Repubblica 9.11.18
Eroe o vergogna nazionale le due guerre di Pétain
di Bernardo Valli
Francia, Macron riaccende le polemiche sul generale di Verdun e collaborazionista di Vichy
Il
nome di Philippe Pétain spunta puntuale quando si evocano in Francia le
due grandi guerre del secolo scorso. Era inevitabile che accadesse nel
centenario della vittoria del 1918. L’ ambiguo fantasma del maresciallo,
eroe e traditore, non è mancato all’appuntamento. E proteste e
polemiche hanno investito Emmanuel Macron che come presidente celebra,
nei luoghi in cui si è svolto, il conflitto che ha fatto milioni di
morti. Il giovane presidente si è addentrato ingenuamente in quel
capitolo di Storia che accende ancora passioni. Ha detto letteralmente:
«Il maresciallo Pétain è stato durante la Prima guerra mondiale anche un
grande soldato…». Ciò non toglie, ha aggiunto, che «abbia fatto scelte
funeste durante la Seconda». Le proteste sono subito esplose.
Rivolgendosi a Macron, l’esponente di sinistra Jean-Luc Mélenchon lo ha
invitato a non usare la Storia come un giocattolo: «Pétain era un
traditore e un antisemita». Ed è sullo stesso tono che si sono alzate
tante altre proteste. Al punto che il portavoce del presidente si è
affrettato a precisare che Philippe Pétain non farà parte dei
marescialli di Francia di cui sarà celebrata la memoria, domani, nel
santuario laico degli Invalidi. Invece di quattordici, i comandanti
francesi onorati, saranno tredici. La salma di Pétain non si trova del
resto a Parigi; è sepolta nell’isola d’Yeu, nella Vandea, dove ha
passato gli ultimi anni in una fortezza dopo che la condanna a morte era
stata mutata in ergastolo.
Prima di essere l’uomo che ha
incarnato la collaborazione nel paese occupato dai nazisti nel 1940,
Philippe Pétain è stato il generale, poi maresciallo di Francia, più
popolare. Non solo era visto come il vincitore della battaglia di
Verdun, nel 1916, ma anche il comandante che non mandava i suoi uomini
allo sbaraglio, che si occupava delle loro condizioni di vita nelle
trincee. Benché abbia poi rivelato idee tutt’altro che liberali, passava
per un militare “umanista”. La fama di vecchio saggio, la sua figura
quasi paterna, contribuirono a fare di lui l’uomo adatto a guidare la
nazione nella disfatta. Aveva allora ottantaquattro anni.
L’esercito
sconfitto era stato ridotto a centomila uomini, relegati nella zona
Sud. La Francia “libera” era ridotta a due quinti del territorio. La
zona “occupata” si stendeva a Nord di una linea Ginevra-Tours- Bordeaux,
con una striscia lungo l’Atlantico che andava fino al confine spagnolo.
Il paese doveva pagare all’occupante enormi indennità. I prigionieri
francesi dovevano restare in Germania, impegnati in lavori abbandonati
dai richiamati alle armi tedeschi, fino alla fine del conflitto. Di
questo armistizio disastroso e umiliante (scrive lo storico Pierre
Miquel) i francesi, con un certo sollievo, vedevano in particolare un
aspetto: la smobilitazione immediata. In sostanza la fine della guerra.
Vedevano
in Pétain un salvatore e un padre che diceva: «Nessuno riuscirà a
dividere i francesi, in un momento in cui il paese soffre». E il 10
luglio riunì le due camere del Parlamento e chiese che gli venissero
conferiti i pieni poteri. Era la fine della Terza Repubblica, votata da
deputati e senatori.
Tutti meno ottanta, e in assenza dei
comunisti messi fuori legge, prima dell’occupazione, in seguito al patto
russo-tedesco Molotov-von Ribbentrop.
Philippe Pétain, con il
voto del Parlamento, abolì la Repubblica e diventò il capo dello Stato
francese. Che ebbe all’inizio l’appoggio della Chiesa cattolica, non più
frustrata dalla laicità proclamata nel 1905 e ritornata in possesso di
molti beni.
L’ annessione dell’Alsazia e della Lorena, non
prevista dall’armistizio; le severe restrizioni imposte dai tedeschi
nella zona occupata e il controllo su quella “libera”; le sanzioni
contro gli ebrei, decise con la firma di Pétain (incalzato da Pierre
Laval, il primo ministro, fucilato alla liberazione); e poi la loro
deportazione nei campi di sterminio tedeschi, prima gli stranieri e poi i
francesi; la pubblicizzata stretta di mano tra Pétain e Adolf Hitler a
Montoire che equivalse alla dichiarazione di un’alleanza tra lo “Stato
francese” e il Terzo Reich: questi avvenimenti hanno distrutto l’idea
che l’astuto realismo del vecchio soldato di Verdun, nascondesse un
“doppio gioco”. E che consentisse al governo installato a Vichy una
certa indipendenza. Ma l’apparizione di Pétain dal palazzo dell’Hôtel de
Ville, quando gli Alleati erano già alle porte di Parigi, richiamava
ancora migliaia di persone. La convinzione che tra lui e il generale de
Gaulle, un tempo suo subordinato, ci fosse una tacita intesa non è mai
svanita del tutto.
Prima del giovane Emmanuel Macron, altri
presidenti (de Gaulle, Chirac) hanno ricordato il “grande soldato” senza
dimenticare il “traditore”, suscitando proteste. François Mitterrand,
lo si è saputo molto tardi, faceva deporre un mazzo di fiori sulla sua
tomba l’11 novembre, data dell’armistizio e della vittoria del 1918. Ma
fu Jacques Chirac che nel 1995 denunciò le responsabilità dello “Stato
francese” di Pétain, riconoscendo indirettamente che fosse esistita una
Francia petenista, con un esercito, una burocrazia, con organizzazioni
giovanili, e alleata degli occupanti tedeschi. Prima di Chirac, nessun
presidente aveva parlato di quella Francia con tanta precisione. E
questo avvenne in occasione dell’anniversario del rastrellamento del
Velodromo d’Inverno, dove il 16 e 17 luglio 1942 furono raccolti dai
francesi gli ebrei poi consegnati ai tedeschi.