giorgia Meloni, ha testé lanciato l’ultima provocazione: invece del 25 Aprile e del 2 Giugno – feste “divisive” – scegliamo il 4 Novembre come festa nazionale, capace di unire tutti in un nuovo afflato patriottico, in quanto ricorrenza della “vittoria” nella Prima guerra mondiale. La Meloni ha scarsissima cognizione storica, perché quella guerra, che pure falciò una intera generazione di giovani italiani, non fu per nulla “nazionale”, in quanto voluta da ristrettissimi gruppi economici, e dai loro rappresentanti politici, e produsse un enorme arricchimento per i pochi, un immiserimento per i molti; e quella guerra fu combattuta proprio dai poveri, che quando non ci lasciarono la pelle, o un braccio o un occhio, tornarono a casa poveri come erano partiti, e molti furono colpiti dall’epidemia di spagnola che fece più morti della guerra. La “vittoria” del 4 novembre fu una vittoria per la Fiat, per l’Ansaldo, e gli altri padroni del vapore, e per quegli intellettuali invasati che avevano invocato la guerra come “igiene”.
“L’offensiva patriottica” di Meloni, perciò, non solo appare fuori tempo massimo, ma, dietro il mito patriottico, si schiera idealmente con quei gruppi sociali che vollero il conflitto e ne beneficiarono. Quella data, che segnò la fine del conflitto per l’Italia portatavi a rotta di collo da tre persone (il re Vittorio Emanuele III, il presidente del Consiglio Salandra, il ministro degli Esteri Sonnino, in spregio del Parlamento, tenuto chiuso), è tutt’altro che unitaria, è “divisiva” come tutte le date storiche. E credo sia un errore rispondere sostenendo che il 25 Aprile e il 2 Giugno sono date di tutti e per tutti: non lo sono, sono date in cui soltanto una parte del Paese si riconosce (sperando sia la maggioranza), e può, se non proprio con fierezza, quanto meno senza vergogna, dichiararsi “italiana”. Io non mi sento fratello di Meloni e dei suoi camerati, e se i loro cuori non vibrano alle note di “Bella ciao”, non mi dispiace affatto.
Ma dovrebbero sapere che le due date che pretenderebbero di archiviare sono quelle che definiscono il perimetro dell’Italia repubblicana, post-fascista in quanto antifascista: sono loro a chiamarsene fuori, sono loro gli stranieri in patria. Per questo è inaccettabile lo slogan della campagna dei nuovi fascisti “Non passa lo straniero”, anche se è evidente il nesso con l’attualità, e col tema migranti, i quali, implicitamente, diventano i nuovi “nemici”, gli “austriaci”, un secolo dopo la fine del conflitto. Il pot pourri tra ieri e oggi viene temerariamente aggravato dai soliti bravacci di Casa Pound, tra grottesche marce di omaggio alla tomba mussoliniana, manifestazioni irredentiste (!) a Trieste e addirittura quelle annunciate a Riejka da loro perentoriamente chiamata col toponimo di “Fiume”, strizzando l’occhio al defunto “vate” D’Annunzio: il che ha suscitato le ovvie proteste della Croazia contro il revanscismo italiano.
Avanti così! L’Unione Europea ci sta stretta? Proviamo intanto a far ridiventare l’Adriatico mare nostro. E poi, si sa, l’appetito vien mangiando… V’è forse un modo migliore di “celebrare” il centenario della guerra che sognarne un’altra?
Corriere 2.11.18
Per iniziativa del sindaco Vittorio Sgarbi
Cittadinanza a Lucano
Un caso a Sutri
Mimmo Lucano, il sindaco di Riace diventato un simbolo dell’accoglienza ai migranti e finito sotto inchiesta, oggi diventerà cittadino onorario di Sutri, in provincia di Viterbo, per iniziativa del sindaco Vittorio Sgarbi. Ma CasaPound non ci sta e ha annunciato sui social una manifestazione in piazza oggi pomeriggio dalle 14.30. E la cerimonia, a cui parteciperanno anche il governatore del Lazio Nicola Zingaretti e il filosofo e letterato Nuccio Ordine, sarà spostata in un Comune a pochi km da Sutri, Castel Sant’Elia. «Vedo — scrive il critico d’arte su Facebook — che disapprovano l’iniziativa di dare la cittadinanza onoraria a Lucano perché indagato. Non credo che si sarebbero preoccupati se avessi deciso di darla a Salvini».
La Stampa 2.11.18
“Caricati a forza nei furgoni”. Così la polizia italiana riporta i migranti nei Balcani
Il racconto di due pakistani: «A Trieste ci hanno illuso sulla richiesta d’asilo ma ci hanno rimandati in Slovenia». Poi una nuova odissea fino alla Bosnia. «Le autorità croate ci hanno picchiato e lasciato nei boschi al confine»
Italia, una rotta segreta con Slovenia e Croazia per respingere i migranti
di Niccolò Zancan
Dentro, nel furgone della Polizia di Stato, era buio pesto. «Si respirava a malapena da una piccola ventola piazzata in alto. Non c’erano finestre. Alcuni di noi vomitavano, e poi c’era odore di sangue. Perché quando avevamo capito che stavamo per essere riportati indietro, due ragazze avevano preso a testate i muri della caserma e continuavano a piangere». È la caserma del Valico di Fernetti, la prima in territorio italiano dopo il confine sloveno. Ma il furgone della polizia stava passando dall’altra parte della frontiera.
«Avevamo camminato 14 giorni dalla Bosnia Erzegovina, attraversato la Croazia e la Slovenia, dormendo nei boschi di notte, pur di arrivare in Italia. All’inizio, i poliziotti ci avevano fatto capire che dovevamo stare tranquilli. Avrebbero preso la nostra richiesta di asilo politico. Ma all’improvviso hanno cambiato idea: ci hanno detto che dovevamo salire su quel furgone».
Chi parla, davanti a un interprete, è un ragazzo pakistano di 21 anni, il suo nome è Hassan T. È partito dal distretto di Sialkot, regione Punjab. E ora, al secondo tentativo, è riuscito ad arrivare a Trieste, dove è in attesa che venga valutata la sua domanda di asilo. Ma quello che racconta è il primo tentativo, alla fine di agosto del 2018. Il segreto che qui molti conoscono già, alla frontiera Nord-Est italiana.
«Il viaggio sul furgone della polizia è durato circa venti minuti. Ci hanno lasciati davanti a una casetta bassa, isolata, in mezzo al niente. Altri poliziotti sloveni sono venuti a prenderci su un altro furgone, ci hanno scaricati al confine con la Croazia. Allora tutti abbiamo capito come sarebbe finita. I poliziotti croati ci hanno fatto viaggiare più a lungo. Si sono fermati davanti a una foresta. Hanno preso i nostri telefoni, uno a uno, e li hanno fracassati. Poi ci hanno picchiati sulla schiena con i manganelli. A me hanno spezzato due dita. Alla fine hanno indicato un sentiero nel bosco, e ci hanno fatto segno di camminare. Così ci siamo ritrovati in Bosnia, fuori dall’Europa». Meno di ventiquattr’ore sul suolo italiano. E poi via. Indietro. Stato dopo Stato. «Solo uno di noi sapeva parlare un po’ di inglese», dice ancora Hassan T. «Non abbiamo capito niente di quello che ci hanno detto i poliziotti. Non c’era l’interprete. Ma eravamo già in Slovenia quando ci hanno scaricato».
”Respingimenti a catena”
Non sono le cosiddette «riammissioni», che richiedono comunque di esaminare la domanda di asilo, per verificare se sia già stata presentata altrove, prima di trovare eventualmente un accordo per il ritorno in quel Paese. È qualcosa di diverso. Qualcosa di nuovo. Sbrigativo. Ricorda il comportamento di alcuni poliziotti francesi alla frontiera italiana. Dalle parti di Claviere.
«Peggio», dice Gianfranco Schiavone il presidente di Ics, la più importante istituzione dell’accoglienza a Trieste assieme alla Caritas. «Sono respingimenti a catena. Restituzioni illegittime. Violazioni delle direttive europee, del regolamento di Dublino e delle leggi italiane. Sembra una specie di manovra di alleggerimento. Abbiamo diverse testimonianze che confermano questa nuova prassi. I migranti vengono abbandonati nei boschi come dei banditi. Non esiste alcuna logica. Non si capisce perché qualcuno sì e qualcun altro, invece, no. Si ha proprio l’impressione di essere al mercato delle vacche. E la cosa più sconcertante, è che tutte le polizie coinvolte sanno benissimo di muoversi al di fuori della legge».
Il confine italiano, fra la Val Rosandra e il valico di Fernetti, non si vede. È costituito da alberi, rocce bianche e memoria. L’ultimo gruppo di migranti è spuntato davanti al monumento in ricordo della foiba di Basovizza. Era un Peugeot carico di ragazzi. Qualcuno ha chiamato i carabinieri. Il passeur, un croato di 23 anni, è stato arrestato. Tre profughi iraniani hanno presentato domanda di asilo politico. Nessuno sa dire dove siano finiti gli altri dodici migranti.
«Succede quasi ogni giorno» racconta la signora Sonia Crismancich. Dal 1979 gestisce la stessa rivendita di tabacchi e alimentari, all’angolo con la strada che porta oltre confine. «Ieri erano in dieci, messi lì al muro. I poliziotti li stavano controllando. Ti fanno pena. Sono tutti giovani, maschi, magri. Non sono razzista, ma non so dove porterà questa cosa».
Il numero dei migranti accolti regolarmente a Trieste è di 1180, poco più di 5 mila in tutto il Friuli Venezia Giulia. Quest’anno, però, ne stanno arrivando di più. Ogni settimana, dalle 20 alle 50 persone vengono trasferite in altre regioni italiane. Quello che non si conosce è il numero dei respinti.
Il costo del viaggio
Anche Alì M., 31 anni, ex tassista di Islamabad, è stato scaricato oltre confine dalla polizia. Partito dal Pakistan alla fine del 2016 pagando 6 mila dollari ai trafficanti, era arrivato in Italia nei primi giorni di settembre: «Eravamo tutti convinti di avercela fatta. Ormai camminavamo a Trieste, sul lungomare di Barcola. La polizia ci ha presi e portati in questura. Eravamo felici». E invece? «Hanno preso le impronte e fatto il foto segnalamento di tutti. Eravamo in 46. I primi 16 hanno presentato domanda di asilo, ma poi è venuta notte. C’era un interprete. Ha spiegato che il giorno dopo, di mattina, sarebbe stato il nostro turno. Aspettavamo in corridoio, ma era una cosa finta. Ci hanno fatto salire sul furgone, e ci hanno lasciati di là. Dopo una sera nella caserma della polizia slovena, abbiamo fatto tutto il viaggio al contrario. Anche io sono stato picchiato dai poliziotti croati. Succede a tutti. Ti bastonano. Scappando mi sono ritrovato in Bosnia, dalle parti di Velika Kladusa. Dopo una settimana in cui mi sono sentito molto triste, ho deciso di riprovare. Ho impiegato 13 giorni a piedi, sono caduto in un crepaccio, ma un amico afghano mi ha salvato. E questa volta, finalmente, ce l’ho fatta. Ho presentato la mia domanda di asilo alla questura di Gorizia. Sono in attesa».
Il nuovo vento politico
Negli ultimi tre mesi, Trieste è cambiata molto. Il governo leghista della Regione Friuli Venezia Giulia ha chiesto alle guardie forestali di occuparsi del controllo dei confini, caso unico in Italia. Il vice sindaco di Trieste, Paolo Polidori, anche lui della Lega, ha passato una notte in diretta Facebook a svegliare i profughi accampati: «Qui non vi vogliamo». Forza Nuova ha organizzato delle ronde nella zona della stazione, dove dormono i più disperati. Il Comune ha cancellato una mostra sulle Leggi Razziali, organizzata dagli studenti del Liceo Petrarca, proprio nei giorni della memoria. E domani, sempre Trieste, ospiterà il raduno nazionale dei fascisti di CasaPound per i cent’anni della fine della Prima Guerra Mondiale: una decisione molto contestata in città. Ma alla fine, la prefettura ha autorizzato il corteo. È il nuovo spirito dei tempi. Da dove partono forse anche certi furgoni della polizia pieni di migranti da scaricare altrove. «Mi avete spezzato il cuore», dice Alì M. Si alza, ringrazia e se ne va.
La Stampa 2.11.18
Elena Fattori. La senatrice grillina “Salvini punta a sostituirci con Meloni”
“Caro Di Maio, così diventi la stampella della destra”
di Maria Rosa Tomasello
«Credo che tutte le provocazioni di Salvini, prima con le navi poi con decreti inaccettabili abbiano l’obiettivo di spaccare il Movimento per fare entrare Fratelli d’Italia in maggioranza. Ci aveva provato a inizio legislatura proponendo Crosetto sottosegretario, ma la cosa naufragò. Ci ha lavorato in questi mesi e adesso riprova». Elena Fattori, senatrice del M5S con attitudine a parlare con chiarezza, è una dei quattro parlamentari Cinque Stelle scesi in campo contro alcune misure sull’immigrazione contenute nel decreto sicurezza, giudicate indigeribili. Dalla stretta sulla protezione umanitaria con «il rischio di creare 200 mila nuovi clandestini» al depotenziamento degli Sprar, fino all’affidamento con appalti senza evidenza pubblica dei centri per migranti, Fattori ha ingaggiato una battaglia per modificare il testo. Ma non ci sta a passare per eretica.
Non si sente una dissidente?
«No, anzi continuo a lavorare nell’ambito del programma del Movimento cercando di inserire l’animo Cinque Stelle nei provvedimenti, soprattutto in quelli con targa leghista».
Un vostro voto contrario potrebbe mettere a rischio la tenuta del governo?
«No. È una scusa di Salvini per cambiare il quadro della maggioranza e avere più potere, ma non sarà una eventuale nostra assenza a far cadere il governo. I governi cadono quando conviene a tutti e ora non conviene a nessuno».
E Di Maio che fa? Lo segue?
«Credo di no. Luigi è molto intelligente. Se effettivamente il piano di Salvini è eliminare una parte del M5S e dunque gli elettori che si riconoscono in quella parte per fare entrare Fdi allora diventerebbe la stampella di un governo di centrodestra».
Ha sentito il vice premier?
«Abbiamo parlato in modo costruttivo, cercato soluzioni».
Però gli emendamenti suoi, di De Falco, Nugnes e Mantero non sono passati...
«È una trattativa difficile, ma sono fiduciosa».
Cosa pensa di fare in aula?
«Dipende. Ho in mente tre emendamenti che potrebbero assolvere ai nostri obiettivi senza intaccare troppo la struttura del decreto. Se si potrà discutere e migliorare lo voterò. Se resterà così com’è non lo voterò. E se ci sarà la fiducia ci dovrò ragionarci».
Comunque ha detto che non si dimetterà neppure davanti a una espulsione...
«Se mi espellessero perché porto avanti le idee del Movimento sarebbe un ossimoro. Qualunque cosa accada resterò del M5S».
Esiste un problema di democrazia interna?
«Sì. Da inizio legislatura non c’è stata alcuna votazione sui contenuti: bisogna ristabilire la modalità assembleare e democratica prevista dal nostro regolamento. Così si evitano casi come questo».
Vede una deriva a destra?
«No. Ma credo che ci sia forte la voglia di lobby vecchie di tirarci verso di loro. Salvini non è il nuovo, è la vecchia politica. Soprattutto sui territori le facce sono sempre quelle, con un travaso da Forza Italia».
Proprio sui territori ci sono tensioni. Tav, Tap, Muos. Gli elettori protestano.
«Io sono alle prese con la bretella Cisterna-Valmontone, che abbiamo sempre avversato, mentre il sottosegretario della Lega Duringon, che non è nuovo per niente, vuole realizzare l’opera. Sul Tap avremmo dovuto aspettare prima di dare certezze, forse abbiamo sbagliato e ora la soluzione sarebbe chiedere scusa».
Siete la forza maggiore. Perché a trainare è la Lega?
«Forse per il timore che se si torna a elezioni si arretra di fronte alla prorompente marcia leghista. Ma per paura di consegnare il Paese al centrodestra dopo elezioni rischiamo di consegnarglielo senza che neppure le abbiano vinte».
Corriere 2.11.18
L’Europa, le idee
Lezioni dolorose a sinistra
di Paolo Lepri
La sinistra democratica in Europa è un grande campo di rovine. La città dell’utopia progressista è crollata. Molti abitanti sono scappati — profughi che hanno trovato nuove patrie — oppure sono rimasti tra le macerie in attesa di una ricostruzione per la quale manca quello spirito che dovrebbe segnare le stagioni di una dopostoria. Non riceve risposta chi bussa per avere istruzioni alla porta della casa comune.
È inutile guardare al passato. La Spd di Helmut Schmidt (il cancelliere che ha combattuto l’attacco eversivo contro lo Stato) annaspa in un quadripartitismo che sta soppiantando lo scenario quasi obbligato delle «grandi coalizioni». I socialisti francesi sono ridotti all’irrilevanza, dopo gli anni orgogliosi del mitterrandismo, e un dirigente che ha conosciuto brucianti umiliazioni come Benoît Hamon (6,4% alle presidenziali 2017) lancia appelli «agli orfani di una grande idea» per creare un movimento «democratico e fraterno». Nei Paesi nordici — pensiamo soprattutto alla Svezia — l’era del welfare è tramontata.
Da noi è prevalsa la scelta di confrontarsi senza azzerare gli errori, le rivalità, le ambizioni sbagliate, procedendo a vista su una nave che imbarca acque limacciose. Si è fatta politica come se non fosse cambiato niente. Ne è una chiara dimostrazione l’assurdo dibattito post-elettorale nel Partito democratico, divisosi animosamente sull’eventualità di un fantapolitico accordo di governo con il movimento Cinque Stelle.
D ove il destino sembra meno cupo, non mancano certamente interrogativi. A Londra, seppellita senza gratitudine l’eredità di Blair, il corbynismo non riesce a sciogliere contraddizioni legate ad un atteggiamento equivoco sulla Brexit e provocate dalla prospettiva di un socialismo d’antiquariato. In Spagna Pedro Sánchez è arrivato alla Moncloa grazie a un abile colpo di mano — i cui effetti andranno valutati con realismo, senza prevenzioni — e all’alleanza con un movimento, Podemos, molto lontano dai socialisti. Il caso portoghese, con i suoi imprevisti risultati positivi, sembra un’eccezione che conferma la regola.
Assistiamo ad uno spettacolo, insomma, che dovrebbe preoccupare anche chi non appartiene a questo campo, visto che i partiti in declino di cui stiamo parlando hanno garantito il rispetto delle regole e dei valori fondanti delle nostre società. Tanto da essere identificati con le élite lontane dalla vita dei cittadini grazie alla martellante (e non del tutto immotivata) propaganda degli avversari. Questi valori fondanti — il primato della democrazia e la difesa delle libertà — non sono naturalmente proprietà esclusiva della sinistra, ma anche delle forze di ispirazioni liberale e cristiana. L’importante è aggiornarli alla luce del presente. «La democrazia è un ordine dinamico, capace di apprendere», scrive la tedesca Carolin Emcke, autrice di Contro l’odio .
Sulle cause che hanno prodotto questa situazione (insieme a motivi specifici in ogni singolo Paese) è stata detta soprattutto una cosa, giusta ma non sufficiente, chiamando in causa la globalizzazione. «La visione che le politiche di sinistra siano impotenti di fronte alla forza totale di un’economia globalizzata è stata ripetuta così tante volte che è diventata un cliché, ma non è mai stata confutata in maniera convincente», ricorda su The New Statesman Chris Bickerton. «E non c’è nessuna prova — aggiunge — che l’Unione Europea possa compensare la debolezza degli Stati nazionali». Su questo siamo meno d’accordo. Ma lasciamo fuori per il momento l’Europa e cerchiamo di entrare nell’immaginario degli elettori .
Ad essere oggi in crisi (anche, ma non solo, per una serie di fenomeni epocali, come quello dell’ondata immigratoria mal regolata) è lo stesso concetto di solidarietà. O meglio, le nostre società sembrano non esprimere più il sentimento di solidarietà attraverso la mediazione delle forze politiche storiche. Mentre invece i partiti della sinistra moderata «tradizionale» parlano sempre degli «altri» e mai delle persone a cui parlano. Programmi astrattamente solidali e orientati alla riduzione delle diseguaglianze non bastano più, da soli, in una società sempre più diseguale: una società divisa al suo interno in modo ben più differente che nel passato ed esposta ad una narrazione neo-autoritaria (come scrive Jason Stanley in How Fascism Works ) impostata sulla politica del «noi» contro «loro».
Il secondo problema è che è stato regalato alla destra il concetto di identità. John B. Judis, autore di The National Revival: Trade, Immigration, and the Revolt Against Globalization , sostiene che «il declino dei partiti liberali e socialdemocratici è il risultato almeno in parte delle loro incapacità di distinguere che cosa sia giustificabile e legittimo nel nazionalismo da ciò che è ristretto, intollerante, contrario a quegli interessi che il nazionalismo afferma invece di tutelare». Può darsi. In ogni caso, rivendicare identità nel contesto europeo vuol dire anche agire perché l’Unione non abbandoni i più deboli e i più esposti alle pressioni esterne. È molto probabile che un maggiore coraggio dei socialdemocratici tedeschi nel puntare sulla crescita — spingendo per una politica economica più espansiva — avrebbe rallentato la loro caduta e diminuito le difficoltà di tutti i progressisti nell’Ue.
Se questo è vero, la proposta di un fondo comune europeo per la disoccupazione, suggerita dal ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz, è un’idea che dovrebbe andare avanti. Ma l’impressione, più in generale, è che socialdemocratici e socialisti debbano guardare altrove, senza dimenticare le loro radici. Il successo dei Verdi tedeschi è emblematico. Sono rinati, dopo le divisioni tra realisti e fondamentalisti, per merito della capacità di intercettare voti che in altri Paesi hanno preso direzioni inaspettate. Il merito è di un programma più vicino ai giovani, alle donne e meno ai pensionati che frequentano il Willy-Brandt-Haus a Kreuzberg. A questo riguardo Maurizio Ferrera osserva giustamente su La Lettura che «la tutela e la sostenibilità ambientale sono ancora la priorità numero uno, ma senza nessuna indulgenza verso ideologismi no-global, pacifismo senza se e senza ma, scenari di decrescita felice». Passando in Francia, è interessante che un intellettuale come Raphaël Glucksmann inviti la sua generazione a reinventare una sinistra in stato di «morte cerebrale» e scriva un saggio intitolato Les Enfants du vide nel quale parla di ecologia politica, democrazia diretta, lotta contro le lobby, decentralizzazione .
Sono solo esempi, ma è dalle idee che deve passare una rifondazione «europea» dei partiti di sinistra moderata (che non è in contrasto con la loro ricerca di identità) basata su sentimenti comuni e sulla rottura della logica di famiglie politiche polverose. È l’unica arma, questa, per evitare una battuta d’arresto collettiva nelle elezioni della primavera prossima. Serve però un’altra cosa, altrettanto importante: la nascita di una classe dirigente diversa, completamente lontana dal passato, in tutti i Paesi dove è stata conosciuta la sconfitta. Altro che nuovismo o rottamazioni. Si tratta di cambiare tutto .
La Stampa 2.11.18
“Le ossa ritrovate sono compatibili con un’adolescente”
I primi esami sullo scheletro sotto la Nunziatura Il mistero della scomparsa della moglie dell’ex custode
di Edoardo Izzo
Il corpo minuto di una donna di bassa statura. Caratteristiche che possono far pensare a un’adolescente di età compresa tra i 12 e i 16 anni, come lo erano sia Emanuela Orlandi sia Mirella Gregori al momento delle loro scomparse, nel 1983. Ma che sono compatibili anche con un’altra ipotesi, sulla quale lavorano gli inquirenti.
La scomparsa misteriosa, a metà degli Anni 60, della moglie dell’allora custode della Nunziatura Apostolica. Secondo quanto ricostruito da chi indaga i due avevano un rapporto particolarmente tormentato, di cui tutti i dipendenti di Villa Giorgina erano a conoscenza.
E che potrebbe essere il movente dell’omicidio. Ma queste, fanno notare fonti di polizia, «sono solamente delle ipotesi, elementi che da soli non dimostrano nulla». «Solo dall’esame del Dna avremo risposte concrete, e nelle indagini contano le certezze, non le teorie», affermano le stesse fonti. Proprio sul test genetico due giorni fa sono stati sollevati dei dubbi. Giovanni Arcudi, direttore della Medicina Legale dell’Università Tor Vergata, ha spiegato che «non sempre si riesce a ricavare del materiale genetico utilizzabile», questo perché «la conservazione in luogo asciutto o umido ha una grande influenza sulla possibilità di estrarre un Dna “pulito”».
In questo caso però non dovrebbero esserci problemi. «Oggi, in virtù delle tecniche che abbiamo, estrarre il Dna è diventato molto più semplice», ha spiegato a La Stampa il generale Luciano Garofano che ha aggiunto: «L’unico problema può insorgere quando ci si trova davanti a frammenti microscopici, ma questo non mi pare il caso. Quindi probabilmente si potrà risalire al Dna sicuro e completo».
Le analisi
Bisogna dunque solamente aspettare. I tempi per le analisi in questi casi vanno da un minimo di 7 a un massimo di 10 giorni. Intanto l’inchiesta della Squadra mobile della polizia di stato, coordinata dalla procura di Roma, va avanti a ritmi serrati. Nei prossimi giorni oltre alle audizioni dei 4 operai che hanno scoperto le ossa è previsto un nuovo sopralluogo e alcune acquisizioni documentali presso la Nunziatura Apostolica, in via Po, al centro della Capitale.
L’obiettivo è quello di accertare quale azienda negli Anni 80 si è occupata della ristrutturazione del pavimento sotto il quale sono state ritrovate le ossa. Le indagini dell’aggiunto Francesco Caporale e del pm Francesco Dall’Olio sono pero’ rese più complicate dall’extraterritorialità. Infatti in un caso speculare avvenuto su territorio italiano il luogo sarebbe stato posto sotto sequestro, ma questo non è possibile essendo di competenza del Vaticano. I poliziotti della scientifica hanno acquisito comunque ogni elemento compreso il terriccio, che potrebbe risultare fondamentale insieme all’esame del C 14, per stabilire l’età del reperto.
Ma questa storia, densa di mistero, è arricchita anche da un altro aspetto poco chiaro. All’epoca della scomparsa delle due ragazze il Nunzio era Romolo Carboni che, pur essendo stimato da Papa Giovanni Paolo II, non fu mai fatto cardinale. Il caso è strano, anche perché per tutti gli altri rappresentanti vaticani in Italia la porpora è puntualmente arrivata qualche mese dopo la fine del loro servizio diplomatico. Perché nel caso di Carboni non fu così? Una domanda, questa, che si aggiunge alle tante che ruotano intorno alla vicenda.
«Ma perché alla scoperta delle ossa si è parlato subito di un collegamento con la scomparsa di mia sorella?», si era chiesto due giorni fa Pietro Orlandi, fratello di Emanuela. Domande alle quali oggi, dopo tanti anni, potrebbero arrivare le prime risposte.
Corriere 2.11.18
Chiesti al Vaticano i documenti sui restauri della Nunziatura
Caso Orlandi, via libera della segreteria di Stato alle indagini. Sentita l’ultima custode
di Fiorenza Sarzanini
Roma Elenco delle ditte che nel corso degli anni hanno effettuato ristrutturazioni, modalità e tipo di intervento compiuto, durata dell’appalto e soprattutto data di inizio e fine lavori: nell’indagine sul ritrovamento delle ossa nella sede della Nunziatura Apostolica, la Procura di Roma si concentra sulla storia di Villa Giorgina. E dispone l’acquisizione presso l’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della Santa Sede, di tutta la documentazione sulla manutenzione del complesso di via Po. Un provvedimento eseguito con il via libera della Segreteria di Stato che ha gestito la vicenda in ogni fase. In queste ore gli investigatori della squadra mobile guidata da Luigi Silipo stanno interrogando i dipendenti, con un’attenzione particolare ai custodi che si sono avvicendati presso la sede dell’ambasciata della Santa Sede in Italia. Lo scheletro e gli altri resti sono stati infatti ritrovati sotto il pavimento nel seminterrato della guardiania. E dunque da lì si parte per cercare di risolvere il mistero.
L’omicidio
Già lunedì la Scientifica potrebbe avere i primi risultati sul Dna da comparare poi con quello di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. Se l’esito dovesse essere negativo si andrà comunque avanti per ricostruire che cosa sia accaduto, nella convinzione che si tratti di una persona uccisa. Non sottovalutando il fatto che i resti potrebbero addirittura appartenere a due persone, una quasi certamente di sesso femminile. E dunque al momento ci si concentra sull’eventualità che possa trattarsi proprio di una delle due ragazze sparite nel 1983.
I primi controlli effettuati sulla documentazione hanno consentito di scoprire che negli anni ‘80 fu sostituito il pavimento di quel seminterrato. E dunque è difficile credere che le ossa risalgano a un periodo antecedente perché in quel caso sarebbero state ritrovate in quell’occasione, proprio come è accaduto la scorsa settimana. Sono tante le voci che si rincorrono, compresa quella sulla sparizione della moglie di un custode negli anni ‘60, ma al momento gli esperti sono convinti che i corpi siano stati sepolti in epoca più recente. Ecco perché sono stati convocati come testimoni i dipendenti. Compresa Anna Mascia, che è stata a lungo responsabile della portineria — dal 2003 fino a pochi mesi fa quando è andata in pensione — e potrebbe conoscere dettagli su quanto accaduto in passato.
La segreteria di Stato
Sono state proprio le autorità ecclesiastiche a fornire l’elenco dei dipendenti in una volontà di collaborazione che è stata autorizzata ai massimi livelli. Nei giorni scorsi, dopo il ritrovamento dei resti, ci sono state consultazioni tra il Nunzio in Italia Monsignor Emil Paul Tscherrig e la segreteria di Stato per decidere come procedere. Dopo un primo esame dei resti affidato agli specialisti scelti dalla Santa Sede — tra loro il professor Giovanni Arcudi — è stato contattato il procuratore Giuseppe Pignatone e lunedì mattina, dopo i colloqui tra la gendarmeria e l’ispettorato di pubblica sicurezza in Vaticano, si è deciso di effettuare il sopralluogo con la Scientifica per recuperare le ossa e avviare l’iter per le analisi di laboratorio.
A questo punto l’indagine rimane di competenza della Procura di Roma. Anche se dovesse trattarsi dei resti di Emanuela Orlandi, sarebbero i pubblici ministeri della Capitale a svolgere l’inchiesta, nonostante negli anni scorsi sia stato aperto un fascicolo presso il Vaticano. La Nunziatura è sede diplomatica e dunque per entrare è necessario ottenere il permesso, ma si tratta di territorio italiano e gli eventuali reati devono essere perseguiti dalla magistratura ordinaria.
Repubblica 2.11.18
Le ossa nella Nunziatura
Orlandi, la polizia in Vaticano s’indaga sulla villa del mistero
Acquisiti gli atti sulla storia dei lavori. Negli anni Sessanta sparì la moglie del custode
di Maria Elena Vincenzi
Roma Intanto gli accertamenti sull’immobile. Nell’attesa che gli esperti della scientifica inizino ad analizzare le ossa trovate lunedì sotto al pavimento della casa del custode di Villa Giorgina, sede della Nunziatura Apostolica, la squadra mobile cerca di ricostruire la storia della villa. E, soprattutto, della dependance del guardiano. Per questo gli investigatori sono andati all’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica, per acquisire il fascicolo di Villa Giorgina. La speranza è di poter ricostruire attraverso i documenti i lavori che, nel corso degli anni, sono stati eseguiti.
Queste carte potrebbero già fugare qualche dubbio chiarendo quando è stato rifatto il pavimento del seminterrato dove sono stati trovati i resti. Stando a un primo esame, alcuni lavori di ristrutturazione sarebbero stati eseguiti intorno agli anni Ottanta. Ed è determinante sapere, a questo punto, se sono stati prima o dopo il 1983, anno in cui sparirono sia Emanuela Orlandi sia Mirella Gregori, entrambe quindicenni. Perché se sono stati prima, i resti rinvenuti lunedì dagli operai non possono, ovviamente, essere i loro. In ogni caso, però, si procederà all’analisi delle ossa e alla comparazione del codice genetico ( quello delle due ragazzine, era già stato acquisito dalla procura).
Mistero e speranza si rafforzano. A dare ancora più fascino alla suggestione che gli scheletri possano essere quelli delle due adolescenti scomparse nel nulla, anche la questione del quartiere dove sono stati rinvenuti. Non solo Mirella Gregori viveva a pochi metri da via Po, ma Sabrina Minardi, amante del boss della Magliana Enrico De Pedis, raccontò ai magistrati che uno dei più stretti collaboratori di " Renatino" abitava proprio lì, al civico 25. Tra il 1983 e il 1985, Giuseppe Scimone, morto 12 anni fa, aveva casa in via Po: per la testimone ebbe un ruolo fondamentale nel sequestro di Emanuela.
Ma le due giovanissime non sono le uniche persone scomparse. Stando a un’altra pista investigativa che, come le altre, rimarrà senza conferma fino a che non saranno analizzate le ossa, la moglie dell’uomo che lavorava come custode della Nunziatura negli anni Sessanta sparì in circostanze misteriose. La donna non andava d’accordo col marito e scomparve dall’oggi al domani senza lasciare traccia. Ipotesi che, però, non spiegherebbe a chi appartengano gli altri resti trovati. Perché in una storia che, per il momento, di punti fermi ne ha pochi, uno è che le ossa appartengano a due persone. E che una di queste sia di sesso femminile. Per tutte le altre risposte non si può far altro che attendere: già domani inizieranno i primi esami della polizia scientifica.
Repubblica 2.11.18
Svidercoschi
"Neanche Wojtyla credeva ai legami tra la scomparsa e il caso Agca"
di Paolo Rodari
CITTÀ DEL VATICANO «Chiesi nel 2006 a Stanislao Dziwisz, segretario di Giovanni Paolo II scomparso l’anno precedente, che cosa sapesse il Papa della scomparsa di Emanuela Orlandi. Mi rispose che Wojtyla non credeva alle ricostruzioni che legavano l’attentato di Ali Agca con la scomparsa di Emanuela. Di vero, mi spiegò, c’era solo la sua angoscia per la sorte della ragazza».
Gianfranco Svidercoschi, 82 anni, da 60 segue da giornalista le vicende del mondo vaticano.
Fresco autore di "Un Papa che divide?" (Rubbettino), nel 1983, poche settimane dopo la scomparsa della Orlandi, divenne vicedirettore dell’Osservatore Romano.
Cosa accadde?
«Un giornale, viste le mie origini polacche, scrisse che ero stato nominato per le mie conoscenze del mondo dei servizi segreti dell’Est Europa. Che senz’altro mi sarei adoperato per il caso Orlandi del quale sapevo cose di cui nessuno era a conoscenza. Mi stupii molto.
Non avevo rapporti coi servizi e della scomparsa della Orlandi sapevo quello che scrivevano i giornali».
Incontrò i familiari di Emanuela?
«L’Osservatore si trovava vicino all’abitazione degli Orlandi.
Incrociai un giorno il padre di Emanuela, Ercole. Lui mi esternò il suo dolore per la scomparsa della figlia: almeno in quella fase, era convinto che fosse incappata in una morte violenta, forse vittima di un maniaco. Era girata la notizia di un uomo che aveva offerto un lavoro a Emanuela il giorno in cui sparì. E lui era convinto vi fosse un legame».
Cosa pensa delle ossa ritrovate nella Nunziatura?
«Non credo che il Vaticano c’entri qualcosa. La sua storia è piena di dietrologie senza senso. E il Vaticano di oggi è senz’altro in un periodo di confusione. Ma pensare che per nascondere una persona morta vadano a scegliere un loro palazzo è un controsenso».
La Stampa 2.11.18I misteri di Roma
Il volto di Emanuela e l’eterna ragnatela dei misteri di Suburra
di Mattia Feltri
«È stata Roma», dice Samurai, ovvero Claudio Amendola nel film Suburra. Samurai era il duemilionesimo «ultimo boss» della Banda della Magliana, passato dalle cronache al romanzo della Grande Meretrice – Roma, appunto – per poi tornare ai titoli dei giornali col suo vero nome, Massimo Carminati, nelle prosaiche avventure di Mafia capitale.
Alla domanda su chi avesse ucciso Tal dei Tali, Samurai dice che è stata Roma, e potrebbe essere la risposta di sempre, da che Romolo uccise Remo, e fino alle ossa di donna spuntate da sotto il pavimento della Nunziatura Apostolica di via Po, che davvero appartengano a Emanuela Orlandi, come è improbabile, oppure no: comunque è stata Roma.
Sono state le luci notturne di Roma, i sotterranei, le oscure ombre di sottana che si muovono nelle tenebre, anche dell’anima, le manine e le manacce, le spie sotto copertura, i sussurri, le telefonate anonime, i denari, le baldorie orgiastiche, le cospirazioni, i deliri allucinogeni, i palazzi del potere e dell’occultismo, i ricatti incrociati come spade silenti, è stata la millenaria ragnatela dei misteri di Roma.
Tutta questa irresistibile mitologia, questa realtà sommata a realtà il cui risultato è sempre la surrealtà, è calata sul delizioso viso di Emanuela che in quei giorni dell’estate di trentacinque anni fa era affisso a ogni parete, ogni pensilina, ogni vetrina della Grande Meretrice, e le ragazze presero, come lei, a indossare una fascetta sulla fronte, a fare di Emanuela un modello di fascino, una prima piccola sventurata influencer.
Per i trentacinque anni successivi niente del vero, del verosimile e del falso, dell’intrattenimento e dello spettacolare, del meschino e dell’indicibile è stato risparmiato alla famiglia Orlandi, residente dentro le mura del Vaticano che, nel pomeriggio del 22 giugno del 1983, la quindicenne Emanuela attraversò per raggiungere la scuola di musica di piazza Sant’Apollinare. Guarda caso. Si cominciò a dirlo da subito: guarda caso. Guarda caso lo studio di Oscar Luigi Scalfaro è a due passi, guarda caso il Senato è a due passi, guarda caso quella sera una ragazzina chiese a un vigile come raggiungere la Sala Borromini di Palazzo Madama, guarda caso a due passi c’è anche la Basilica che dà nome alla piazza e guarda caso il rettore era monsignor Pietro Vergari, guarda caso amico di Renatino De Pedis, guarda caso boss della banda della Magliana, guarda caso Scalfaro e Vergari sono amici, guarda caso Scalfaro sta per diventare ministro dell’Interno, e guarda caso tutto torna: realtà sommata alla realtà il cui risultato è la surrealtà.
Guarda caso De Pedis è stato incredibilmente tumulato nella basilica di Sant’Apollinare e a due terzi di questa storia dell’assurdo arriva una telefonata a Chi l’ha visto? e dice se volete la verità aprite il sarcofago di De Pedis, e dentro c’è Emanuela. Lo aprono e guarda caso Emanuela non c’è.
È stata Roma, è successo nei passaggi segreti dove gli uomini di Stato incontrano gli uomini di Dio a siglare patti con gli uomini del Demonio. È la Suburra, la stessa identica Suburra di criminali e sacerdoti in cui duemila anni fa salì la gloria di Giulio Cesare, la Suburra ideale di questa villa vicino alla Salaria dove, sotto al pavimento, hanno trovato le ossa di una, forse due donne ed è territorio vaticano e quelli per terrore di aggiungere una goccia al mare del complotto chiamano subito le autorità italiane che nella Nunziatura nemmeno ci potrebbero entrare, è estero, non hanno alcuna competenza, e allora vedi che la goccia s’aggiunge lo stesso, e qualcuno già lo dice: guarda caso.
Guarda caso stavolta non imboscano, non tramano, e guarda caso lì a due passi abitava un tal Scimone, guarda caso della Banda della Magliana, e guarda caso a dieci minuti a piedi dalla Nunziatura abitava la famiglia di Mirella Gregori, scomparsa come Emanuela, un mese e mezzo prima di Emanuela, quindicenne come Emanuela, mai più rivista. Portata via dagli spettri, come Emanuela e gli altri ottantatré minori volatilizzati a Roma nell’Ottantatré.
È questa la ragnatela della Grande Meretrice, ogni uomo e ogni luogo sono collegati da un filo di bava, da storie familiari e di potere, da suggestioni raggelanti che sprofondano nei secoli. Talvolta tutti i dettagli subito dopo la pubblicità: infatti è trascorso un lustro dal giorno in cui alla solita trasmissione tv fu inviato un frammento di tre minuti della conversazione fra un tizio e il centralino della Santa Sede, e il tizio dà il codice, il numero 158, che gli permette di raggiungere telefonicamente monsignor Casaroli. Che si dicano i due, il frammento non lo svela. Ma svela che c’è ancora parecchio da svelare, e da ricattare. C’è ancora chi telefona in tv per dire che Emanuela è in Svizzera, è in Francia, è in Inghilterra, chi semina indizi su strade cieche. Siamo ancora alle sedici telefonate che nell’estate di trentacinque anni fa un uomo con accento anglosassone, e subito soprannominato l’Amerikano, spende per chiedere in cambio di Emanuela la liberazione di Ali Agca, l’attentatore di Wojtyla. L’Amerikano, si disse, chissà se è monsignor Marcinkus, il presidente dello Ior dove erano transitati i miliardi della mafia poi scomparsi con il crac dell’Ambrosiano che Roberto Calvi pagò con la vita sotto il ponte di Londra. Guarda caso. Guarda caso la Banda della Magliana si incarica di recuperarli in cambio di Emanuela. Guarda caso Sabrina Minardi, ex moglie del bomber della Lazio, Bruno Giordano, intanto passata fra le braccia di De Pedis, assiste alla consegna della ragazza a un prete, e sa che Marcinkus la userà per sfoghi sessuali.
Guarda caso padre Amorth, il sommo esorcista di Roma, sa che Emanuela è precipitata nelle feste della pedofilia e della cocaina nei postriboli del clero, dei ministri e dei diplomatici. E ci sarebbe anche la Stasi, la polizia segreta della Germania Est che si infila nel bordello e, per scagionarsi dai sospetti sull’attentato al Papa, spedisce lettere firmate dai Lupi Grigi di Agca che rivendicano il sequestro. Ci sarebbe la P2. La tratta delle bianche. Ma è soltanto un’infarinatura sui mille grovigli, le mille torri e le mille catacombe di Roma, teatro sublime della realtà che sommata alla realtà produce il surreale.
Alle 19 del 22 giugno 1983, Emanuela esce dalla scuola di musica. Aspetta l’autobus con una o due amiche. Alla sorella ha detto che un uomo le ha offerto un piccolo lavoro ben retribuito. Forse lo accetterà, forse no. Fatto sta che Emanuela all’ultimo decide di non prendere l’autobus. Fra poco sarà buio.
La Stampa 2.11.18
“Milioni dai Caraibi”
Accusa di riciclaggio al nunzio apostolico
di Marco Grasso Matteo Indice
Il 4 settembre 2015, davanti al notaio Andrea Piermari, viene siglato un atto abbastanza anomalo. Ettore Balestrero, arcivescovo oggi poco più che cinquantenne, astro nascente della diplomazia vaticana durante il papato di Joseph Ratzinger e attuale nunzio apostolico in Colombia, sottoscrive una donazione di quasi 4 milioni di euro al fratello Guido, importatore di carni. Tre anni più tardi sia Ettore sia Guido risultano indagati per riciclaggio internazionale: secondo i pm genovesi Francesco Pinto e Paola Calleri quel “regalo” era in realtà la chiusura d’un cerchio, per far rientrare gli introiti neri d’un maxi-contrabbando, soldi passati per un paradiso fiscale, una banca svizzera e tornati nel nostro Paese attraverso lo “scudo”. Un’operazione che, lo certificano le intercettazioni condotte dai finanzieri del nucleo di polizia tributaria, era in parte nota ad almeno un alto prelato tuttora presente in Vaticano: si tratta del penitenziere maggiore Mauro Piacenza, cardinale e già prefetto della Congregazione per il clero, che non è indagato ma ricevette al telefono alcune confidenze cruciali proprio da Ettore Balestrero. Quest’ultimo, legato a Comunione e Liberazione e da sempre vicino a Piacenza, su mandato di Tarcisio Bertone al tempo in cui era segretario di Stato aveva curato con approccio senza dubbio cauto situazioni scottanti per l’Istituto opere religiose (Ior, la banca vaticana).
Il contrabbando di carne
L’inchiesta registrerà un passaggio fondamentale il 26 novembre: davanti al giudice Ferdinando Baldini si terrà, nella forma dell’incidente probatorio quindi con valore processuale, l’interrogatorio del padre dei due fratelli inquisiti, Gerolamo, fondatore dell’impresa che avrebbe compiuto il primo contrabbando. Sebbene da testimone non abbia chiarito granché, si è poi assunto alcune responsabilità e per lui è scattato l’addebito di autoriciclaggio. L’input agli accertamenti era invece arrivato con una segnalazione di Bankitalia, che ravvisava anomalie nella super-donazione da Ettore a Guido. A quel punto gli investigatori hanno riafferrato il filo d’una storia che si è protratta per quasi vent’anni, trovando la documentazione forse decisiva con un blitz a Ponte Chiasso, dov’era stato fermato un collaboratore dei Balestrero di ritorno dalla Svizzera.
Per orientarsi bisogna partire dal giugno 1998. El País rivela uno scandalo andato in scena fra Italia, Spagna e Argentina. Guido Balestrero e il papà Gerolamo, ai vertici della Balestrero 1961, avrebbero ammorbidito funzionari del ministero del Commercio spagnolo per ottenere licenze taroccate dal Gatt (predecessore del Wto, World trade organization). L’obiettivo era far entrare da Buenos Aires, tramite Madrid, più merce di quanto fosse consentito a livello comunitario. I Balestrero hanno patteggiato, ma nel nuovo filone si punta sulla plusvalenza generata da quel traffico. Dove sono finiti i soldi, e chi ha fatto da intermediario?
La fiduciaria e “mano molla”
L’architettura societaria, secondo le Fiamme Gialle, è imbastita da un broker elvetico soprannominato «mano molla». Per celare gli introiti fuorilegge viene creata la società Tamara con sede alle Isole Vergini Britanniche. E il «beneficiario» delle operazioni condotte da Tamara tramite la fiduciaria svizzera Finimex, su un conto all’Ubs di Lugano, è l’arcivescovo Ettore Balestrero, il suo nome è indicato nelle carte intercettate a Ponte Chiasso. Sul deposito gestito da Finimex, fra 2000 e 2003, finiscono 7 milioni di euro che a parere dei pm rappresentano la lievitazione dei guadagni ottenuti dalla famiglia con i commerci illegali. Nel 2003, grazie a uno scudo fiscale, 3,5 milioni rientrano in Italia da Lugano su un conto aperto in Banca Esperia sempre dall’arcivescovo.
La difesa: “Non sapevo”
Il resto approda al medesimo istituto negli anni successivi, fino all’accordo del 4 settembre 2015 fra l’attuale nunzio apostolico e il fratello. I militari sono convinti che le somme rimpatriate servissero a un’importante operazione immobiliare. Ettore Balestrero, accompagnato dai legali Luca Marafioti e Mauro Ronco, durante un interrogatorio sostenuto nei mesi scorsi si è difeso dicendosi all’oscuro del giro di conti a lui collegati.
il manifesto 2.11.18
Manovra, scuola e università sono i grandi assenti
Sigarette più care, rischio aumento per addizionali locali e Imu sulle seconde case, la norma sulle terre gratis in cambio di un terzo figlio, assunzioni di 6 mila nuovi poliziotti e 1.500 vigili del fuoco e la misura «meritocratica» che aggancia il 110 e lode del voto di laurea alla speranza di un’assunzione tramite l’immancabile sgravio fiscale per le imprese. Come tutte le leggi di bilancio, anche quella depositata alla Camera dal governo gialloverde contiene numerose micro-norme in cui si nascondono sorprese e insidie di ogni tipo. Nel testo composto da 108 articoli che arriverà in aula tra il 29 e il 30 novembre prossimi pesano varie incognite, tra cui la probabile procedura d’infrazione dell’Unione, la stima di Bankitalia di 5 miliardi d’interessi in più da pagare nel 2019 come effetto dell’aumento dello spread. Dalla relazione tecnica alla legge di bilancio emergono i dettagli, vedremo se saranno confermati e come.
NEL FLORILEGIO partorito negli ultimi tre mesi va inoltre segnalato il dimezzamento dell’alternanza scuola lavoro. Nel triennio si passa dalle 400 ore previste per tecnici e professionali alle attuali 150 per i tecnici e 180 per i professionali, per i licei la riduzione è da 200 a 90 ore. Per la maturità 2019 l’alternanza non vale per accedere all’esame di maturità. Si tratta di un provvedimento cosmetico che non intacca in nessun modo tutti i nodi di fondo del più grande esperimento sociale subìto dalla scuola italiana nel secondo Dopoguerra e lascia intatti i gravosi problemi didattici creati dalla «Buona scuola» di Renzi e dal Pd.
GLI STUDENTI del Coordinamento Link tornano a sollevare l’assenza di ogni rifinanziamento all’istruzione, come all’edilizia scolastica e universitaria, in una manovra che ha tutt’altre priorità. Criticano Di Maio che ha condiviso il video del crollo di un soffitto del Politecnico di Milano, Torneranno nelle piazze il 16 novembre.
Repubblica 2.11.18
Chi minaccia l’unità della scuola
di Alberto Asor Rosa
In un’intervista al Corriere della Sera il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti ha dato una notizia e manifestato un’intenzione che mi hanno fatto rabbrividire.
Rabbrividire di questi tempi?
Dovevano essere un’intenzione e un’intenzione di grande portata e gravità. Io penso infatti che lo siano.
Alla domanda: «Veneto e Lombardia hanno presentato la nuova bozza d’intesa per l’autonomia e chiedono di poter "regionalizzare" professori e presidi che diventerebbero dipendenti della Regione e non più dello Stato. Lei è d’accordo?». Il ministro risponde che «c’è un dibattito in corso». «Ma l’aspetto positivo — aggiunge — è che le due regioni promettono di mettere più risorse per gli stipendi degli insegnanti»(!).
Comunque: «Sarà un cammino sicuramente lungo, ma potrebbe essere un’opportunità, un modello anche virtuoso di gestione più capillare delle scuole». Quindi, il governo andrà avanti in questa direzione.
Ne ricaviamo questo convincimento: fa parte del programma e, ancor più, della cultura di questo governo la "regionalizzazione" della scuola italiana. Ecco l’intenzione di grande portata e gravità.
La scuola italiana, allo stato attuale delle cose, rappresenta uno dei capisaldi di maggiore unità, — culturale, ideale, professionale, — del Paese. Più delle istituzioni? Più delle Camere? Più del governo? Più dei partiti (discorso più differenziato, ma alla fine analogo)? Io direi: in questa fase, inequivocabilmente sì. C’è soltanto la presidenza della Repubblica che continua a muoversi senza equivoci né riserve nella stessa direzione. La sostanziale unicità dei programmi, elementi fondamentalmente comuni nella formazione degli insegnanti e dei presidi, la loro circolazione, per quanto difficile e precaria, fra una Regione e l’altra del paese, il senso, secondo me presente ovunque, di stare facendo un lavoro comune (spesso, non esagero, un eroico lavoro comune),fanno della scuola una spina dorsale del Paese.
Questa unitarietà e centralità della scuola andrebbe condivisa ed esaltata in tutti i modi, sia finanziari sia culturali che professionali, invece di contrastarla, come sempre più chiaramente sta emergendo (per non parlare della mostruosità per cui professori di Como e di Afragola verrebbero pagati in misura diversa per insegnare le stesse cose!). Tutto ciò è possibile anche oggi, nonostante tutte le difficoltà che vi si frappongono.
Ma non c’è solo questo all’orizzonte: il passo successivo potrebbe essere logicamente la "regionalizzazione" delle Università, della ricerca scientifica e, perché no, dei giornali e delle case editrici, insomma, di tutto quanto contribuisce all’unità mentale e ideale del Paese. Quel che voglio dire è che la "regionalizzazione" della scuola rappresenterebbe un prodromo e un coefficiente formidabile della disunione del Paese.
Tutto nell’orbita, naturalmente, delle prospettive che regolano i comportamenti delle forze politiche che ci governano. Motivo di più per opporglisi fin d’ora con grande risolutezza ed energia. La scuola italiana è in grado di farlo.
Repubblica 2.11.18
Il Festival dell’Economia di Trento a rischio
Trento, il crocevia tra gli economisti e la vita vera
Sbagliato definirlo "di sinistra". In 13 anni ha visto passare studiosi di ogni orientamento
di Tonia Mastrobuoni
Luciano Gallino era un sociologo innamorato dei numeri, un uomo asciutto e gentile. E parlava talmente a bassa voce che era difficile immaginarlo su un palco. Oltre dieci anni fa andai per la prima volta al Festival dell’Economia di Trento per presentare un suo libro. Ero distratta quando entrai nella sala. Sembrava di stare a un concerto rock. La sala era strapiena di giovani, decine erano in piedi o seduti a gambe incrociate tra le file. Gallino non era ancora arrivato: una studentessa con la mano tremante mi porse un libro e mi chiese se potevo farmelo "autografare" — disse così — da quel professore piemontese.
Dopo quell’incontro, tornai in albergo e spinsi il pulsante dell’ascensore. Quando si aprì rimasi di nuovo senza parole.
Due occhietti vispi mi guardavano con un misto di curiosità e ironia. Salutai Paul Krugman e balbettai due parole sul suo "La coscienza di un liberale" (Laterza) che era appena uscito in Italia. Lui ringraziò e trotterellò fuori dall’ascensore. Quell’anno fece una lezione memorabile, di nuovo davanti a una folla da stadio che aveva fatto un’ora di fila per entrare nella sala. Per le strade del centro si fermò un paio di volte per intrattenersi con un gruppetto di ragazzi che gli facevano domande su domande. L’anno dopo vinse il Nobel.
Il Festival dell’Economia di Trento è sempre stata una gigantesca piazza, un’agorà in cui economisti di ogni orientamento, e non solo quelli «con una precisa visione economica e politica del mondo, espressione della sinistra», come ha affermato ieri a Repubblica il neo presidente della Provincia, Maurizio Fugatti (Lega), si sono confrontati apertamente col pubblico.
Anzitutto è il formato ad invitare alla discussione: anche i Nobel si sottopongono a un fuoco di fila di domande, dopo le loro lezioni. Nove anni fa Tito Boeri mi invitò a coordinare le presentazioni dei libri. La prima volta che mi dimenticai di aprire la discussione alla platea — alla fine della presentazione del libro di Giorgio Ruffolo avevo visto gente in prima fila con gli occhi lucidi e non avevo avuto il cuore di interrompere la sua lezione — fui giustamente rimproverata da una signora che avrebbe voluto fare una domanda a uno dei più straordinari affabulatori della nostra storia.
In tredici anni, decine di Nobel e centinaia di studiosi di tutto il mondo si sono alternati sui palchi di Trento nei giorni di fine maggio tradizionalmente dedicati alla "scienza triste".
Alcuni di loro sono difficilmente assimilabili alla ‘sinistra’ — qualsiasi cosa voglia dire — come gli economisti della Scuola di Chicago Gary Becker e Luigi Zingales o come Tyler Cowen, Alberto Alesina, Kenneth Rogoff o l’ex consigliere di Bush Laurence Kotlikoff.
L’idea folle di rendere "pop" l’economia venne a Giuseppe Laterza dopo aver visto il Festival della Filosofia a Modena. Ne parlò con Innocenzo Cipolletta e chiamarono Tito Boeri a fare il direttore scientifico.
Non era un compito facile, ma Trento fu sin dalla prima edizione un successo clamoroso. Anche per la città: secondo uno studio dell’Università di Trento, il moltiplicatore è 4 o 5. Vuol dire che per ogni euro speso per il Festival, Trento ne incassa 4 o 5.
Quando venne Zygmunt Bauman, gli organizzatori si erano preparati per qualche centinaio di spettatori; in fretta e furia l’evento fu spostato in un auditorium che ne conteneva 1.500, che si riempì in un battibaleno.
Il piccolo miracolo di una disciplina ostica resa più comprensibile ha attratto non a caso migliaia di persone.
Secondo l’Ocse gli italiani continuano a essere meno preparati in economia e finanza rispetto alla media degli altri Paesi sviluppati. E una delle maggiori economiste al mondo, Annamaria Lusardi — anche lei è stata ospite del Festival — ha dimostrato che non è un dettaglio: il 30-40% delle diseguaglianze si spiega anche per la scarsa conoscenza di queste materie. Altri studiosi hanno dimostrato che se gli americani avessero ricontrattato i loro mutui dopo il crollo dei tassi, avrebbero guadagnato in media 11.500 dollari in più.
Conoscere l’economia non significa solo sapere cos’è lo spread: significa vivere meglio. E significa anche saper interpretare la politica, se ogni tanto è consentito citare Karl Marx, indubbiamente un filosofo di sinistra.
A Trento sono venuti Giulio Tremonti e Roberto Maroni, Giulia Bongiorno, Diego Fusaro, Giulio Sapelli, Andrea Roventini o Chiara Appendino, e non solo Manuel Valls, Helene Rey, Amartya Sen, Esther Duflo, Tommaso Padoa-Schioppa o Joseph Stiglitz. E manager italiani considerati dei fuoriclasse in tutto il mondo come Sergio Marchionne o Vittorio Colao. A proposito di confronti, è rimasto nella storia uno scontro ferocissimo a cena tra Colao e l’economista Mariana Mazzuccato, che accusava il top manager di ricomprare azioni della sua azienda invece di fare investimenti lungimiranti. A riprova che gli economisti non hanno affatto un pensiero unico.
Piuttosto un metodo condiviso. E non è certo un buon motivo per diffidare di loro.
il manifesto 2.11.18
Atac, sindacati contro il Sì del Pd: disinformati e contro i lavoratori
Referendum. A dieci giorni alla consultazione a Roma sulla liberalizzazione della municipalizzata del trasporto pubblico Filt Cgil, Fit Cisl e Uilt scrivono una lettera aperta al Partito Democratico. L'esempio di Cotral (risanata e rilanciata dalla Regione Lazio) e di Tpl (azienda privata che ha in appalto parte del servizio)
di Massimo Franchi
A dieci giorni dal referendum consultivo su Atac – la municipalizzata dei trasporti di Roma di cui i Radicali propongono la messa a bando aprendo ai privati – la questione diventa sempre più politica e nazionale. A far discutere è la presa di posizione a favore della liberalizzazione fatta dal Pd. Ieri, dopo un parto lungo due giorni, i segretari dei sindacati di categoria romani hanno scritto una dura «lettera aperta al Partito democratico», accusato di essere ancora una volta slegato rispetto ai lavoratori e di essere caduto nel «plebiscitarismo dell’audience».
Tutti i sindacati sono schierati sul No e non puntano a boicottare il referendum per far sì che non raggiunga il quorum del 33 per cento – 800mila votanti-, come invece fece Renzi sulle trivelle nel 2016.
Ma a scrivere al Pd sono i confederali: Filt Cgil, Fit Cisl e Uilt con i loro rispettivi segretari regionali Eugenio Stanziale, Marino Massucci e Simona Rossitto. «L’11 novembre i cittadini romani sono chiamati a esprimersi su una materia complessa e articolata come il destino di Atac, una realtà aziendale che occupa oltre 11mila persone e garantisce un servizio universale alla città di Roma – ricordano i sindacalisti – . Per decidere come schierarsi in merito, il Pd ha deciso di affidarsi ad una consultazione interna ai propri iscritti, bypassando di fatto una doverosa fase informativa e rinunciando alla funzione di orientamento che un partito politico dovrebbe esercitare nei confronti dei propri elettori. È mancato – denunciano – un dibattito sulle conseguenze dell’eventuale privatizzazione di un servizio essenziale come il trasporto e non è stato avviato un confronto con i rappresentanti dei lavoratori, con chi vive quotidianamente a fianco delle persone in carne ed ossa e dà voce alle loro preoccupazioni». «Il rischio – continua la lettera – è che il quesito referendario dell’11 novembre venga interpretato in maniera fuorviante: come un “sì” o un “no” alla difesa dello status quo di Atac. La domanda non è così semplice, così come non è semplice la risposta: ciò che serve urgentemente alla città di Roma e al Lazio è una pianificazione strategica, lungimirante e organica sui trasporti, guidata da una visione solida e di lungo raggio».
L’esempio è quello di Cotral – l’azienda del trasporto su gomma regionale – che proprio il Pd di Zingaretti ha risanato e rilanciato, tutto con fondi pubblici. I sindacati ricordano che circa il 90 per cento delle del trasporto pubblico locale è pubblico: ben l’87 per cento di queste è in utile, prima fra tutti l’Atm Milano.
«Esiste – prosegue la lettera – una vasta letteratura secondo cui le privatizzazioni hanno portato al generale peggioramento della qualità del servizio e delle condizioni di lavoro delle aziende sotto esame». Anche qui non serve andare lontano. Proprio la situazione disastrosa di Atac ha portato ad appaltare oltre 10 per cento del servizio ad un’azienda privata – Tpl- che non rispetta diritti e salari dei lavoratori: «un monito per renderci consapevoli di quello che realmente significa privatizzare», scrive la Filt Cgil.
Il Fatto 2.11.18
Il nuovo terrore Atomico di Trump
“Punizione preventiva”. Il presidente americano vuole eliminare qualsiasi possibilità di equilibrio, spaventare i nemici al punto di annullare ogni difesa anche legittima. Per questo punta sull’aumento degli ordigni nucleari
di Fabio Mini
Ci sono diverse ragioni per la rinuncia al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari più volte annunciata dal presidente Usa Donald Trump. Ci sono le elezioni di “mezzo termine” che dovrebbero ricompattare i Repubblicani.
Ci sono le pressioni degli “amici“ inglesi, australiani, israeliani, sauditi, egiziani, libici, giapponesi, indiani e subsahariani che soffiano sul fuoco della destabilizzazione regionale per influenzare la politica globale delle grandi potenze. Ci sono i magri risultati della guerra dei dazi. C’è il calo di credibilità internazionale che ha vanificato il ruolo di “potenza benevola” svolto dall’America per oltre mezzo secolo. Ognuna di queste evenienze ha una logica e un percorso risolutivo diverso, ma nell’ottica di Trump tutte dipendono da un solo fattore: il mondo non ha più paura degli Stati Uniti e non crede che essi possano risolvere alcun problema. Per far tornare la sana paura che induce tutti a tacere sulla pace e invocare l’intervento taumaturgico dei carri armati americani ci sono due minacce: il terrorismo globale e la guerra nucleare. Il primo, a lungo attribuito all’Islam, si è attenuato e si è dimostrato più locale che globale. La seconda è la forma suprema di terrorismo internazionale spacciata per deterrenza: l’uso della potenza distruttrice per terrorizzare un avversario al punto di farlo desistere da un attacco.
Un tempo, questa deterrenza si basava sull’equilibrio delle forze che, nel caso nucleare, poteva essere ottenuto anche con una consistente riduzione degli arsenali. L’effetto di 30.000 testate nucleari pronte a partire da una parte e altrettante dall’altra era identico a quello ottenibile con 10 testate ciascuno. Ma la deterrenza basata su un solo ordigno a testa è ottenibile da quasi tutti i Paesi del mondo (vedi Corea del Nord). Quella basata su 10 sarebbe possibile per una ventina di Paesi e quella di 100 ordigni a una decina: un numero ancora troppo elevato che non garantisce agli Stati Uniti e alla Russia l’esclusività della capacità nucleare e aumenta i rischi di banalizzazione dell’uso (come nel caso di India, Pakistan e Israele) o di scoppio accidentale e terrorismo. L’abnorme numero di ordigni era quindi dettato dalla logica di ridurre il numero di detentori di capacità globale e asservire quelli a capacità regionale.
Ciò che Trump vuole oggi è qualcosa di più: eliminare qualsiasi possibilità di equilibrio, terrorizzare al punto di annullare qualsiasi difesa anche legittima. Per questo punta sull’aumento degli ordigni a disposizione e relativi mezzi di lancio (aerei, portaerei, missili, sommergibili, satelliti). Per questo, oltre alla deterrenza e alla dissuasione, pensa alla “punizione preventiva” dei potenziali avversari e all’estorsione nei confronti degli “amici” imponendo l’ombrello nucleare “in affitto” a tutti coloro che non vogliono e non possono dotarsi di tali armamenti. In questo senso, il trattato di non proliferazione siglato da Gorbaciov e Reagan, è un impedimento reale e concreto che va smontato. Anche con le fandonie. Non è affatto vero che il trattato è stato violato dalla Russia, dall’Iran, dalla Corea del Nord o da Israele. I primi due Paesi hanno avviato i progetti di potenziamento o realizzazione di ordigni di fronte alla crescente inaffidabilità statunitense di stare ai patti. La Corea del Nord si è ritirata dal trattato e Israele, India, Pakistan e Sudan del Sud, non l’hanno mai firmato. Non è vero che la maggiore potenza nucleare elimina la proliferazione: in realtà la incrementa, come nel caso dell’Iran che è tornato ai progetti iniziali in risposta alla denuncia dei patti con gli Usa e alla crescente minaccia convenzionale e nucleare d’Israele. E non è vero che una nuova corsa agli armamenti nucleari possa arrestare la proliferazione convenzionale, ridurre i conflitti o risolvere quelli in atto. Anzi, le prossime generazioni dovranno vivere sotto la spada di Damocle nucleare che renderà alcuni meno liberi e altri (compresi gli stessi americani) schiavi della paura e della contrapposta arroganza.
Questa strategia americana non è un parto della mente di Trump. È stata concepita subito dopo l’implosione dell’Unione Sovietica e ha continuato a svilupparsi invocando l’esigenza di sicurezza dal terrorismo, dalla crescente potenza cinese e dal ritorno sulla scena politica internazionale della potenza russa. Ogni pretesto è stato buono per vagheggiare la strategia nucleare all’insegna del “bottone più rosso e più grosso”.
La stessa Nato, con un ammiraglio italiano alla presidenza del Comitato militare, si è prestata a favorire un ritorno alla strategia nucleare non solo degli Usa, ma dell’intera Europa (Francia e Gran Bretagna in testa) inserendo nel Concetto Strategico del 2010 la deterrenza nucleare che soggiaceva alle pretese anti-russe dei “nuovi membri” e riapriva le porte alla ritorsione nucleare sul territorio europeo. Da tempo gli Stati Uniti sapevano che la corsa nucleare, con conseguente aumento delle spese militari, sarebbe stato il più grosso business del nuovo secolo. Dalla prima revisione degli assetti strategici americani del 2001, risultava che i profitti derivanti dalla politica militare erano stagnanti. La lotta al terrorismo ha dato un po’ di ossigeno ma non aveva bisogno di grandi investimenti.
Da trent’anni negli Stati Uniti le spese per il personale militare sono costanti. Sono aumentate le spese (e i ricarichi truffaldini) delle agenzie di contractor. Ma nulla di sostanziale a favore delle grandi industrie. Le spese per la ricerca e lo sviluppo militare sono anch’esse stabilizzate. Si è anzi delineata la crescente dipendenza militare dalla ricerca privata. E così sono diminuiti gli investimenti per i grandi progetti strategici. Le guerre su tutti i fronti hanno infatti aumentato solo le spese per i consumi correnti: uomini (comprese quelle per gli addestramenti intensivi, le indennità per i feriti, i traumatizzati e i superstiti dei caduti), mezzi da combattimento, equipaggiamento, carburanti, missili, munizioni… Il presidente Obama ha provato a correggere questa “anomalia” con la diminuzione dell’impegno bellico e i compromessi politici. Ha ridotto la presenza militare in combattimento privilegiando le azioni singole e isolate (droni, Cia, forze speciali). Così i conflitti sul terreno hanno perso capacità risolutiva, il morale delle truppe è diminuito, la popolarità del presidente è crollata e la credibilità della potenza militare americana è stata gravemente compromessa. Obama si è trovato impantanato in conflitti vecchi e ne ha aperti nuovi altrettanto inconcludenti. Trump vorrebbe recuperare credibilità personale ricorrendo alla forza militare, ma è un gioco pericoloso quanto quello tentato dal suo predecessore.
Nessun presidente americano ha mai pensato a sfruttare la potenza militare se non per gli interessi commerciali, politici e industriali di alcuni gruppi di potere. La stessa casta militare è completamente asservita a tali gruppi e il proposito di riaprire una nuova era di terrore nucleare li trova completamente conniventi. In America e altrove.
Corriere 2.11.18
La geopolitica dei muri
Trump, i miti del complotto
e la carovana dei migranti
di Donatella Di Cesare
Quando arriveranno alla frontiera con gli Stati Uniti? Forse una minuscola avanguardia giungerà tra un mese. Ma per i più la smisurata distanza del territorio messicano è un ostacolo insuperabile. Non si sa quanti siano davvero: tremila, quattromila, seimila. Nessuno può contarli. Ormai si sono sparsi e frammentati.
Certo è che il 12 ottobre molti honduregni, rispondendo a un messaggio rilanciato sui social network, si sono messi in marcia verso l’America. Hanno formato una carovana partita da San Pedro Lula. Insieme si è meno vulnerabili. Si sono aggiunti per via guatemaltechi e salvadoregni, trascinati dalla convinzione di quei migranti, ma come loro spinti dalla miseria, dalla violenza, dalla fame, dall’assenza di un futuro.
La loro scelta è esistenziale: cercano una nuova vita. Ma la carovana dei migranti è anche una mobilitazione politica. Sta qui la novità. La loro fuga è una protesta aperta. È un manifesto. Perciò in poco tempo è assurta a simbolo. Inutile voler parlare qui di «clandestini», quello stigma che colpisce chi muovendosi tra le frontiere si sottrarrebbe alla luce del giorno dissimulandosi. Nella carovana nessuno vuole nascondersi. I migranti della carovana si fermano a parlare con giornalisti e reporter, si affacciano agli obiettivi dei fotografi. Ciascuno racconta la sua storia, ripercorre le tappe di quel drammatico viaggio. All’unisono gridano che nei loro paesi dimenticati i poveri non riescono a sopravvivere.
Trump non ha esitato a criminalizzarli: nella carovana ci sarebbero avanzi di galera, terroristi potenziali, nemici occulti. Ed è pronto a spedire oltre 15.000 militari. Ma la carovana appare piuttosto un convoglio di umiliati, espulsi, sconfitti. Donne anziane con i loro nipoti, adolescenti fuggiti di casa, moltissimi bambini. Di qui l’allarme di Save the children: già stremati per il viaggio estenuante, i minori vanno «trattati con umanità». Chiedere asilo non è un crimine.
Eppure il governo americano, che già detiene illegalmente più di 13.000 minori non accompagnati, ha annunciato ulteriori misure punitive, mentre Trump vorrebbe addirittura abolire il 14° emendamento della Costituzione che garantisce la cittadinanza a chi nasca sul suolo americano. Ne verrebbero colpiti i figli di coloro che vivono e lavorano già da tempo negli Stati Uniti. È possibile cancellare con un colpo di spugna un diritto costituzionale? Certo che no. Ma le elezioni di midterm sono alle porte e Trump continua a soffiare sul fuoco, annunciando boriosi proclami, fomentando l’odio, sfruttando la paura, gridando al complotto. Sono queste – tra miopia e malafede – le sue armi. In America, dove l’antisemitismo era relegato al ricordo, non era mai avvenuto un attacco a una sinagoga. Ed ecco che ora gli ebrei – così vuole uno dei tanti miti complottistici – sono ritenuti responsabili di quella «sostituzione etnica» della «razza bianca» che sarebbe ormai in atto. Persuaso di ciò, il terrorista di estrema destra ha fatto strage a Pittsburgh.
È difficile contrastare i pericolosi miti del complotto che offrono a chi non ha voglia di leggere, studiare, pensare, una facile scorciatoia interpretativa. I complottisti nostrani sono già alla ricerca del burattinaio che avrebbe messo in moto la carovana. Come se i migranti fossero pacchi e non persone in grado di decidere.
Non si tratta di essere pro o contro, bensì di guardare al fenomeno nella sua complessità. I migranti nel mondo sono ormai più di 250 milioni, un vero continente. Stupisce che il numero non sia più elevato, se un quarto dell’umanità dispone di ricchezze e risorse precluse agli altri tre quarti, se si è andata accentuando l’enorme disparità tra la sfera del mondo occidentale e i perdenti della globalizzazione, mentre è cresciuta, grazie ai nuovi media, la consapevolezza che una vita migliore sia possibile. Non è difficile ipotizzare che le cifre aumenteranno.
Come la carovana, il continente dei migranti è un variegato popolo in movimento che sfida le frontiere dell’ordine mondiale. Contro questo popolo si erge lo Stato-nazione, ultimo baluardo del vecchio assetto. Lo scontro attuale è tra la sovranità statuale e il diritto di migrare. La geopolitica dei muri segna però anche quello scontro tra Nord e Sud, antico per via di uno squilibrio profondo, che sembra incolmabile, ma esasperato oggi da un’ostilità prima sottotraccia. Nessuna compassione, né indulgenza, né solidarietà. La nuova frontiera è quella di un Nord deciso a contenere la spinta dell’immigrazione, anche a costo di murare la democrazia e di cancellare i diritti umani.
il manifesto 2.11.18
Bolsonaro conferma, l’ambasciata del Brasile presto a Gerusalemme
Israele/Brasile. Il presidente eletto in un'intervista ha promesso di trasferire al più presto l'ambasciata nella città santa. E assicura a Israele appoggio incondizionato all'Onu. Netanyahu pronto a stringere relazioni strette con il paese sudamericano
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Jair Bolsonaro ha scelto il quotidiano Israel HaYom, megafono del governo israeliano, per dare l’annuncio tanto atteso da Benyamin Netanyahu: il Brasile sposterà al più presto la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, sulle orme del presidente americano Donald Trump. «Israele è un paese sovrano» ha detto il presidente eletto «se Israele decide quale è la sua capitale, noi concordiamo. Quando mi è stato chiesto in campagna elettorale se una volta eletto avrei spostato la nostra ambasciata ho risposto di sì. Voi siete gli unici a decidere quale debba essere la vostra capitale, non altri paesi». Frasi che Israel HaYom ha ricambiato dedicando ieri a Bolsonaro la prima pagina. L’intervista integrale sarà pubblicata oggi ma le ampie anticipazioni apparse ieri dicono già tutto su ciò che l’uomo che vuole cambiare il volto del Brasile intende fare in Medio oriente.
«Israele può contare» sul voto del Brasile all’Onu «su quasi tutte le tematiche che coinvolgono il paese», ha assicurato Bolsonaro ai giornalisti israeliani. Quindi ha annunciato che intende tornare presto a Gerusalemme, dove è già stato in visita privata due anni fa, e ha sottolineato che si è messo subito in contatto con i rappresentanti dello Stato ebraico in Brasile. «L’ambasciatore israeliano in Brasile – ha detto – mi ha fatto visita due volte questa settimana. Sono molto contento che un rappresentante ufficiale dello Stato di Israele mi tratti in questo modo, il sentimento è reciproco». «Amo il popolo e lo Stato di Israele – ha aggiunto – potete essere certi che promuoverò strette relazioni e una cooperazione produttiva per entrambe le parti a partire dal 2019». Infine, sempre seguendo le mosse dell’Amministrazione Trump che il mese scorso ha chiuso la rappresentanza diplomatica palestinese a Washington, Bolsonaro ha avvertito che cambierà lo status dell’ambasciata di Palestina in Brasile. «Quell’ambasciata è troppo vicino al palazzo presidenziale – ha affermato – nessuna ambasciata può essere così vicina e la sposteremo. Inoltre, la Palestina deve essere prima uno Stato per avere il diritto ad un’ambasciata».
È musica celestiale quella che Bolsonaro ha suonato per Netanyahu. Quest’ultimo già lavora all’avvio di una intensa collaborazione con il Brasile, a cominciare dal settore militare e nella sicurezza. Netanyahu spera inoltre che il trasferimento dell’ambasciata brasiliana a Gerusalemme spinga altri paesi a fare altrettanto. L’effetto domino previsto un anno fa dal premier israeliano non c’è stato. Dallo scorso 6 dicembre, giorno della dichiarazione di Trump su Gerusalemme soltanto Usa e Guatemala hanno spostato la loro sede diplomatica nella città santa.
La Stampa 2.11.18
I colpi di Stato senza militari che mettono alla prova la democrazia
di Juan Luis Cebrian
Quando Curzio Malaparte scrisse “Tecnica del colpo di stato” non immaginava che, col passare del tempo, i processi di sostituzione del potere costituito con metodi illegali sarebbero migliorati in modo consistente grazie ai progressi della tecnologia e ai nuovi equilibri della società. Corrono voci insistenti secondo le quali Jair Bolsonaro, vincitore indiscusso del secondo turno delle elezioni brasiliane, sarà presidente del Paese grazie a un piano premeditato contro il potere legittimo del Pt (il partito dei lavoratori guidato da Lula), quando forze più o meno occulte andarono all’attacco della presidenza di Dilma Rousseff. Da lì ebbe inizio, in modo apparentemente rispettoso degli usi democratici, anche se non altrettanto delle regole del gioco, l’offensiva neofascista che sarebbe culminata nella vittoria elettorale di domenica.
Anche in Spagna i separatisti catalani sono stati accusati dai partiti fedeli alla Costituzione di aver tentato un colpo di stato quando hanno approvato unilateralmente l’indipendenza. Molti autori affermano che i colpi di stato classici, con gli appelli all’esercito e all’uso della forza, non si usano più. Si parla, ad esempio, di golpe finanziario, se si manipolano le quotazioni di Borsa e il tasso di cambio per indebolire o far cadere i governi, e di autogolpe quando il potere costituito si mette scientemente in pericolo per cercare di perpetuarsi, come nel Perù di Fujimori.
Il fantasma di Bannon
L’uso dei social network per influenzare le elezioni diffondendo notizie false e voci diffamatorie su questo o quel candidato è un altro modo per distorcere la realtà e screditare l’avversario e per cercare di sconfiggerlo alle urne. I movimenti populisti, da Trump a Salvini, mettono costantemente in atto questo metodo con risultati non disprezzabili. Gli oppositori di Bolsonaro accusano Steve Bannon, senza portare alcuna prova, di aver contribuito a sobillare i social network contro i partiti di sinistra. Sia vero o no, gli obiettivi e l’ideologia dell’ ex capo della campagna elettorale di Trump sostanzialmente coincidono con il pensiero del nuovo presidente del Brasile, e sono contigui agli impulsi antidemocratici dei governanti della Polonia o dell’Ungheria, e anche a quelli dei sostenitori del caotico governo italiano. Però anche la vittoria nel Paese del samba di questo ex capitano espulso dall’esercito, xenofobo, razzista e anti-femminista, una specie di maschio alfa prestato alla politica, si deve all’ indignazione popolare per le conseguenze della crisi finanziaria ed economica e all’aumento delle disuguaglianze. La demagogia populista sa come alimentare queste passioni per poi placarle con promesse che non potranno mai essere mantenute.
Il pretesto della corruzione
La corruzione, diffusa non solo in America Latina, per quanto enorme, non cessa di essere un pretesto per suscitare ulteriore malcontento. In Brasile, come nella maggior parte dei Paesi democratici, trova le sue motivazioni nel finanziamento delle campagne elettorali. L’uso di Petrobras, colosso petrolifero di proprietà pubblica, per ottenere fondi per tali fini, è cominciata certamente molto prima del governo di Fernando Henrique Cardoso, iniziale artefice del cosiddetto miracolo brasiliano, il cui impatto economico è stato proseguito dai governi di Lula da Silva.
Dopo la giornata di domenica, il Paese è stato diviso in due parti, e anche questa estrema polarizzazione è un segno dei tempi. C’è chi sostiene che se si fosse espresso oltre il 20% di chi si è astenuto o ha annullato il voto, il risultato sarebbe stato diverso, ma è un argomento discutibile. La verità è che Bolsonaro ha unito tutte le forze conservatrici e che, incredibilmente, anche i liberali hanno aderito alle sue proposte di estrema destra, che minacciano di distruggere il tessuto politico brasiliano. A lui si è contrapposto un candidato indebolito anche dal calendario, perché è stato scelto poco prima delle elezioni, dopo che i tribunali avevano vietato la candidatura di Lula, debole nel suo tentativo di proseguire sulla strada delle politiche socialdemocratiche caldeggiate dai moderati del Pt. I suoi leader hanno dimenticato che l’insicurezza dei cittadini e la crescente violenza delle mafie sono tra i motivi del consenso elettorale di chi promette legge e ordine, anche a costo di mettere a ferro e fuoco il Paese.
Le troppe brutalità
Anche se nelle sue prime dichiarazioni dopo la vittoria Bolsonaro ha cercato di moderare la brutalità del suo linguaggio, nessuno dimentica che durante la campagna elettorale aveva detto che i rossi potevano solo scegliere la prigione o l’esilio e persino che bisognava fucilare gli esponenti del Pt. Il partito e l’ex presidente Lula sono stati demonizzati all’estremo durante la campagna elettorale, ma hanno ancora la rappresentanza più forte in un Parlamento, frammentato in dozzine di gruppi diversi.
Nel breve termine si prevede che l’economia del Paese rimanga stabile, ma i rischi di destabilizzazione politica e la tentazione dell’ala più a sinistra del Pt di portare l’opposizione in piazza disegnano un orizzonte incerto. Le istituzioni democratiche saranno messe seriamente alla prova. Con un esecutivo che fa la voce grossa e una legislatura di maggioranze quasi impossibili, molti democratici guardano ai tribunali come l’unica barriera contro la deriva autoritaria. E anche se un settore considerevole dei giudici si è politicizzato (è sufficiente vedere il destino del presidente Lula) la speranza in una giustizia indipendente appare l’ultimo baluardo per proteggere le minoranze dallo tsunami che si è scatenato domenica scorsa.
(Traduzione di Carla Reschia)
Corriere 2.11.18
Tutta l’anima in un libro
Riflessioni «Il tuo sguardo illumina il mondo» (Solferino): una meditazione sulla morte, l’amicizia e il potere della poesia
La lettera di Susanna Tamaro a Pierluigi Cappello vista da un grande psichiatra
di Eugenio Borgna
La matrice del bellissimo libro Il tuo sguardo illumina il mondo (Solferino) di Susanna Tamaro è stata l’amicizia che l’ha legata a Pierluigi Cappello, poeta friulano che dalla età di sedici anni, a causa di un incidente stradale, viveva su di una sedia a rotelle, e moriva di una malattia tumorale nel 2017. Le pagine dedicate a questa amicizia sono di una indicibile lirica tenerezza, e si leggono con il cuore in gola, ma Susanna Tamaro parla (anche) della sua infanzia e della sua adolescenza, della sua giovinezza, ferite da una sensibilità e da una fragilità, da una delicatezza e da una timidezza che la rendevano diversa dalle sue spensierate compagne di scuola, e che nemmeno i suoi genitori sapevano comprendere nel loro significato e nel loro valore. Le sue fragilità sono state infine racchiuse in una diagnosi, quella di sindrome di Asperger, che ha dato loro un senso radicalmente diverso da quello di non essere se non conseguenza di una personale mancanza di interesse, e di impegno.
Dal libro, che si svolge in un dialogo ideale con il poeta friulano, vorrei stralciare alcune riflessioni, e in particolare ora quelle che ci parlano della fascinazione del suicidio, che l’ha accompagnata nella sua adolescenza, e non è stata diversa da quella che nella loro adolescenza è stata rivissuta da Giacomo Leopardi e da Simone Weil. Nulla di patologico, certo, in una esperienza di vita, come questa, che ne indica nondimeno la sensibilità e la fragilità, la febbrile attenzione al male di vivere, alla indifferenza e alla crudeltà della vita. Ma il libro mi ha consentito di cogliere la radicale importanza che Susanna Tamaro consegna alle parole, alle parole della poesia in particolare, nel sanare le ferite dell’anima. La rivelazione, che la poesia sia qualcosa che riguardi la profondità della sua anima, l’ha avuta alla età di sedici anni, leggendo l’autobiografia di Pablo Neruda, Confesso che ho vissuto. La poesia è stata in ogni caso il nutrimento che le ha consentito di superare gli anni dell’adolescenza e della giovinezza. «E che cos’è la poesia, se non il riconoscere la nostalgia dell’eterno che abita da sempre nei nostri cuori?».
Susanna Tamaro ci parla della malattia mortale di Pierluigi Cappello, e dei medici che lo curavano con grande competenza tecnica, ma senza amore, con indifferenza e alterigia, e ci parla degli psichiatri che l’hanno incontrata, dimostrandosi incapaci di attenzione e di gentilezza d’animo, di ascolto e di pazienza, così indispensabili alla cura. Sono pagine accorate, dolorose e sferzanti, che non posso non condividere, anche se non mancano medici, come il medico di famiglia di Pierluigi Cappello, e non mancano psichiatri, consapevoli della enorme importanza delle parole e dell’ascolto, della partecipazione emozionale, nella cura.
Fra gli altri temi, che ci fanno leggere il libro come un diario dell’anima aperta al mistero del dolore e mai negata alla speranza, non potrei non citare ancora il tema della morte e del morire, della morte come ombra mai assente dalla vita di Susanna Tamaro, e del morire come modo oggi dilagante di evitare il male e la sofferenza. È il più umano dei desideri, lei ci dice, ma aggiunge: «A turbare — e a dare il segno della fragilità a cui siamo arrivati — è il fatto che si consegnino allo Stato le chiavi della nostra vita nella convinzione che solo nelle sue leggi si nasconda la salvezza», e con parole roventi e straziate si chiede se nelle leggi non si possa nascondere un universo concentrazionario. Nelle parole di Ungaretti, «la morte si sconta vivendo», si coglie, ci dice ancora questo libro, il senso profondo della nostra esistenza, e la nostra umanità ci deve rendere capaci di accettare la fragilità, di resistere al dolore (chi parla di vittoria, dice Rilke in una delle sue poesie, resistere è tutto), di assisterlo, di condividerlo con la delicatezza dei pensieri e dei gesti. E siamo ancora nell’umanità quando, davanti all’intollerabile, invochiamo la morte, e magari riusciamo anche a metterla in atto.
Sono pagine vibranti di umanità che non si possono leggere se non nel silenzio del cuore, e che nascono da una filosofia della vita mai chiusa alla speranza. Ma non posso non riconoscermi ancora in quello che Susanna Tamaro dice della gentilezza dell’anima, della tenerezza e della creatività come qualità umane che si accompagnano alla tristezza e alla malinconia, alla condizione umana ferita dal dolore e dalla sventura (mirabilmente descritta da Simone Weil quando diceva che non c’è conoscenza senza sofferenza); e questo, certo, senza elogiare la sofferenza, ma cogliendone il senso e il mistero.
Questo libro, che si nutre di memoria e di nostalgia ferita dal dolore, ci fa conoscere, se siamo capaci di sguardi che si aprano al mondo che ci circonda, quanta sensibilità umana e quanta immaginazione creatrice risplendano nell’amicizia, breve come un sospiro, e luminosa come una stella del mattino, che ha legato il destino di Susanna Tamaro a quello di Pierluigi Cappello: le sue poesie, citate nel libro, sono bellissime. Cosa è l’amicizia, lei si chiede ancora, se non una attenzione paziente e amorosa alla vita dell’altro? Cosa è la psichiatria, si chiedeva Manfred Bleuler, un grande psichiatra svizzero, se non dare la mano a una persona fragile che chiede aiuto?
Le cose che ho scritto non colgono se non alcuni aspetti di questo libro, che, nutrito di vita e di passione, di dolore e di mistero, è sorgente di infinite parabole semantiche: ne ho scelto alcune: quelle che ho sentito le più vicine alla mia sensibilità, e alla mia formazione clinica. Ho letto questo libro senza accorgermi del trascorrere del tempo, del tempo dell’orologio, e dell’agostiniano tempo interiore, come avviene quando un libro ci dice qualcosa di nuovo, qualcosa che apre il nostro cuore alla speranza, qualcosa che cambia il nostro modo di vedere le cose, qualcosa che il drago dell’oblio non è in grado di cancellare. La lettura di questo libro, una lettura ininterrotta, mi ha confrontato con le straordinarie doti narrative di Susanna Tamaro, ma anche con le sue intuizioni psicologiche che le hanno consentito di scendere negli abissi della sua interiorità: premessa, questa, alla conoscenza dei modi di essere degli altri, delle loro più profonde radici esistenziali. Un libro sul dolore dell’anima e del corpo, ma un libro (anche) sulla speranza, goethiana stella cadente, che si può scorgere solo se sappiamo accogliere il mistero come dimensione ineliminabile della vita. «Personalmente, non ho mai spento la debole lanterna della speranza. So che nulla è impossibile a Dio, ma so altrettanto bene che i nostri sogni non sono i Suoi sogni, i nostri desideri i Suoi desideri. Farli coincidere è un’umanissima speranza che trova però conferma soltanto in casi straordinari».
Le esperienze di vita di Susanna Tamaro le hanno consentito di scrivere un libro che aiuta a conoscerci meglio, e che ogni persona sensibile al valore della fragilità e della timidezza, della tristezza e della speranza, del silenzio e della grazia dovrebbe leggere e meditare. Sì, un libro di grande slancio narrativo che, vorrei ancora ripeterlo, è la splendida testimonianza di una amicizia, che si fa preghiera come diceva Simone Weil, e che libera dall’egoismo e dall’individualismo, dalla solitudine e dalla indifferenza, dalla insensibilità e dalla perdita della speranza che svuotano di senso le relazioni umane, che sono il fondamento di una vita che riconosca il suo destino nella comunione e nella solidarietà con le persone fragili, e insicure, che hanno bisogno di aiuto, e non sanno chiederlo. Siamo tutti chiamati a riconoscere l’indicibile nel dicibile.
il manifesto 2.11.18
Nell’altro lato del vento, la libertà dell’immaginario
Cinema. Da oggi su Netflix «The Other Side of the Wind», il film incompiuto di Welles, finito da Bogdanovich
di Cristina Piccino
«La regia è il lavoro più facile del mondo» dice Orson Welles nella conversazione con Peter Bogdanovich (Il cinema secondo Orson Welles, il Saggiatore), stanno parlando d’altro ma potrebbe essere The Other Side of the Wind, il suo film incompiuto – presentato in anteprima alla Mostra del cinema di Venezia – che arriva da oggi su Netflix senza appuntamenti anche in sala. Speriamo però che sia gli esercenti italiani che il colosso dello streaming consentano una circuitazione di questa magnifica opera anche sul grande schermo, superando le polemiche esplose intorno alla «questione» Netflix durante il festival veneziano.
La realizzazione di The Other Side of The Wind,a cui Welles aveva lavorato tra il 1970 e il 1976, si deve soprattutto all’ostinazione di Peter Bogdanovich, che ha guidato un magnifico team – al montaggio Bob Murawski, colonna sonora vertiginosa di Michel Legrand – seguendo gli appunti e le note di sceneggiatura del suo «maestro» – all’epoca Bogdanovich era il pupillo di Welles, come il personaggio che recita nel film. C’era poi il montato, quei cinquanta minuti che Welles aveva messo insieme prima che il progetto fosse messo da parte definitivamente nel 1979, quando i negativi erano stati bloccati dal produttore, Mehdi Bushehri, dopo la rivoluzione iraniana.
SE QUESTO che vediamo oggi sia il film che il regista di F for Fake aveva in mente non lo sapremo mai ma poco importa. Così come non è importante l’idea stessa di finitezza, se sia compiuto o meno, perché The Other Side of the Wind non può essere finito, la sua materia è il cinema stesso, il suo movimento, quel divenire che sui bordi dei fotogrammi mette alla prova lo sguardo delle spettatore e il proprio essere. Film nel film, racconto di una vita, epico e malinconico, jam session di immagini caustica e tenerissima contro la «finitezza» della storia, dello script, della scadenza di un cinema in cui irrompe prepotente la vita, e forse anche il contrario, legame viscerale, incessante. Infinito, appunto.
Chi è J.J. «Jake» Hannaford, una leggenda per alcuni, una catastrofe per altri? I giovani lo adorano, lo inseguono, lo studiano: è un mito. A rispondere alle loro domande c’è Otterlake (Bogdanovich) il suo «biografo» ufficiale che ha raccolto centinaia di bobine di conversazioni, tanto da poter rispondere a ogni domanda.È stato il suo allievo amatissimo ma ora lo ha superato girando un film di successo – motivo di contrasto tra i due – mentre Hannaford continua a litigare coi produttori, è tornato a Hollywood dopo anni in Europa e il film a cui sta lavorando non avanza.
È il giorno del suo settantesimo compleanno, l’amica Zarah Valeska (Lilli Palmer) ha organizzato una festa, sono tutti invitati, giovani fan, critiche acide, personaggi del cinema, sarà anche l’occasione per mostrare il film a cui sta lavorando. Tutto verrà registrato, le macchine da presa sono ovunque e sempre accese, il loro obiettivo è preciso e implacabile come un’arma . Ma cosa filmano? Cosa è che raccontano? Quale è la verità e cosa invece il suo paradosso, cosa è riproducibile e cosa invece rimane comunque oscuro?
E il film? I soldi sono finiti, l’attore protagonista, John Dale è scomparso. Ci sono un ragazzo, Dale, e una ragazza, la chiamano «la Meticcia» (è Oja Kodar) sempre nudi. Si inseguono, si guardano, fanno sesso. Non ci sono parole, solo sguardi, e il ragazzo e la ragazza -l’inizio di tutte le storie. Un altro uomo geloso li scaraventa nel fango fuori dall’auto. Intorno alla piscina frammenti di frasi, il cinema, fare cinema, criticare il cinema. Hannaford sembra più interessato a una ragazzina, la ascolta nei suoi progetti, ha la faccia magnifica di John Huston, sigaro e alcol. «Ho invitato i giovani perché Zarah vuole che io conosca le nuove generazioni» dice.
La notte rotola, l’elettricità salta, si accendono le candele per la torta, la fine sarà l’alba in un drive in (L’ultimo spettacolo?) alla ricerca di uno schermo per quel film senza fine, e alla fuga del protagonista il regista risponde urlando nel megafono: «Lasciatelo andare!».
ALL’INIZIO Welles voleva fare un film «alla Godard», una specie di versione ironica della Nouvelle Vague – «Bertolucci è sempre un mangia spaghetti» commenta a un certo punto Hannaford. Ma The Other Side of the Wind col suo lisergico passaggio tra bianco e nero e colore, 35 millimetri e 16 millimetri, zoom impazziti diviene il racconto commuovente e magnifico del regista e dell’intimità di un fare cinema che sfugge alle regole e alle imposizioni, che è lotta, fatica, follia. Quasi una autobiografia (o un’autofinzione) attraverso il fare-cinema, i film di un regista che non teorizza – come invece i più giovani che lo circondano: tutto è lì, «la regia è una cosa semplice».
La società dello spettacolo e lui, Orson Welles senza retorica né moralismi, in quel flusso di immagini parole davanti allo schermo vuoto. Battaglie e ambiguità. Tattiche e strategie, ai finanziatori non si deve mai dire di avere bisogno di soldi quando si chiedono fa dire Welles al suo alter ego Huston/Hannaford.
DISCORSI su dio che è donna, sull’amicizia che come i film è una cosa pericolosa. È un viaggio nei film di Welles attraverso i luoghi e le immagini che li compongono, un gioco di specchi – e non solo gli infiniti riflessi della Signora di Shangai – tra il deserto, Shakespeare, Otello in cui si riflette insieme al passato della propria opera una consapevolezza che forse tutto questo è già altrove, studiato, amato, archiviato.
Eppure la questione è ancora la stessa, cosa funziona – secondo leggi del momento – e cosa no, cosa asseconda le mode e cosa le rifiuta. La libertà dell’artista e la sua indipendenza, l’immagine e la sua forma che può moltiplicarsi all’infinito
il manifesto 2.11.18
La scoperta del mondo dallo schermo
Festival. Al Science+Fiction di Trieste «Stalker» di Tarkovskij, la fede nel cinema come rivelazione. In un repertorio di macerie, la disperazione del protagonista nella Zona riguarda la fine della civiltà attuale
di Luigi Abiusi
TRIESTE Il Teatro Miela sembra essere il luogo perfetto per proiettare Stalker oggi: con i suoi muri sbrecciati e le lamiere, le inferriate tutt’intorno. Anzi ci si convince ancor di più di una corrispondenza stretta tra lo schermo, quello che accade sullo schermo, e il mondo intorno, quasi attirato, tirato dentro il quadro, dentro le sequenze di spessore, di formicolare grigiastro, mentre lo stalker conduce professore e scrittore nella Zona, in quel tragitto in cui il rumore della corsa sulle rotaie diviene naturalmente musica elettronica. Si arriva a credere che il cinema richiami a sé le cose che stanno fuori, in platea, nei corridoi, e di lì, oltre l’ingresso, l’aria, tutto il panorama che circonda chi guarda, Trieste oppressa dalla luce autunnale, da una profondità grigia che placa l’acqua, le banchine, immobilizza le barche. Un che di cinematografico: la riconduzione del mondo immerso, proiettato entro il fascio di luce grigia, alla sua origine cinematografica; e la vista, la conoscenza delle forme da una prospettiva altra, fantastica. È PENSANDO a questa credenza, a questa fede nel cinema inteso come rivelazione, illuminazione delle cose, delle cose di tutti i giorni infuse semplicemente d’aria, che proiettare oggi Stalker ha un senso in più; perché la disperazione dello stalker a proposito dell’aridità dei due compagni di viaggio, della loro incapacità di credere, di guardare oltre la contingenza, riguarda la fine una civiltà, quella attuale, che non sa credere, avere fede nel progresso che trasuda dai versi di Eppur questo non basta (di Arsenij Tarkovskij), che questo inquieto veggente recita in uno dei meandri della casa posta nel mezzo della Zona, mentre lo Scrittore lo deride. CHE È LA STESSA disperazione del poeta in Nostalghia, reso orfano del mondo, allontanato dal mondo contingente, pratico, perché il suo linguaggio – quello che appunto trasfigura le cose, cioè le figura per come realmente, essenzialmente sono, colme di suggestioni, grondanti di luce, e così che richiamano altre versioni degli oggetti, dal passato, o dal futuro, o semplicemente da un tempo sincronico, galleggiante nell’etere, che è puramente cinematografico – il suo codice linguistico non è utile, non è più assimilabile dai meccanismi di computazione, di economizzazione delle cose, che presiedono all’ordine attuale, coattivo della civiltà. LO STALKER è rispettoso della Zona, è devoto, al servizio di questa struttura prismatica, estremamente cangiante che è, in sintesi, il cinema, con i suoi effetti illusionistici, atmosferici, le sue piogge interne, i misteri, i sincretismi del proprio apparire, in cui si mischiano su uno sfondo di piastrelle o di ex-voto, specchi d’acqua, fogli macerati, fili di ferro arrugginiti: tutto un apparato in rovina (lo stesso che ispirava la riflessione di Benjamin sul teatro barocco, o anche la poesia più ermetica, più misteriosa di Ungaretti), un repertorio di macerie che, nel decadere, sgretolarsi dai muri, macerare dentro le pozzanghere, dichiara la propria antichità, il proprio risuonare presente, attualissimo, sedimentando in sé tutto il corso, il senso del tempo, il suo sentimento. È QUELLO che Foucault chiama un contro-spazio, una zona di riparo, di rifugio, come i regni angusti che si ricavano i bambini in un angolo della casa, in una soffitta, nell’incavo di un muro, dove poter fantasticare, credere, cioè guardare ogni cosa nella propria essenza, cioè nel raddoppiarsi delle sagome, nel loro sfolgorare, transitare una nell’altra in dissolvenze incrociate. Scrive Foucault: «L’angolo remoto del giardino, la soffitta o, meglio, la tenda degli indiani montata al centro della soffitta, e infine – il giovedì pomeriggio – il grande letto dei genitori. È in quel letto che si scopre l’oceano, perché tra le sue coperte si può nuotare».
Repubblica Roma 2.11.18
A cinquant’anni dalla contestazione
'68, quelli che la rivoluzione l’hanno fatta al cinema
di Franco Montini
Al cinema il ’68 è iniziato qualche anno prima: il film emblema di una stagione caratterizzata dalle rivolte, dalle inquietudini, dalla rabbia, dalla contestazione delle giovani generazioni è "I pugni in tasca" di Marco Bellocchio, realizzato nel 1965. «Non ero molto cosciente di quello che stavo facendo e mi sfuggiva il senso di libertà e di rottura che poteva esserci nel mio film», ricorderà anni dopo l’autore, ma, se da un punto di vista contenutistico, distruggendo il mito della famiglia, "I pugni in tasca" suonava come un violento atto di accusa nei confronti dell’ipocrisia borghese, le novità riguardavano anche gli aspetti produttivi e linguistici. Diretto da un regista all’epoca 26enne, il film era una piccola produzione indipendente, dotata di uno stile insolito, dissacrante ed estremista, grottesco e per certi versi volutamente sgradevole.
Insomma un’autentica novità che esplose nel panorama del cinema italiano come una bomba, nonostante i contenuti politici, che emergeranno più esplicitamente nel secondo film di Bellocchio "La Cina è vicina", 1967, fossero molto vaghi. In ogni caso "I pugni in tasca" dimostrò la possibilità di usare il cinema come uno strumento di ribellione e aprì la strada ad una nuova stagione del nostro cinema, segnata dall’apparizione sul grande schermo dei giovani, della politica, delle lotte sindacali e studentesche.
Esattamente a 50 anni di distanza, a rivisitare quell’epoca, con la proiezione di film cult, le testimonianze di alcuni protagonisti, oltre Bellocchio, Paolo Taviani, Silvano Agosti, Liliana Cavani, gli approfondimenti e le riflessioni di studiosi, è "Il progetto e le forme di un cinema politico" in programma da sabato 3 a martedì 13 novembre.
L’iniziativa, promossa dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico e dalla Fondazione Gramsci, si svolge in più sedi: Casa del Cinema, dove nella giornata inaugurale alle 19,30 Paolo Taviani introdurrà la proiezione di "Sovversivi", realizzato nel 1967, il primo film sulla crisi dell’ideologia comunista, sala Trevi, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Università Roma Tre.
Fra i film in cartellone anche "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto" di Elio Petri; "Nostra signora dei Turchi" di Carmelo Bene; "Umano non umano" di Mario Schifano; "Grazie zia" di Salvatore Samperi. Ma un ampio spazio è dedicato alla proiezione di cinema militante, con rari documentari e cortometraggi, spesso realizzati in forma collettiva, che mostrano le manifestazioni di piazza, gli scontri con le forze dell’ordine, le occupazioni studentesche.
Tutti materiali che, al di là della mitologia sul ’68, raccontano la realtà di ciò che avvenne e testimoniano lo slancio creativo e il bisogno di sperimentare formule narrative insolite ed inedite da parte di una generazione, decisa a rompere definitivamente con il passato.
Il programma è scaricabile sul sito: https://www.aamod.it.
Tutti gli appuntamenti sono ad ingresso gratuito
Repubblica Roma 2.11.18
Intervista
Liliana Cavani "Una magnifica liberazione non solo politica"
«Il ’68 è stato una rivoluzione nei rapporti sociali, nella sfera personale e sessuale, ma chiarisce Liliana Cavani, regista italiana tra le più apprezzate, agli esordi in quegli anni- io lo identifico soprattutto come un momento di liberazione dal rigoroso schematismo dei partiti, che dominava e bloccava il dibattito ideologico».
Quell’anno lei girò il suo primo lungometraggio, "Galileo", che sarà proiettato nella manifestazione sul ’68; scelse una sorta di contestatore antelitteram
«Anche se in realtà non pensai a Galileo come un contestatore, accade una cosa curiosa: benché finanziato dalla Rai, il film non è fu mai trasmesso dalle reti pubbliche, perché ritenuto dagli scrupolosi dirigenti dell’epoca eccessivamente critico nei confronti della Chiesa cattolica. Il paradosso è che, invece, la San Paolo Film, una società legata agli ambienti ecclesiastici, specializzata nel promuovere il cinema nelle sale parrocchiali e nella scuola, lo prese e lo distribuì».
"Galileo" fu anche invitato alla Mostra di Venezia
«Partecipò all’edizione del ’68, segnata da un’assurda contestazione nei confronti del direttore Luigi Chiarini.
Ricordo il mio imbarazzo, perché non condividevo e ritenevo assurde le critiche mosse dai miei colleghi nei confronti di uno studioso di grande preparazione e carisma. E poi proprio in quei giorni ci sarebbero stati ben altri ottimi motivi per protestare e contestare: mentre si svolgeva la Mostra, i carri armati sovietici entravano a Praga, mettendo fine ad un movimento che rivendicava libertà e diritti civili».
– fr.mon.
il manifesto 2.11.18
«Arrivederci Saigon», il film di Wilma Labate
Nell’autunno del 1968 giunge a Le Stars l’inaspettata offerta di una tournée in Estremo Oriente. Le Stars, una girl band formatasi pochi mesi prima, composta da cinque giovanissime ragazze della provincia di Livorno che ha finora mietuto iniziali e gracili successi. Partono animate da plausibili speranze di farsi valere a Hong Kong, a Singapore, a Tokio forse. All’aeroporto di Manila scoprono i tassativi termini previsti dal contratto stipulato dal loro impresario: esibirsi in Vietnam nelle basi militari dell’esercito americano. Impossibile recedere. La tournée è concordata per tre mesi.
Da Manila Le Stars salgono sul primo volo che le porta a Saigon. Dalle testimonianze di quattro di loro – Viviana Tacchella, Rossella Canaccini, Daniela Santerini, Franca Deni – Wilma Labate ha tratto Arrivederci Saigon, presentato a Venezia alla settantacinquesima Mostra internazionale d’arte cinematografica.
Mi soffermo su alcuni aspetti di Arrivederci Saigon. Il primo riguarda lo straordinario accordo conseguito da Wilma Labate tra la selezione delle immagini di repertorio, girate cinquanta anni fa nel Vietnam percosso dalla guerra, e i volti e le parole delle quattro protagoniste che ci narrano la loro avventura. Gli episodi si susseguono, ma, più ancora, sullo schermo affiorano intatte le emozioni vissute allora. Sentimenti che spezzano ora una frase e un’altra, invece, accelerano. Sensazioni che si perdono o, nel tornar loro alla memoria, si ritrovano in un gesto distratto, in uno sguardo. Ed ecco che, quasi fossimo posti in grado di scorgere quello che Viviana o Rossella ‘vedono’ con l’occhio della mente mentre ci parlano, vediamo scorrere davanti a noi prospettive di foreste, salire dal verde delle risaie i fumi roventi del napalm, sfilare al bordo d’una strada gli edifici demoliti dai mortai e correre soldati giovanissimi e trascinarsi il lento passo di vecchie contadine spaurite.
Le parole si fanno visioni nel magico dispositivo del cinema. Dalle parole si dipanano le immagini, filano in continuità ed è tale la interazione reciproca che Labate ne ottiene con il montaggio di Mario Marrone che non c’è mai frattura, sobbalzo o scarto quando si passa dal volto di Daniela o di Franca al viso del soldato americano che si volta mentre la jeep si allontana. O quando ci si ritrova tra le esplosioni di un bombardamento in mezzo al quale Le Stars sono capitate, uscendone, come raccontano ancora sbigottite, indenni. Arrivederci Saigon mi invita a svolgere un secondo ordine di considerazioni. Infatti il film assume, per dir così, e fa intendere il trauma che stordisce le cinque giovani donne quando, da un giorno all’altro, sprofondano dentro la guerra. Di questo esser precipitate ignare de Le Stars il film dà conto attentamente e in vario modo. È che Le Stars sono tenute per contratto a portare nelle retrovie dei combattimenti i loro brani musicali. Voglio dire che debbono consegnarli intatti all’ascolto dei soldati loro coetanei impegnati al fronte della battaglia. Motivi che possano essere accolti come un dono. Un ‘pezzo’ che tramite Le Stars proviene ai combattenti dal mondo dove non tuona il cannone, non crepita la mitragliatrice e non si muore mentre si combatte. Un frammento di ‘pace’ che dura pochi minuti nel centro d’una guerra senza fine. Considero che per le cinque ragazze la melodia di quelle note e gli impasti vocali del loro mimetico sound inglese vengono ad essere, negli spostamenti continui, nelle repliche dei concerti, l’unico alfabeto che resta in loro possesso in quel Vietnam devastato. Ogni altra forma di linguaggio nei quotidiani scambi, nei contatti inevitabili che esse tengono è stata cancellata o ridotta ad un livello rudimentale, ora per ora, nella giornaliera condizione di guerra. E allora come comprendere il senso della realtà d’attorno? Con quali strumenti farsi una ragione, intendere e giudicare? Forse Le Stars scoprono che vivere dentro la guerra vuol dire essere la guerra. Arrivederci Saigon restituisce di questa loro condizione uno stato d’animo che, passati cinquanta anni, ancora nella rievocazione frastorna e disorienta, agita Viviana e Rossella, Daniela e Franca.