Repubblica 5.11.18
Se il governo ha paura della cultura
di Dario Olivero
«Quando
sento parlare di cultura, metto mano alla pistola». Che lo abbia detto
Goebbels come si tramanda o il suo altrettanto devoto collega di partito
Von Schirach, la sentenza rende in modo diretto la considerazione che
il nazismo aveva della cultura. Altri tempi, altre condizioni, come si
affrettano a dire professionisti del distinguo, esegeti delle
circostanze, chiosatori di filosofia della storia. Che nel merito del
dettaglio trovano sicuramente le loro ragioni e poco importa che
dall’America, Brasile compreso, alla Russia alla fu laica Turchia fino
alla falda balcanica la forma di governo che si sta affermando assomigli
sempre più a una autocrazia sancita dalla sacralità del voto che il
termine populismo quasi nobilita. Il governo italiano, molto più che
semplice spettatore in questa sfilata dello spirito del tempo, ha
tagliato le risorse per la cultura. Senza mettere mano alla pistola ma
alle forbici, e non avendo ancora la forza per rivendicarlo, lo ha quasi
nascosto sotto un articolo della manovra dal titolo "ulteriori tagli di
spesa". Come raccontato da Repubblica, i tagli riguardano, in questo
piuttosto democraticamente, crediti di imposta per librerie, case
editrici, cinema, agevolazioni per i musei privati, una drastica
riduzione delle assunzioni previste per far fronte alla cronica carenza
di personale nei beni culturali e un deciso assottigliamento dei fondi
per il bonus cultura degli under 18.
Insomma, in questo modo e in un
colpo solo vengono messi in difficoltà i settori economici che si
occupano di "consumi culturali", concetto diverso da quello di cultura
ma che, rispetto a quest’ultimo, ha il vantaggio per lo Stato di essere
individuato, quantificato e, appunto, colpito.
Perché?
In tempi
recenti, ma ormai di una diversa era geologica della politica, si
sarebbe detto perché con la cultura non si mangia e ben altri sono i
settori in cui investire per il rilancio dell’economia. Ma in questo
caso non si fatica a scorgere una nuova concezione del mondo e del
futuro che erutta a volte brutalmente contro studiosi, accademici,
professori, editori, professionisti, giornalisti, insomma i cosiddetti
intellettuali trasformati spesso in macchiette al servizio di chi vuole
il male del popolo, come avrebbe detto il ribelle Jack Cabe di
Shakespeare. L’ultimo esempio è il livore leghista che si è abbattuto
sul festival dell’economia di Trento, un vero gioiello. Un evento, come
tanti nell’Italia dei mille festival culturali, che rappresenta e
incarna ciò che non è amato da questa maggioranza: voglia di sapere,
bisogno di risposte, ricerca di qualcosa che non sia "clicca e consuma".
Perché i cosiddetti consumi culturali, a differenza delle altre
categorie merceologiche, possono trasformarsi, in modi tortuosi,
indiretti, faticosi ma comunque utili in cultura. Colpisci i primi,
colpirai la seconda. La cultura serve a emanciparsi, a uscire da
condizioni di partenza svantaggiate, a formare nuove élite (sì, non è
una brutta parola se si diventa tali con lo studio e il lavoro duro),
legge eticamente nelle storie umane un’unica storia, trova compagni di
viaggio in artisti ormai morti e parole di rabbia o di consolazione in
scrittori antichi quanto profetici. È contro questo che si abbattono gli
"ulteriori tagli di spesa" decisi dal governo. La storia lo insegna:
ogni volta che si manomette la cultura, si finisce per sentire parlare
di pistole.