venerdì 30 novembre 2018

Repubblica 30.11.18
L’intervista
Piccolo: “L’uomo è una bestia Me compreso”
Non importa quanto civilizzato, intellettuale, culturalmente elevato: ogni maschio ha “un animale che si porta dentro. Che non se ne va mai via”
Lo scrittore premio Strega torna con un romanzo sul tema più scivoloso
Intervista di Simonetta Fiori


ROMA Ore 11, appuntamento con Francesco Piccolo nel suo studio romano all’Ostiense. Lo scrittore ci accoglie con quella simpatia che lo distingue nel minuscolo mondo delle lettere. Però l’ansia meticolosa con cui giustifichiamo il ritardo di un quarto d’ora – il traffico, l’interruzione del viadotto, i lavori stradali – rivela un nostro stato d’animo mutato. E se poi s’infuria? Non si può uscire indenni dalla lettura de L’animale che mi porto dentro,
spietata ricognizione endoscopica del grumo di rabbia, violenza, bestialità ossia la condizione maschile secondo Piccolo – con cui l’autore confessa di fare costantemente i conti. Con esiti più o meno fallimentari.
Se non temessi l’animale che si porta dentro, direi che il libro non mi ha convinto fino in fondo.
«Tranquilla, so tenere a bada la mia parte violenta».
Mi pare che lei abbia voluto compiacere il pubblico femminile confermando un cliché: io maschio primitivo e animale, tu donna sofisticata ed evoluta.
«In realtà ho cercato di raccontare la complessità del maschio, una caratteristica che è poco considerata».
La complessità?
«Sì, rozza, molto rozza ma è una complessità. Ossia quel percorso che noi uomini facciamo per liberarci dal grumo maschile che è fatto di tante cose: arroganza, prepotenza, bestialità, violenza, schiavitù dal desiderio. Un tentativo di emancipazione che è pieno di sofferenza».
Ma questo tentativo – lei racconta – è destinato a fallire.
«Ed è per questo che è doloroso.
Io per una vita ho tentato di separarmi dalla logica maschile del branco, dal modello paterno che introietta sesso e arroganza, dal bullismo dell’adolescenza carico di rabbia, ma vi sono riuscito solo in minima parte.
Sono diventato scrittore per ribadire la diversità dagli altri maschi e soprattutto da quel me stesso che era uguale agli altri maschi. Ho inseguito il miraggio della sensibilità, ma resto la merda che ero».
Nel romanzo si è spinto nell’esposizione di sé come mai era accaduto nei libri precedenti che pure raccontavano già tanto. In questo coraggioso.
«Sì, ma sempre in forma letteraria. Nel libro il personaggio principale si chiama Francesco Piccolo ma è perché il lettore sia indotto a pensare che tutto quel racconto sia vero. C’è una distanza tra me e l’io narrante».
Sì, ma la corrispondenza tra vita e letteratura resta forte.
Parlavamo di denudamento: lei racconta che, mentre dialoga con una collega o con la mamma di un compagno di suo figlio, dentro agiscano sempre gli stessi stringenti interrogativi: «come sarà nuda, chissà se le piaccio, sembra desiderosa, sembra rigida» e via dicendo.
«È un atto di disvelamento non solo personale ma collettivo.
Dopo aver letto questo libro tutti i miei amici si sono sentiti denudati. Qualcuno mi ha anche detto che non dovevo farlo. Non dovevo mostrare l’animale che c’è in noi perché così metto tutti alla gogna. Qualcun altro ha aggiunto che raccontandolo ho finito per razionalizzarlo come presenza reale, mentre noi tendiamo sempre a confonderlo nella caciara. Ma la sessualità è solo uno degli aspetti».
Direi centrale. Il prepuzio dell’io narrante occupa una parte rilevante dell’opera.
«Il desiderio sessuale è il canale di comunicazione più nitido che resiste tra noi maschi, anche tra diverse generazioni. Perfino nella manchevolezza: perché io racconto un percorso di fragilità sentimentale, di defaillance fisiche rispetto alle quali interviene il desiderio come elemento unificante del genere maschile. Il solo fatto di desiderare rende gli uomini tutti eguali e compatti. Una cosa che non se ne va mai via: è questa la scoperta spaventosa. Io mi evolvo, leggo, sviluppo una sensibilità colta, imparo ad amare ma questo nocciolo bestiale lo conservo integro dentro di me.
L’unica evoluzione possibile è imparare a conviverci».
Ma quello che viene fuori dal libro è l’irredimibilità della condizione maschile. In fondo lei dice: ragazze mie, rassegnatevi. Siamo ancora quelli che negli anni Cinquanta guardavano bramosi il sedere ondeggiante di Moira Orfei – è la bella fotografia sulla copertina del libro. Non le pare troppo comodo?
«Ma è proprio il contrario. Allora non sono riuscito a restituire quanto i maschi vivano male con se stessi. Questo rumore di fondo costante – che culo, che tette – è una sofferenza».
Ma non c’è il rischio di ricadere in uno schema tradizionale? Io maschio soffro tanto nella mia bestialità e tu donna mi devi accettare così come sono.
«Ma io nel libro non dico mai che le donne ci debbano accogliere così come siamo».
È quello che fa sua moglie, personaggio formidabile del racconto: sale su un gradino più in alto, come fanno molte mogli, e l’accoglie nella fragilità e nel tradimento.
«Non è mia moglie, è la moglie letteraria. Ed è lei a pronunciare la parola vera sul nostro personaggio: tu ti senti “stocazzo”. E lui crolla. Torna a essere l’adolescente pieno di brufoli».
A proposito di corrispondenza tra vita e letteratura: ma è vero che suo padre corteggiava Maria Corti per facilitare la carriera letteraria del figlio?
«Ma non vorrà metterlo nell’intervista?».
Sì, Maria Corti era una grande intellettuale e una donna molto spiritosa.
«Lei può immaginare il devastante imbarazzo in cui caddi quando seppi che mio padre faceva lo scemo con la professoressa Corti».
Quella del padre è la figura più drammatica.
«Malato di Alzheimer, è la dimostrazione straziante che perdute la consapevolezza e la memoria - nell’uomo resta solo l’attrazione per le femmine, ossessiva e ferina».
Non crede di esagerare con questa rappresentazione brutale del desiderio maschile? Anche la sua “educazione sentimentale” passa attraverso il fumetto “Lando”, che cultori della materia mi dicono ispirato a Lando Buzzanca…
«… assomiglia più a Celentano…»
… e le pellicole erotiche di Laura Antonelli. Ma possibile che l’immaginario del desiderio di uno degli autori più sensibili del cinema italiano sia rimasto bloccato alla giarrettiera dell’Antonelli? E non abbia mai agito un verso della poesia trobadorica, un’immagine di Dante o un frammento amoroso di Barthes?
«Certo che il mio immaginario s’è arricchito, ma a me interessava l’introspezione della bestia. La domanda vera è: perché tutto questo che lei dice si aggiunge ma non elimina l’animale che mi porto dentro? La giarrettiera dell’Antonelli è inscalfibile. E a questa realtà mi sembra si ribellino più le donne che gli uomini. Come se io vi dicessi che anche i maschi più evoluti sono molto peggio di come li pensiate».
Ma così finiamo per cadere nelle generalizzazioni. Il grado di evoluzione può essere più o meno profondo.
«Non siamo tutti uguali ma quel grumo maschile di protervia e presunzione ci unisce tutti. Basta assistere a una riunione di lavoro: gli uomini comunicano una forza straordinaria contro le donne. Lo fanno volontariamente o involontariamente, magari se ne vergognano, ma non vi rinunciano».
Questo è vero: gli uomini non riescono mai a scuotersi di dosso lo sguardo degli altri maschi. Ma la reazione può essere diversa: c’è chi ci sguazza, chi si mortifica, chi assume posture goffe.
«Sì, io sono di quelli che abbassa la testa. Ma succede quando sento che questa cosa dentro di me c’è».
Forse la chiave di tutto è nelle ultime pagine: quando lei confessa la sua via di fuga che è la superficialità.
«Sarei stato più rassicurante con un altro finale, ma io ho preferito essere sincero. L’unico modo per convivere con la bestia è lottare contro la profondità. Perché se si va troppo a fondo, s’incontra l’animale, non il trovatore che recita versi d’amore».