giovedì 8 novembre 2018

Repubblica 8.11.18
Ronald Inglehart "La teoria darwiniana di ogni populismo"
di Giancarlo Bosetti


"I valori e i comportamenti umani sono modellati dalla misura in cui la sopravvivenza è garantita". Il sociologo americano, che ha intercettato per primo i grandi cambiamenti progressisti, analizza la controrivoluzione
Intervista di
Ivalori e i comportamenti degli esseri umani sono modellati dalla misura in cui la loro sopravvivenza è sicura».
L’incipit darwiniano (l’evoluzione) e hobbesiano (la paura che scatena il bisogno dell’autorità) dell’ultimo libro di Ronald Inglehart ( Cultural Evolution. People’s Motivations are Changing and Reshaping the World, Cambridge 2018) riflette l’esperienza di cinquant’anni di indagini condotte su scala globale. Il grande sociologo americano ha creato la rete mondiale del World Values Survey, un istituto di analisi che nel tempo, lavorando su 80 paesi del mondo che coprono l’85% della popolazione mondiale, ha dato conto del cambiamento dei valori morali, religiosi, socioculturali e della connessione tra questi e la politica e l’economia. Il lavoro di questo studioso di 83 anni disseziona le tendenze nel mutamento dei valori scrutando i percorsi che portano, per esempio, nella storia all’insorgere sia dei movimenti LGBTQ sia del populismo xenofobo. I suoi lavori precedenti hanno scoperto come dagli anni Settanta e Ottanta si sia affermata, con la sostituzione generazionale, la supremazia dei valori post-materiali su quelli materiali.
Negli ultimi anni è avvenuto però un colpo di scena, che ha rovesciato quella «rivoluzione silenziosa» nel suo opposto, con vaste conseguenze sulla divisione delle parti in società tra destra e sinistra, di cui qui gli chiediamo conto.
Quali sono i criteri per distinguere preferenze materialiste e postmaterialiste?
«Nella nostra indagine sugli Stati Uniti del 2017 abbiamo chiesto di rispondere a sei domande circa la scelta da fare tra gli obiettivi più importanti per il bene del loro paese e possiamo definire "materialisti" quelli che scelgono la crescita economica, la lotta al carovita, l’ordine pubblico, il pugno duro contro la criminalità e postmaterialisti quelli che danno priorità alla libertà di espressione, alla partecipazione politica, a una maggiore autonomia nel loro lavoro, all’autoaffermazione, all’ambiente, alla libertà di scelta sessuale. Già nel 2012, seconde presidenziali vinte da Obama, tra i "materialisti" c’era una certa prevalenza del voto per il repubblicano Romney e tra i "postmaterialisti" una predilezione per Obama, ma questa differenza è cresciuta poi in modo spettacolare: tra i "materialisti" quasi 4 volte più probabile il voto per Trump, tra i postmaterialisti 14 volte più probabile il voto per la Clinton».
Prima di questo "spettacolare" cambiamento lei aveva individuato una tendenza simile in tutte le società a economia avanzata e ne ha ricavato una teoria a cui applica il concetto di evoluzione. Può sintetizzarla?
«Il sentimento che la sopravvivenza propria e della propria prole sia diventata insicura conduce a rafforzare la solidarietà etnocentrica contro gli outsider e la solidarietà interna a sostegno di leader autoritari. Per la maggior parte della propria esistenza le condizioni di scarsità estrema hanno spinto a serrare i ranghi nella battaglia per sopravvivere.
L’evoluzione ha sviluppato un "riflesso autoritario" per il quale la insicurezza innesca il sostegno a leader forti, rifiuto degli altri, rigido conformismo. E all’opposto alti livelli di sicurezza aprono spazi alla libera scelta individuale e a maggiore apertura verso outsider e nuove idee».
La forza della democrazia dipende dalla sicurezza della sopravvivenza ed è esposta a rischi se quella sicurezza vacilla?
«Oggi è in corso un’autentica sfida per la democrazia, che si è finora diffusa a un gran numero di paesi.
Le condizioni di insicurezza portano la gente a desiderare l’uomo forte al potere che la protegga da stranieri pericolosi, ma questa tendenza xenofobico-autoritaria non è un trend globale, riguarda le società industriali avanzate, l’Europa e il Nordamerica. È qui dove è più forte. Non riguarda la Cina, che non conosce una grande ondata di xenofobia, e neppure l’India, che ha seri problemi ma diversi».
Eppure, non abbiamo un collasso economico in Europa e negli Stati Uniti, c’è ancora una ricchezza molto maggiore che nel resto del mondo.
«È vero che non abbiamo la Grande Depressione, ma la cosa determinante non è il tasso di crescita, ma il fatto che esso stia raggiungendo un punto in cui non è più vero che ciascuno possa assumere la sopravvivenza come un dato garantito, mentre la crescente prosperità è quel che sta plasmando Cina e India. Paesi come l’Italia, la Svezia, la Germania e gli Stati Uniti hanno bisogno di una soluzione politica del loro problema, di qualcosa paragonabile alla drastica svolta degli anni Trenta quando grandi risorse sono state riallocate per creare posti di lavoro sicuri».
Se la situazione è così chiara, se il trend populista dipende da questa insicurezza, come spiega che i leader democratici non abbiano saputo rispondere e che riescano a farlo solo leader estremisti e populisti?
«Perché i primi erano fiduciosi che le cose andassero bene. E sembravano davvero andar bene per gli strati più garantiti della popolazione, inizialmente per i due terzi, poi per la metà più in alto, ma alla fine solo per il dieci per cento in cima. I liberal, i progressisti, la parte della popolazione più istruita e più garantita, danno per scontata la sicurezza elementare della propria esistenza e tendono a rimuovere la xenofobia come il vizio di una parte arretrata, ignorante, stupida della popolazione. Non sono consapevoli della necessità di correzioni radicali alle politiche liberali standard degli ultimi due decenni. Bisogna riconoscere invece che ci vogliono nuove soluzioni e un ruolo del governo che nessuno dei leader liberali ha finora concepito».
Alla Bernie Sanders?
«Anche lui ha sbagliato la diagnosi della situazione, ma credo che sul ruolo redistributivo del governo abbia colto un punto».
Le opposizioni al populismo faticano a riorganizzarsi e a riprendere in mano l’agenda.
Poche eccezioni, ma non è ancora cominciata una vera reazione.
«Direi che ora è suonata la sveglia. I cambiamenti radicali non avvengono fino a che non c’è uno shock, fino a che non ti gettano nell’acqua fredda o non ti prendono a schiaffi. I partiti xenofobi costringono a guardare una genuina serie di problemi: il primo è quello della crescente ineguaglianza, ma c’è anche l’immigrazione che va gestita meglio. I leader politici tendono a seguire il tracciato della minor resistenza fino a che non prendono una vera grande legnata».
Il problema migrazioni. Tutto sembra decidersi lì in Europa e negli Stati Uniti. Ed è qualcosa che durerà nel tempo, con l’aggravante in Europa dell’invecchiamento.
«L’ineguaglianza geografica è il maggiore problema di lungo termine. Paesi ricchi e paesi poveri vicini e con comunicazioni molto più facili di un tempo. Il risultato è che abbiamo livelli di emigrazione senza precedenti. Gli Stati Uniti hanno ora più gente che parla spagnolo della stessa Spagna.
Qualcosa che cambia la faccia degli Stati Uniti. Nessuna società è capace di reggere una immigrazione illimitata. La Svezia, per esempio, che ha una lunga e solida tradizione liberale e tollerante, ora con il 18% di immigrati etnicamente diversi ha dato luogo a un movimento xenofobo. Così in Danimarca, Norvegia e Olanda. Il punto è che abbiamo una capacità limitata di assorbire immigrazione prima di scatenare una reazione xenofoba che può essere molto dannosa e distruttiva».
Ora la legnata è arrivata, in America con Trump e in buona parte d’Europa.
«Ora nel mondo sviluppato siamo consapevoli che c’è qualcosa di sbagliato nella vita politica, ma siamo ancora nella fase in cui ci si chiede "che cosa è?". Abbiamo seminari come questo che fate a Milano che cercano di rispondere e stiamo comprendendo che non si tratta di qualcosa di piccolo e temporaneo, ma di qualcosa che richiede un fondamentale riorientamento del governo e che le vecchie politiche liberal non sono adeguate a tirarci fuori da qui».