venerdì 30 novembre 2018

Repubblica 30.11.18
L’intervista
Piccolo: “L’uomo è una bestia Me compreso”
Non importa quanto civilizzato, intellettuale, culturalmente elevato: ogni maschio ha “un animale che si porta dentro. Che non se ne va mai via”
Lo scrittore premio Strega torna con un romanzo sul tema più scivoloso
Intervista di Simonetta Fiori


ROMA Ore 11, appuntamento con Francesco Piccolo nel suo studio romano all’Ostiense. Lo scrittore ci accoglie con quella simpatia che lo distingue nel minuscolo mondo delle lettere. Però l’ansia meticolosa con cui giustifichiamo il ritardo di un quarto d’ora – il traffico, l’interruzione del viadotto, i lavori stradali – rivela un nostro stato d’animo mutato. E se poi s’infuria? Non si può uscire indenni dalla lettura de L’animale che mi porto dentro,
spietata ricognizione endoscopica del grumo di rabbia, violenza, bestialità ossia la condizione maschile secondo Piccolo – con cui l’autore confessa di fare costantemente i conti. Con esiti più o meno fallimentari.
Se non temessi l’animale che si porta dentro, direi che il libro non mi ha convinto fino in fondo.
«Tranquilla, so tenere a bada la mia parte violenta».
Mi pare che lei abbia voluto compiacere il pubblico femminile confermando un cliché: io maschio primitivo e animale, tu donna sofisticata ed evoluta.
«In realtà ho cercato di raccontare la complessità del maschio, una caratteristica che è poco considerata».
La complessità?
«Sì, rozza, molto rozza ma è una complessità. Ossia quel percorso che noi uomini facciamo per liberarci dal grumo maschile che è fatto di tante cose: arroganza, prepotenza, bestialità, violenza, schiavitù dal desiderio. Un tentativo di emancipazione che è pieno di sofferenza».
Ma questo tentativo – lei racconta – è destinato a fallire.
«Ed è per questo che è doloroso.
Io per una vita ho tentato di separarmi dalla logica maschile del branco, dal modello paterno che introietta sesso e arroganza, dal bullismo dell’adolescenza carico di rabbia, ma vi sono riuscito solo in minima parte.
Sono diventato scrittore per ribadire la diversità dagli altri maschi e soprattutto da quel me stesso che era uguale agli altri maschi. Ho inseguito il miraggio della sensibilità, ma resto la merda che ero».
Nel romanzo si è spinto nell’esposizione di sé come mai era accaduto nei libri precedenti che pure raccontavano già tanto. In questo coraggioso.
«Sì, ma sempre in forma letteraria. Nel libro il personaggio principale si chiama Francesco Piccolo ma è perché il lettore sia indotto a pensare che tutto quel racconto sia vero. C’è una distanza tra me e l’io narrante».
Sì, ma la corrispondenza tra vita e letteratura resta forte.
Parlavamo di denudamento: lei racconta che, mentre dialoga con una collega o con la mamma di un compagno di suo figlio, dentro agiscano sempre gli stessi stringenti interrogativi: «come sarà nuda, chissà se le piaccio, sembra desiderosa, sembra rigida» e via dicendo.
«È un atto di disvelamento non solo personale ma collettivo.
Dopo aver letto questo libro tutti i miei amici si sono sentiti denudati. Qualcuno mi ha anche detto che non dovevo farlo. Non dovevo mostrare l’animale che c’è in noi perché così metto tutti alla gogna. Qualcun altro ha aggiunto che raccontandolo ho finito per razionalizzarlo come presenza reale, mentre noi tendiamo sempre a confonderlo nella caciara. Ma la sessualità è solo uno degli aspetti».
Direi centrale. Il prepuzio dell’io narrante occupa una parte rilevante dell’opera.
«Il desiderio sessuale è il canale di comunicazione più nitido che resiste tra noi maschi, anche tra diverse generazioni. Perfino nella manchevolezza: perché io racconto un percorso di fragilità sentimentale, di defaillance fisiche rispetto alle quali interviene il desiderio come elemento unificante del genere maschile. Il solo fatto di desiderare rende gli uomini tutti eguali e compatti. Una cosa che non se ne va mai via: è questa la scoperta spaventosa. Io mi evolvo, leggo, sviluppo una sensibilità colta, imparo ad amare ma questo nocciolo bestiale lo conservo integro dentro di me.
L’unica evoluzione possibile è imparare a conviverci».
Ma quello che viene fuori dal libro è l’irredimibilità della condizione maschile. In fondo lei dice: ragazze mie, rassegnatevi. Siamo ancora quelli che negli anni Cinquanta guardavano bramosi il sedere ondeggiante di Moira Orfei – è la bella fotografia sulla copertina del libro. Non le pare troppo comodo?
«Ma è proprio il contrario. Allora non sono riuscito a restituire quanto i maschi vivano male con se stessi. Questo rumore di fondo costante – che culo, che tette – è una sofferenza».
Ma non c’è il rischio di ricadere in uno schema tradizionale? Io maschio soffro tanto nella mia bestialità e tu donna mi devi accettare così come sono.
«Ma io nel libro non dico mai che le donne ci debbano accogliere così come siamo».
È quello che fa sua moglie, personaggio formidabile del racconto: sale su un gradino più in alto, come fanno molte mogli, e l’accoglie nella fragilità e nel tradimento.
«Non è mia moglie, è la moglie letteraria. Ed è lei a pronunciare la parola vera sul nostro personaggio: tu ti senti “stocazzo”. E lui crolla. Torna a essere l’adolescente pieno di brufoli».
A proposito di corrispondenza tra vita e letteratura: ma è vero che suo padre corteggiava Maria Corti per facilitare la carriera letteraria del figlio?
«Ma non vorrà metterlo nell’intervista?».
Sì, Maria Corti era una grande intellettuale e una donna molto spiritosa.
«Lei può immaginare il devastante imbarazzo in cui caddi quando seppi che mio padre faceva lo scemo con la professoressa Corti».
Quella del padre è la figura più drammatica.
«Malato di Alzheimer, è la dimostrazione straziante che perdute la consapevolezza e la memoria - nell’uomo resta solo l’attrazione per le femmine, ossessiva e ferina».
Non crede di esagerare con questa rappresentazione brutale del desiderio maschile? Anche la sua “educazione sentimentale” passa attraverso il fumetto “Lando”, che cultori della materia mi dicono ispirato a Lando Buzzanca…
«… assomiglia più a Celentano…»
… e le pellicole erotiche di Laura Antonelli. Ma possibile che l’immaginario del desiderio di uno degli autori più sensibili del cinema italiano sia rimasto bloccato alla giarrettiera dell’Antonelli? E non abbia mai agito un verso della poesia trobadorica, un’immagine di Dante o un frammento amoroso di Barthes?
«Certo che il mio immaginario s’è arricchito, ma a me interessava l’introspezione della bestia. La domanda vera è: perché tutto questo che lei dice si aggiunge ma non elimina l’animale che mi porto dentro? La giarrettiera dell’Antonelli è inscalfibile. E a questa realtà mi sembra si ribellino più le donne che gli uomini. Come se io vi dicessi che anche i maschi più evoluti sono molto peggio di come li pensiate».
Ma così finiamo per cadere nelle generalizzazioni. Il grado di evoluzione può essere più o meno profondo.
«Non siamo tutti uguali ma quel grumo maschile di protervia e presunzione ci unisce tutti. Basta assistere a una riunione di lavoro: gli uomini comunicano una forza straordinaria contro le donne. Lo fanno volontariamente o involontariamente, magari se ne vergognano, ma non vi rinunciano».
Questo è vero: gli uomini non riescono mai a scuotersi di dosso lo sguardo degli altri maschi. Ma la reazione può essere diversa: c’è chi ci sguazza, chi si mortifica, chi assume posture goffe.
«Sì, io sono di quelli che abbassa la testa. Ma succede quando sento che questa cosa dentro di me c’è».
Forse la chiave di tutto è nelle ultime pagine: quando lei confessa la sua via di fuga che è la superficialità.
«Sarei stato più rassicurante con un altro finale, ma io ho preferito essere sincero. L’unico modo per convivere con la bestia è lottare contro la profondità. Perché se si va troppo a fondo, s’incontra l’animale, non il trovatore che recita versi d’amore».

La Stampa 30.11.18
Sale la tensione Russia-Ucraina. Kiev vieta l’ingresso ai russi tra i 16 e 60 anni
L’annuncio del presidente Poroshenko: «Vogliamo impedire la formazione di distaccamenti di eserciti “privati” che sono avamposti delle loro forze armate»


L’Ucraina ha imposto una restrizione all’ingresso dei cittadini russi di età compresa tra i 16 e i 60, «in modo -fa sapere il presidente Petro Poroshenko- che la Federazione Russa non formi distaccamenti di eserciti “privati” in Ucraina, che sono in realtà avamposti delle forze armate russe». Lo ha reso noto lo stesso presidente ucraino, su Twitter. Poroshenko in mattinata ha incontrato i vertici militari ucraini per chiedere un giro di vite nella registrazione dei russi che arrivano in Ucraina.
I militari ucraini hanno svolto esercitazioni nell’area del mare d’Azov. Lo fa sapere l’ufficio stampa del Comando Interforze ucraino che si occupa della crisi nel Donbass, citato da Rt. Nella nota si legge che «l’aviazione ha imitato raid nemici contro le unità che proteggono la costa marina». Le unità in possesso di diversi sistemi antiaerei hanno svolto la missione «con successo». L’obiettivo, secondo l’ufficio stampa, era quello di «migliorare la gestione dei sistemi nel corso di sortite del nemico a bassa quota».
Il nodo delle sanzioni 
Il primo ministro ucraino Volodymyr Groysman ha chiesto sanzioni più severe da parte dell’Ue e della Germania contro la Russia, a seguito di un’escalation di tensioni tra Mosca e Kiev. «La Russia è un aggressore e un occupatore», ha detto Groysman all’edizione del venerdì del quotidiano tedesco Die Welt, aggiungendo che quando accaduto domenica nello stretto di Kerch lo ha dimostrato. Groysman ha anche criticato Nord Stream 2, il gasdotto progettato che collega Russia e Germania, affermando che ha spinto l’Europa verso la dipendenza dalla Russia. «Non è dannoso solo per l’Ucraina, ma per l’intero continente», ha dichiarato il premier. Il ministro dell’economia tedesco Peter Altmaier, tuttavia, ha avvertito che la questione dell’oleodotto non dovrebbe essere confusa con le tensioni della Crimea. «Queste sono due aree diverse», ha detto Altmaier, membro dell’Unione Cristiano-Democratica della cancelliera Angela Merkel, all’emittente pubblica ARD.

La Stampa 30.11.17
Sono 2 milioni i  lavoratori extracomunitari in regola nel 2017
di Emiliano Guanella


Sono sempre di più i lavoratori extracomunitari attivi in Italia, che nel 2017 hanno superato per la prima volta la quota di 2 milioni. Il saldo dei contributi dei cittadini provenienti da Paesi extra-Ue alla previdenza sociale è positivo: i pensionati si fermano a 96.743 unità, solo il 4,3%, con importo medio di poco più di 7 mila euro all’anno. In totale lo scorso anno i cittadini extracomunitari conosciuti dall’Inps perché lavoratori, pensionati o percettori di prestazioni a sostegno del reddito sono stati 2.259.652, in crescita del 3,2%. Secondo i dati dell’Osservatorio Inps, i lavoratori sono stati 2.042.156 (erano 1.991.544 nel 2016). Di questi 139.078 erano impiegati nel settore agricolo, 375.901 lavoratori domestici. I lavoratori dipendenti del settore privato non agricolo erano 1.185.585. Nel 2017, i Paesi i cui cittadini sono maggiormente rappresentati sono l’Albania (299.731), seguita dal Marocco (262.824), dalla Cina (209.405), dall’Ucraina (166.546), dalle Filippine (117.360) e dalla Moldavia (106.041). La popolazione in cui predominano i lavoratori è la Cina, (98,7% contro uno 0,9% di pensionati); seguono il Bangladesh (95,1% lavoratori) e l’India (94,2% lavoratori).

Corriere 30.11.18
Le paure e i diritti
Più sicuri non solo a parole
di Fiorenza Sarzanini


Più volte nelle ultime settimane il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha annunciato l’invio di nuovi poliziotti nelle questure e nei commissariati di tutta Italia. Ha dovuto chiarire che questo avverrà entro il prossimo febbraio perché «il governo si è impegnato ad assumere ottomila uomini delle forze dell’ordine» ma per farlo deve trovare i soldi. Questo non gli ha però impedito di usare uno dei suoi slogan preferiti: «Dalle parole ai fatti». Appena due giorni fa lo stesso Salvini si è schierato al fianco del commerciante di Arezzo che ha sparato e ucciso un ladro entrato nel suo negozio, rassicurandolo perché «con la nuova legge sulla legittima difesa non sarà processato». In realtà anche con le nuove norme un accertamento dei giudici sarà comunque necessario. Ma il punto da affrontare è proprio questo: quando le persone sono legittimate a usare un’arma per difendersi, vuole dire che il sistema sicurezza non funziona. Perché è giusto che i cittadini debbano essere protetti, ma a questo deve pensare lo Stato. Altrimenti si arriva alla giustizia «fai da te», alla vendetta privata. Bisogna impedire ai ladri di entrare nelle case, ma devono essere i poliziotti e i carabinieri a farlo. E dovrebbe essere proprio il ministro dell’Interno a rivendicarlo, anziché esortare i commercianti ad armarsi. Spetta a lui trovare il modo di dare seguito alla promessa fatta più volte, e ribadita nelle ultime ore, di dotare gli oltre ottomila Comuni italiani di un sistema di videosorveglianza in tutte le aree ritenute maggiormente a rischio.
Secondo i dati del Viminale la maggior parte dei reati è in calo, anche se gli analisti sottolineano che per alcuni delitti la diminu-zione potrebbe in realtà derivare dal minor numero di denunce presentate. Una sfiducia che del resto viene confermata da quelle statistiche e sondaggi secondo cui continua ad essere costante il senso di insicurezza delle perso-ne. È la microcriminalità a fare davvero paura, ad essere avvertita come una minaccia. Se è vero che i furti e gli scippi non vengono denunciati perché tanto si pensa che non saranno puniti, lo Stato perde. E dunque è su questo che bisogna lavorare, proteggendo gli anziani dalle truffe e i ragazzini dagli spacciatori. Effettuando un controllo del territorio efficace, dove l’enfasi lasci spazio alla con-cretezza. È bene ricordare che una vera politica di sicurezza governa i fenomeni anziché ingigantirli. E per farlo investe negli uomini e nei mezzi. È giusto pensare al raf-forzamento degli organici di poli-zia e carabinieri, ma questo va fat-to prima di essere annunciato. E dopo aver trovato i fondi necessa-ri a garantire lo svolgimento dei concorsi e gli stipendi per i nuovi assunti, ma soprattutto dopo aver provveduto al pagamento degli straordinari per chi è già in servi-zio e molto spesso è costretto ad-dirittura ad anticipare i soldi per le missioni in trasferta. Se Salvini ha davvero a cuore la sicurezza e non vuole limitarsi a una politica di propaganda, metta a punto un vero piano di interventi che non abbia come unico bersaglio gli stranieri. Renda le città davvero sicure partendo anche da quelle piccole cose come l’illuminazione delle strade e i presidi fissi nelle zone più pericolose. Renda evi-dente che vuole proteggere tutti i cittadini, ognuno nella propria realtà quotidiana, dimostrando che lo Stato non fa solo la voce grossa o le dirette sui social net-work. Solo allora si potrà davvero esultare per essere passati «dalle parole ai fatti».

Il Fatto 30.11.18
“Se la mia assenza al momento della votazione è stata interpretata come una presa di distanza dal provvedimento? Bè, avete interpretato bene”. Lo ha detto il presidente della Camera Roberto Fico L’Anpi: “Stravolge la Carta e si rischia l’apartheid legale”

Serve una “resistenza civile e culturale unitaria” contro il decreto Sicurezza di Matteo Salvini. Lo afferma l’Anpi, l’associazione dei partigiani, all’indomani dell’approvazione della legge bandiera della Lega. Con queste norme “si stravolge di fatto la Costituzione e l’Italia entra nell’incubo dell’apartheid giuridico”. E quindi “non si può restare inerti”. Non si è fatta aspettare a lungo la risposta ironica del capo della Lega: “I nostalgici delle bandiere rosse parlano di ‘incubo’ e invocano la ‘resistenza civile’”, ha scritto Salvini su Twitter. “Che paura! L’incubo erano i governi della sinistra, cacciati dagli italiani. Ora tornano finalmente ordine e rispetto. La pacchia è stra-finita!”. Oltre a varie associazioni, tra cui Caritas e Terre des Hommes, ha proposto un’iniziativa contro il decreto Salvini Maurizio Martina, candidato alla segreteria del Pd (in ticket con Matteo Richetti), che ha proposto agli altri aspiranti alla guida del partito di raccogliere le firme per un referendum abrogativo. I banchetti si terrebbero il 3 marzo ai gazebo delle primarie del Pd.

il manifesto 30.11.18
Sicurezza, la legge non è uguale per tutti
Immigrazione. Già la scelta di legare l’immigrazione al più ampio tema della sicurezza induce immediatamente ad una lettura deviante di fenomeni sociali che nulla hanno a che vedere con le paure mediaticamente soffiate su tanti cittadini. Inoltre, ricordiamo mestamente gli 80 anni delle leggi razziali con una previsione che consente al cittadino italiano di ottenere un certificato dal proprio Comune a vista mentre uno straniero regolarmente presente da 10 anni sul territorio che contribuisce con il proprio reddito al nostro sviluppo economico e paga diligentemente le tasse potrà dover attendere anche sei mesi
di Mario Morcone
*

Il Decreto immigrazione e sicurezza nasce male. Intanto perché già la scelta di legare l’immigrazione al più ampio tema della sicurezza induce immediatamente ad una lettura deviante di fenomeni sociali che nulla hanno a che vedere con le paure mediaticamente soffiate su tanti cittadini, meno avvertiti o più fragili e che temono per l’integrità dei propri beni, se non per la propria vita.
La questione migrazione e richiedenti asilo invece richiama immediatamente i valori che sono parte della nostra storia consacrata nella prima parte della Costituzione e nell’adesione a trattati internazionali, a direttive europee e al percorso che i Paesi fondatori dell’Unione europea, tra cui il nostro, hanno faticosamente costruito nei decenni passati.
Poi, una serie di scelte concrete che saranno fonte di un forte arretramento della qualità dei diritti e delle libertà e che invece produrranno, a mio avviso, molti molti guai. In primo piano la rottura di quella concertazione permanente tra Stato, Regioni e Comuni nata nel 2015 e 2016 che stava rafforzando una infrastruttura dell’accoglienza in maniera equa su tutto il territorio nazionale attenuando, attraverso la scelta dei piccoli numeri e lo svuotamento dei grandi centri, l’impatto sociale sui territori. Se a questo si aggiunge l’annunciato taglio dei servizi e la riduzione nei fatti dei progetti Sprar si realizza uno straordinario ritorno al passato che non avremmo più voluto conoscere. La grande illusione del blocco dell’arrivo dei migranti nell’area Schengen temo che potrà alla prima occasione essere spazzata via, costringendoci ai vecchi metodi della nomina del Commissario Straordinario e della semplificazione delle procedure amministrative.
Per il momento, con il taglio dei servizi, ripristineremo non solo le grandi concentrazioni e, sarei pronto a scommettere, soprattutto nel mio Mezzogiorno, ma costruiremo lo spazio migliore per chi fa dell’impresa sociale un’occasione finalizzata al solo perseguimento del profitto avendo magari fallito in altre opportunità d’impresa.
Rinunciare poi ad uno spazio di flessibilità quale era la protezione umanitaria (magari tipizzata in fasce meno discrezionali) che consenta alla Repubblica italiana di far emergere e rendere legali, anche solo per un periodo di tempo determinato, chi ha un regolare contratto di lavoro, non ha commesso illegalità e vive con noi rispettando le nostre regole, è contro ogni comprensibile ragionevolezza. Che dire poi della lista dei Paesi sicuri, delle procedure accelerate che verranno applicate non all’aeroporto di Orly o ad un confine terrestre ma in una penisola circondata dal mare con l’impossibilità di riportare in tempi rapidi nel Paese di origine coloro che non hanno diritto o che almeno come tali verranno dichiarati.
Infine, che dire dell’integrazione e dell’inclusione per le quali si sta provvedendo al taglio di tutti i fondi disponibili e ad un contrasto sempre più feroce alle associazioni che si sono impegnate in questo settore. L’aspettativa da parte di tutti i cittadini di vedere queste persone non più senza far nulla in attesa che scorrano le ore senza in nessun modo partecipare alla vita sociale ed economica del nostro Paese, verrà fortemente tradita.
È esattamente quello che si sta realizzando chiudendo persino quell’ultima porta dell’integrazione rappresentata dall’acquisizione della cittadinanza. Norme come quella della sua possibile revoca o il termine di 48 mesi che l’amministrazione si arroga per valutare la richiesta di concessione sono sconcertanti e saranno certamente oggetto del vaglio della Corte Costituzionale. Ma noi ricordiamo mestamente gli 80 anni delle leggi razziali con una previsione che consente al cittadino italiano di ottenere un certificato dal proprio Comune a vista mentre uno straniero regolarmente presente da 10 anni sul territorio che contribuisce con il proprio reddito al nostro sviluppo economico e paga diligentemente le tasse potrà dover attendere anche sei mesi.
*Direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati

il manifesto 30.11.18
«Nessuna svolta». Fico rompe i rapporti con il parlamento egiziano
Egitto/Italia. La decisione del presidente della Camera a due mesi dalla visita al Cairo. Conte: «Non capisco la ragione». Sette gli indagati dalla Procura di Roma per il sequestro di Giulio Regeni
di Chiara Cruciati


Il presidente della Camera Roberto Fico ha concesso due mesi e dieci giorni allo Stato egiziano per dare una svolta vera, concreta, alle indagini sul rapimento e l’omicidio di Giulio Regeni. Tempo sprecato, come dimostrato dall’ultimo incontro tra procura di Roma e procura generale egiziana.
E Fico ha reagito: «Con grande rammarico annuncio ufficialmente che la Camera sospenderà ogni tipo di relazione diplomatica con il parlamento egiziano – ha detto ieri – fino a quando non ci sarà una svolta vera nelle indagini e un processo che sia risolutivo». «A settembre sono andato al Cairo – ha aggiunto – Avevo detto sia al presidente al-Sisi che al presidente del parlamento egiziano che eravamo in una situazione di stallo. Avevo avuto delle rassicurazioni, ma ad oggi non è arrivata nessuna svolta».
Il presidente della Camera fa quello che tre governi non hanno fatto, far pagare all’Egitto il prezzo – seppur simbolico – di quasi tre anni di silenzi e depistaggi, tre anni pieni di altri Giulio Regeni egiziani. È vero che nell’aprile 2016, a due mesi dal ritrovamento del corpo del giovane ricercatore, l’allora governo Renzi richiamò l’ambasciatore ma i rapporti economici, militari e politici non sono mai venuti meno. Fino al rientro del nostro rappresentante al Cairo, alla vigilia di ferragosto 2017, senza che nulla fosse stato archiviato.
Così, dopo la «rottura» della Procura di Roma che ha deciso di indagare sette sospettati da sé per superare la volontaria apatia degli inquirenti egiziani, ieri è stato Fico ad alzare la voce come ha fatto il 17 settembre al Cairo: i depistaggi hanno ucciso Giulio due volte, aveva detto dopo l’incontro con il presidente al-Sisi, per poi chiedergli di svelare il sistema che lo aveva ammazzato. Un problema politico per il generale golpista che su quel sistema di repressione istituzionalizzata fonda il suo potere.
E un problema concreto: dal 1999, con la firma del protocollo di collaborazione, la Camera dei Deputati e l’Assemblea del Popolo egiziana hanno dato vita a un gruppo di cooperazione parlamentare che prevede incontri annuali su questioni bilaterali, regionali e internazionali. Il protocollo prevede riunioni periodiche di organi formati da deputati dei due paesi che svolgono un ruolo nel mantenere i rapporti tra i due governi, soprattutto in concomitanza di vertici intergovernativi.
Nel primo pomeriggio di ieri i capigruppo della Camera hanno accettato all’unanimità la decisione del presidente. Che non è piaciuta invece al primo ministro +Conte, su cui la notizia è piovuta in testa mentre arrivava al G20 di Buenos Aires: «Non ho parlato con Fico. Non so per quale ragione ha deciso». Conte si pone interrogativi sulla «ragione», come non fosse chiara a chiunque abbia a cuore la questione. Poche ore prima aveva parlato il ministro dell’Interno Salvini, secondo cui «il governo e il parlamento stanno facendo il massimo, purtroppo governiamo in Italia e non in Egitto».
Eppure è proprio in Italia che la risposta manca: se si stesse facendo il possibile, le relazioni – di ogni tipo – con un paese che viola i diritti umani e massacra con fame e repressione il suo popolo sarebbero stati già interrotti. L’altro vice premier, Luigi Di Maio, esponente dei 5Stelle come Fico e protagonista di una visita al Cairo ai limiti dell’assurdo, non parla.
Lo fa la famiglia Regeni che ieri ha espresso «gratitudine per il lavoro prezioso ed incessante della procura» e per l’impegno di Fico «che fin dal primo momento ha dimostrato salda e concreta vicinanza alla nostra battaglia».
Testa di ariete devono essere la presidenza della Camera e la Procura di Roma. Mercoledì Piazzale Clodio ha annunciato l’imminente iscrizione nel registro degli indagati dei funzionari dei servizi considerati responsabili materiali della morte di Giulio. Ieri si è parlato di sette persone accusate di sequestro di persona. Le prove in mano ai pm italiani sono rintracciabili nei tabulati telefonici che dimostrano che Regeni era seguito e controllato fino al giorno della sua sparizione.
Tra loro il maggiore Magdi Abdlaal Sharif e il capitano Osan Hemly, che avrebbero gestito l’operazione coinvolgendo il capo del sindacato degli ambulanti, Mohammed Abdallah. Proprio lui, che riprese con una telecamera nascosta Giulio il 7 gennaio 2016, è la prova di un lungo periodo di pedinamento, non solo «tre giorni» come Il Cairo voleva far passare. Un anno fa Piazzale Clodio aveva dato a dieci sospetti nomi e cariche: due generali, due colonnelli, un maggiore, tre capitani, due agenti. Non proprio gli ultimi ingranaggi del sistema. Responsabili dell’omicidio e dei depistaggi, a partire dalla sparatoria a senso unico in cui furono uccisi, nel marzo 2016, cinque egiziani innocenti e dall’introduzione dei documenti di Giulio nella casa di uno di loro. La decisione di procedere è stata presa dopo i mancati riscontri nel vertice al Cairo questa settimana: gli inquirenti egiziani hanno consegnato sette paginette pressoché vuote. Dal febbraio 2016 l’Egitto non collabora, consapevole che sul banco degli imputati ci finirebbe l’intero regime.

Corriere 30.11.18
Gli 007 a casa di Regeni tre giorni prima della sua scomparsa
«Volevano sapere cosa avrebbe fatto il 25 gennaio»
di Giovanni Bianconi


ROMA Il 22 gennaio 2016, tre giorni prima della sua scomparsa, gli agenti della National security egiziani entrarono a casa di Giulio Regeni, quando lui non c’era, per fare dei controlli. È la conferma dell’interesse quasi spasmodico che i servizi segreti del Cairo avevano maturato nei confronti del ricercatore che lavorava per l’università di Cambridge, ed è uno degli elementi in mano alla Procura di Roma per ipotizzare il coinvolgimento di almeno cinque funzionari che saranno indagati per sequestro di persona. A cominciare dal maggiore Magdi Sharif, anello intermedio della catena di comando della Ns, che teneva i rapporti con Mohamed Abdallah, il sindacalista dei venditori ambulanti in contatto con Giulio e divenuto la spia che l’ha denunciato e ne riferiva le mosse alla Sicurezza egiziana.
«Parlando con il maggiore Sharif ho capito che volevano tenerlo sotto controllo ancora, per sapere che cosa avrebbe fatto il 25 gennaio», ha riferito Abdallah agli investigatori del Cairo in uno dei verbali acquisiti dal pubblico ministero di Roma Sergio Colaiocco. Proprio il 25 gennaio Regeni è stato sequestrato dopo essere uscito dal suo appartamento intorno alle 19,30, ed entrato nella fermata della metropolitana de quartiere Dokky alle 19,51. Da quel momento, quando il suo telefono cellulare registra l’ultimo contatto, se ne sono perse le tracce fino alla ricomparsa del cadavere, il 3 febbraio, sulla Desert road che dal Cairo porta ad Alessandria.
Le attenzioni dei servizi segreti sul ricercatore italiano cominciano subito dopo la segnalazione di Abdallah, che ne parla con il colonnello della polizia investigativa Ather Kamal, altro nome candidato a finire sul registro degli indagati della procura di Roma. È lui ad accompagnare il sindacalista negli uffici della Ns, dove incontra Sharif e il suo superiore, il colonnello Usham Hely, lo stesso che dopo il ritrovamento del cadavere dirà agli investigatori italiani giunti al Cairo di non avere mai saputo nulla di Regeni. Una bugia, evidenzia ora l’indagine italiana; l’inizio dei depistaggi per coprire le azioni dei Servizi che invece — oltre ad aver arruolato Abdallah — erano stati a casa di Giulio poco prima della sua scomparsa e in più occasioni aveva provato a prendergli il passaporto.
Le ricerche
Agenti si presentarono nell’abitazione di Giulio quando lui non c’era per un controllo
La ricerca del documento è divenuto un altro indizio di colpevolezza per la procura di Roma. A partire dal 15 dicembre, l’assistente della Ns Mhamoud Najem, stretto collaboratore del colonnello Helmy, ha avvicinato a più riprese un avvocato egiziano coinquilino di Regeni per ottenere una copia del passaporto di Giulio. Non essendoci riuscito, la stessa richiesta è stata fatta al portiere del palazzo dove abitava il ragazzo. Evidentemente volevano certezze sull’identità di una persona che aveva suscitato sospetti dopo che Abdallah aveva rivelato agli agenti segreti la vicenda del possibile finanziamento di 10.000 sterline della fondazione britannica Antipode; la prova che dietro quell’ipotetico stanziamento possa celarsi il motivo delle attenzioni sul ricercatore universitario sta nel fatto che il 18 dicembre il sindacalista chiede e riceve da Giulio il bando di concorso per aggiudicarsi i soldi, su ordine di Sharif.
Nei giorni seguenti Regeni torna in Italia per le vacanze di Natale, ma al Cairo la Ns continua a chiedere e raccogliere informazioni sul suo conto, tramite l’assistente Najem. E decide di far scattare la trappola con la registrazione del colloquio tra Giulio e Abdallah, attraverso una telecamera nascosta attivata dal sindacalista. Giulio rientra in Egitto il 4 gennaio e l’incontro avviene il 7; il giorno prima i funzionari della Ns consegnano ad Abdallah l’apparecchiatura per intercettare il colloquio, e stavolta è presente anche il generale Sabir Tareq, il più alto in grado tra i prossimi indagati.
Diecimila sterline
Sospetti per i possibili fondi alla sua ricerca dalla fondazione britannica Antipode
Parlando con il sindacalista, Giulio capisce che il leader degli ambulanti è interessato più ai soldi per sé che al finanziamento e alle sorti del suo movimento. Dopo averlo salutato Abdallah chiama il colonnello Kamal, che a sua volta avvisa la Ns; dalla sede dei Servizi partono alcune chiamate ad Abdallah, e poi il sindacalista chiama direttamente il maggiore Sharif per farsi dire come è venuta la registrazione. Nelle due settimane successive, fino al 21 gennaio, Sharif parlerà al telefono con Abdallah altre tredici volte. Fino alla visita in casa di Giulio del 22. E alla volontà di seguirlo il 25.
Da questi e altri elementi, i poliziotti dello Sco e i carabinieri del Ros sono giunti alla conclusione del «coinvolgimento degli indiziati nel sequestro di persona di Giulio Regeni, delitto che ha permesso ai suoi carnefici di torturarlo, ucciderlo e gettare il corpo ai lati di una strada di periferia del Cairo».

Il Fatto 30.11.18
L’ambulante chiamò gli 007. Regeni, sequestro di Stato
I tabulati - Dopo l’incontro con il ricercatore, si registrano contatti tra il capo del sindacato dei venditori e tre della National Security. Così è nato il sospetto
di Valeria Pacelli


Gli agenti della National Security egiziana, secondo gli investigatori italiani, entrano a gamba tesa nel sequestro di Giulio Regeni il 6 gennaio 2016. Quel giorno di quasi tre anni fa, il ricercatore friulano ha un appuntamento con il capo del sindacato autonomo degli ambulanti del Cairo, Mohammed Abdallah. L’incontro viene filmato dall’ambulante stesso. La registrazione però finisce agli atti del fascicolo della Procura di Roma che l’analizza nel dettaglio. Ed è il pm Sergio Colaiocco a scoprire che quel giorno – dopo il caffè preso con Regeni e una richiesta di denaro che il ricercatore nega – sul cellulare dell’ambulante vengono registrate tre telefonate di tre utenze diverse, tutte della National Security.
È questo l’elemento che fa accendere i fari sugli apparati di Stato egiziani. E il conseguente sospetto che siano coinvolti nel sequestro di Giulio Regeni. Cosa sia avvenuto dopo – le torture e la morte – è ancora un buco nero. Non si conoscono i responsabili. Ma i pm romani – che indagano con i colleghi egiziani fissando diversi summit in questi anni, di fatto infruttuosi – sono convinti che, a differenza di quanto detto, almeno cinque uomini della National Security abbiano sorvegliato il ricercatore per qualche mese, fino al 25 gennaio 2016, giorno della scomparsa. Per questo la settimana prossima si procederà all’iscrizione nel registro degli indagati di sette tra 007 e poliziotti locali. E tra questi anche alcuni che parteciparono al blitz contro la presunta banda di rapitori, quelli indicati all’inizio dalla polizia egiziana come responsabili dell’omicidio. Era uno dei primi depistaggi consegnati all’Italia, insieme ai documenti di Giulio – come il passaporto o la tessera dell’Università di Cambridge – serviti su un piatto d’argento. Un falso, si è poi scoperto, costato anche la vita a cinque rapitori, uccisi durante quella farsa.
Le iscrizioni sono comunque un atto necessario per ulteriori approfondimenti.
Le telefonate tra Abdallah e gli apparati
Per ricostruire la fase del sequestro, come detto, per i pm romani è stata fondamentale l’analisi del video integrale registrato dal capo del sindacato autonomo degli ambulanti, lo stesso che poi ha denunciato Regeni. “L’ho consegnato agli Interni – dichiarò all’edizione araba dall’Huffington Post – (…) Faceva domande strane, stava con gli ambulanti per le strade, interrogandoli su questioni che riguardano la sicurezza nazionale”.
Per l’appuntamento del 6 gennaio 2016, Abdallah si presenta con una microcamera nascosta in un bottone. Strumento che, secondo gli investigatori, sarebbe stato fornito dalla stessa polizia locale. L’incontro dura un’ora e 55 minuti. Un’ora e 45 di colloquio effettivo. Durante il colloquio, l’ambulante chiede denaro a Giulio. Parla della sua situazione familiare, della moglie con il cancro e della figlia operata. Il ricercatore spiega che non può fare nulla, sono soldi dell’università britannica e lui non ha intenzione di chiederli per fini diversi dalla ricerca. Così se ne va.
Ma il video continua. Infatti analizzandolo fino alla fine – come ricostruito in un’informativa di Ros e Sco del 21 gennaio 2017 – gli investigatori notano che l’ambulante parla al telefono. L’identificazione dei suoi interlocutori rappresenta la chiave di svolta dell’indagine romana. Analizzando i tabulati telefonici del 6 gennaio 2016, infatti, gli investigatori scoprono che Abdallah chiama un colonnello della National Security, tale Ater Kamal, il quale a sua volta sente il maggiore Sharif. Sono due dei cinque dell’Apparato di sicurezza finiti nell’informativa degli investigatori.
A questo punto sul telefono del capo del sindacato viene registrata un’altra telefonata, in entrata, da parte del centro della National Security. Purtroppo non è stato possibile capire a quale 007 appartenesse precisamente quel contatto.
Ma il filmato di Abdallah mostra una nuova sorpresa. Nel video integrale si vede anche un secondo soggetto, un uomo che spegne la registrazione. Gli investigatori romani hanno chiesto alla Procura generale del Cairo di capire se si trattasse, pure in questo caso, di un agente della National Security, ottenendo una risposta negativa. A ogni modo, quel filmato è stato l’asso nella manica degli investigatori italiani per capire il ruolo della National Security.
Ignoti ancora i torturati, l’Egitto non aiuta
Purtroppo si tratta solo di una parte della vicenda. Resta infatti il buio totale sulla fase successiva alla scomparsa di Regeni, su cosa sia accaduto dalla sera del 25 gennaio 2016, quinto anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir, quando tra le 19.40 e le 20.18 dell’accademico si perdono le tracce. Nove giorni dopo, il suo corpo verrà trovato senza vita lungo la superstrada Cairo-Alessandria. Torturato e ucciso da qualcuno ancora ignoto. E nella ricostruzione della verità l’Egitto non è stato di particolare aiuto.

il manifesto 30.11.18
Armi ed expo militare, affari italiani al Cairo
Italia/Egitto. La prossima settimana si apre al Cairo l'esposizione militare internazionale. Ci sarà anche un padiglione di aziende italiane. Intanto l'Istat fa sapere che solo a luglio 2018 l'Italia ha venduto quasi 2 milioni di euro in armi leggere e a uso militare
di Chiara Cruciati


Dal 3 al 5 dicembre Il Cairo ospita la Egypt Defence Expo, esposizione dedicata alla produzione militare «per terra, mare e aria», sponsorizzata da esercito egiziano e presidenza della Repubblica (al-Sisi). Oltre 300 espositori da mezzo mondo e 10mila visitatori, tra cui delegazioni di Stati. Tra i padiglioni quello italiano con Beretta, Fincantieri, G&G, Iveco, Leonardo, Telegi, Tesylab.
«Avere un padiglione nazionale e far esporre le maggiori aziende a controllo statale – spiega al manifesto Giorgio Beretta di Opal – a un salone militare come Edex 2018 significa lanciare un chiaro messaggio di sostegno al regime repressivo di al-Sisi e alla sua politica militare in Nord Africa. Messaggio ancora più grave se, oltre alle aziende, sarà presente qualche rappresentante del governo italiano».
L’Italia c’è, dunque. Anche nell’export di armi all’Egitto: secondo l’Istat a luglio 2018 Roma ha autorizzato la vendita di armi leggere, munizioni e loro parti e accessori, per un valore di quasi 2 milioni di euro (quasi quanto l’intero 2017 e 500mila euro in più del 2016). A giugno erano stati venduti 28mila euro di armi, a maggio 115mila e a febbraio 623mila. Anche per uso militare, fa notare Beretta.
«Meglio» di noi solo la Spagna: 3,8 milioni a marzo. Sul piano dell’ecosostenibile il 2 e 3 dicembre si terranno al Cairo incontri tra aziende italiane ed egiziane su acqua, rifiuti, energia e mobilità, evento organizzato proprio dall’ambasciata italiana. La conferenza sarà aperta dall’ambasciatore Cantini e saranno presenti due ministri del regime del Cairo.

il manifesto 30.11.18
Una svolta per la verità
Giulio Regeni. silenzi di tre governi, quelli a guida Pd di Matteo Renzi e poi di Gentiloni, e quello attuale gialloverde di Giuseppe Conte - non a caso contrariato dalla decisione coraggiosa di Fico - ha davvero il sapore di rottura per una svolta di verità
di Tommaso Di Francesco


Il presidente della camera Roberto Fico ha annunciato ieri l’interruzione delle relazioni diplomatiche tra i parlamenti italiano ed egiziano fino a una svolta vera nell’inchiesta sull’omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni; definendo poi «atto coraggioso» l’iscrizione nel registro degli indagati di 7 agenti dei servizi segreti egiziani da parte della Procura di Roma. Sarà pure un atto simbolico, ma a fronte di troppe menzogne e silenzi di tre governi, quelli a guida Pd di Matteo Renzi e poi di Gentiloni, e quello attuale gialloverde di Giuseppe Conte – non a caso contrariato dalla decisione coraggiosa di Fico – ha davvero il sapore di rottura per una svolta di verità.
Con la quale Fico ha mantenuto la promessa d’impegno fatta alla famiglia Regeni. Perché finora dalle sedi del potere nulla era ed è venuto. E poi basta con la grande ipocrisia di chi, nei giornali, tace che Renzi è stato lo sdoganatore del golpista Al Sisi, diventato l’interlocutore della politica estera italiana; e tale è rimasto anche con il «nuovo» governo dei due populismi, giustizialista del M5s e razzista di Salvini. E che, nonostante le promesse di Di Maio al Cairo, continua a considerare il regime di al Sisi il referente della crisi in Libia, della strategia energetica e grande piazza d’affari del nostro export milionario di armi. Un regime responsabile della morte del ricercatore italiano, come di migliaia di oppositori egiziani, che ha la faccia tosta di dichiarare: «Regeni, uno di noi».
Dopo quasi tre anni dal suo assassinio, nessuna verità è mai arrivata dall’Egitto. In queste ore il procuratore di Roma Colaiocco ha constatato di persona che la «disponibilità» delle autorità giudiziarie egiziane è pura formalità: nessuna prova è stata consegnata e addirittura gli attesi referti video risultano contraffatti. Così sarà l’Italia ad aprire l’iscrizione del registro dei primi sette indagati del crimine. Sarà la manovalanza del sequestro, delle torture e dell’omicidio, non certo chi l’ha ordinato, come il ministro degli interni Ghaffar, il capo torturatore di Giza Shalaby, il generale-spione Hegay e in primis il presidente Al Sisi. Un’altra iniziativa «simbolica» ma capace di dimostrare che dai sicari si può risalire alla piramide dei mandanti.

La Stampa 30.11.18
I media egiziani censurano i sette indagati
Il silenzio descrive l’irritazione del regime
di Francesca Paci


Nella loquace Cairo tutto tace. «Ma veramente la Procura di Roma ha preso una linea così dura? Non ne sapevo proprio niente, qui non c’è alcuna reazione» ammette al telefono un impiegato statale che lavora nel settore economico.
A eccezione della foto di mercoledì sera con i due procuratori che si stringono la mano e il comunicato congiunto sulla rinnovata collaborazione tra Egitto e Italia non c’è nulla sui media in arabo, nulla sui social vicini al regime, nulla sulle tv governative né sulle quelle private ormai quasi tutte di proprietà del Golfo. Nessun accenno ai sette ufficiali iscritti nel registro degli indagati da Roma e neppure alle parole dure del presidente della Camera Fico: a sentire le fonti ufficiali egiziane pare che sul caso del sequestro e dell’omicidio di Regeni non ci siano divergenze, si continua a lavorare insieme.
La notizia in realtà al Cairo è arrivata eccome. E non solo perché due giorni fa gli inquirenti italiani hanno comunicato esplicitamente ai colleghi la loro decisione di andare avanti anche da soli. La notizia si trova cercando negli ultimi siti residui di un’opposizione azzittita, MadaMasr, Watan, Rasd, tra i servizi di al Jazeera, nei blog in cui si associa l’assassinio di Giulio Regeni a quello dell’oppositore saudita Khashoggi, attribuito al principe Mohammed bin Salman, reduce da una visita diplomatica all’alleato al Sisi.
L’impressione in Egitto è che silenzio e indifferenza siano invece «assai eloquenti», che rivelino «un’irritazione» del regime profonda quanto inesprimibile a meno di strappare. E strappare non conviene a nessuno. Perché negli ultimi tempi la collaborazione geopolitica tra il Cairo e Roma è stata inversamente proporzionale a quella delle rispettive Procure su Regeni: ossia, molto intensa. C’è in ballo il dossier immigrazione, con un esercito di decine di migliaia di disperati fermi in Egitto ma pronti ad ingrossare le fila di quelli che già s’imbarcano dalla Tunisia e dalla Libia. C’è la Libia per l’appunto, la cui Conferenza di Palermo ha incassato la stretta di mano con il generale Haftar grazie alla presenza e ai buoni uffici del presidente al Sisi. C’è il mutuo interesse economico rispetto al quale si registra anche la preoccupazione dell’Eni, il gruppo italiano con le maggiori attività in Egitto, per la situazione di tensione che si sta creando tra i due Paesi.
«Dietro la noncuranza ostentata c’è preoccupazione, allarme» si lascia sfuggire una fonte diplomatica da cui si capisce che al Cairo non è sfuggita neppure una virgola di quanto annunciato dalla Procura di Roma e, di conseguenza, da Roberto Fico.

La Stampa 30.11.17
Obrador inizia il mandato sfidando il muro di Trump


A cinque mesi dalla sua robusta vittoria Andrés Manuel Lopez Obrador si insedia domani come nuovo presidente del Messico promettendo di cambiare il volto di un Paese sprofondato in una grave crisi sociale, con alti livelli di diseguaglianza e una violenza da trentamila morti ammazzati all’anno. Amlo, come viene chiamato, ha stravinto nelle elezioni a luglio, raccogliendo trenta milioni di voti e la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento e durante la lunga transizione durata 150 giorni non ha visto diminuire questo sostegno: due messicani su tre, secondo recenti sondaggi, hanno fiducia in lui per combattere i due principali mali messicani, intimamente legati fra loro; la criminalità organizzata e la corruzione. È la prima volta per il Messico che la sinistra arriva al governo interrompendo il potere quasi egemonico del Pri, il partito-Stato che oggi soffre una profonda crisi d’identità.
La linea economica
Un po’ come accadde con Lula da Silva in Brasile nel 2002, Lopez Obrador ha dovuto tranquillizzare i mercati; ha promesso che manterrà l’autonomia della banca centrale, ha negato che ci saranno espropri di imprese private o aumenti delle tasse. Al contrario, per far fronte al deficit nei conti dello Stato ha promesso un forte taglio nella spesa pubblica, con uno snellimento della gigantesca macchina amministrativa federale. «Dobbiamo finanziare lo sviluppo economico senza aumentare le imposte. Dobbiamo attrarre capitali stranieri e questo è possibile solo con un piano robusto per la sicurezza nazionale». Carismatico e molto amato dai suoi, Obrador ha limitato al massimo l’uso di scorte e si è mescolato con la folla, lo si visto imbottigliato nel traffico di Città del Messico con la gente che scendeva dalle auto per scattare selfie con lui. Per i suoi detrattori si tratta di un populista poco preparato, ma per la maggior parte dei messicani rappresenta una speranza rispetto al degrado dell’attuale classe dirigente. Domani gli verrà consegnato un «bastone del comando» da parte dei rappresentanti delle etnie indigene messicane. Poi, davanti al Congresso, attenderà l’arrivo del presidente uscente Enrique Pena Nieto di ritorno dal vertice del G20 di Buenos Aires. Tra le prime sfide sul tavolo ci sono i rapporti commerciali e politici con gli Stati Uniti di Trump e la questione dei migranti centroamericani fermi da settimane a Tijuana in attesa di un visto per gli Stati Uniti.

Corriere 30.11.18
Maleducato, ultrà, ex re dei casinò: è l’ultima stampella di Netanyahu
Oren Hazan è il deputato che con il suo voto tiene in vita il governo in Israele
di Davide Frattini


GERUSALEMME Alla parata di benvenuto per Donald Trump un anno e mezzo fa, si è intrufolato senza invito, ha superato la barriera di giacche scure e tirandolo per il braccio ha costretto il presidente americano a un selfie fuori protocollo. Gli avrebbe pure sussurrato «sono il Trump israeliano», non proprio un complimento considerato che Oren Hazan ha gestito casinò in Bulgaria ed è sospettato — lui smentisce — di aver fatto girare prostitute e cocaina assieme alla roulette.
È anche il parlamentare che più ha creato imbarazzi al premier Benjamin Netanyahu in questi tre anni di legislatura. A metà novembre è stato sospeso sei settimane dalla Knesset per aver insultato un generale della riserva e funzionario al ministero della Difesa durante un dibattito. Era stato riammesso da poco nel palazzo costruito a Gerusalemme nel 1966 con una donazione della famiglia Rothschild, un altro esilio punitivo di sei mesi deciso dal comitato etico con questa motivazione: «Il deputato Hazan sembra essersi dato l’obiettivo di tormentare i parlamentari arabi o le colleghe donne con offese e umiliazioni». Alla laburista Michal Biran aveva detto «sei troppo brutta per essere ingaggiata come prostituta».
La lista delle ingiurie è lunga — pochi giorni fa ha oltraggiato un deputato disabile dell’opposizione chiamandolo Golem (un mostro antropomorfo) — quanto il suo incarico è diventato indispensabile per Netanyahu. Le dimissioni di Avigdor Liberman — da ministro della Difesa e da alleato — hanno lasciato il premier con una maggioranza striminzita e vacillante di 61 deputati sui 60 necessari. Così il governo si ritrova a contare su Hazan, l’alternativa è la caduta e le elezioni anticipate.
Nonostante la sospensione di cinque settimane, può ancora partecipare alle votazioni. I dirigenti del Likud sono però preoccupati dalla sua (in)disciplina. Alla mensa del parlamento — racconta il quotidiano Haaretz — un gruppo di deputati della destra si rinfacciava a vicenda di averlo ammesso nel partito. In realtà il politico ha rischiato di restare fuori dalla Knesset e la sua elezione ha sorpreso pure Netanyahu che gli aveva garantito il trentesimo posto nella lista, quello riservato a un giovane candidato (nel 2015 Hazan aveva 34 anni). Il Likud ha trionfato e ha conquistato giusto giusto 30 seggi.
Così Oren è rientrato nel palazzo da cui il padre era stato cacciato nel 2003: era stato colto a votare due volte e per far sparire le prove dell’azione illegale aveva cercato di portarsi via i computer usati per registrare le decisioni dell’assemblea. Era stato lui a passargli l’eredità di stile e ideologia in un video elettorale che aveva lasciato perplessi gli strateghi del Likud. Sigaro cubano e bicchiere di vino rosso, Hazan senior offre consigli al delfino in una scena che vuole ricordare il Padrino anche per lo slogan alla Vito Corleone: «Fai agli israeliani un’offerta che non possono rifiutare».

La Stampa 30.11.18
La sfida per l’Unesco è dichiarare Israele patrimonio dell’umanita’
di Christian Rocca


Il reggae è patrimonio dell’umanità, secondo l’insindacabile giudizio dell’Unesco, l’Organizzazione culturale e scientifica delle Nazioni Unite che per l’occasione si è riunita nell’isola di Mauritius per una settimana (sul sito trovate anche un elenco dei resort consigliati). Il mondo se ne rallegra, del resto chi non ha cantato nella sua vita No Woman No Cry o ballato su Jammin’ (per etichetta, qui non si fa nessun cenno a sostanze psicotrope). Già meno entusiasmo suscitano le ultimissime tradizioni culturali che, sempre secondo l’Unesco, necessitano di una salvaguardia urgente da parte della comunità internazionale, tipo la lotta georgiana, la danza matrimoniale della Giordania, un paio di riti del Kazakistan e del Giappone, e poi l’hurling, una specie di hockey celtico (l’Italia, all’asciutto a questo giro, è già tutelata sull’arte della pizza napoletana, sul canto a tenore sardo, sulla dieta mediterranea, sui muretti a secco, sui maestri liutai di Cremona, sulla coltivazione della vite a Pantelleria e sull’opera dei pupi: no, non è il nuovo organigramma del governo).
Il summit di Mauritius pone alcune questioni, anche sovraniste volendo: per esempio perché il reagge sì e la taranta no? E il liscio romagnolo o gli stornelli romani? Perché l’Onu non tutela la grande tradizione della canzone napoletana, compreso lo spin off neomelodico? Forse è solo questione di tempo, magari arriverà anche il tempo della salvaguardia del trap, degli youtuber e probabilmente un giorno celebreremo l’arte di Fedez e dei fashion blogger, #IntangibleHeritage è un hashtag favoloso, quali primari patrimoni immateriali del mondo intero.
La seconda considerazione è più seria. L’Unesco è una delle più screditate agenzie delle Nazioni Unite, negli Anni Ottanta è stata al centro di incredibili e grotteschi scandali per spreco di denaro, corruzione, nepotismo e inefficienza. Nel 1984, gli Stati Uniti ne sono usciti, col presidente Reagan, dopo una serie di scontri con il padre-padrone dell’Organizzazione, il senegalese Amadou-Mahtar M’Bow, il quale d’accordo con le dittature di mezzo mondo aveva approvato il New World Information and Communication Order secondo cui la stampa capitalista e occidentale tendeva a distorcere le notizie provenienti dai Paesi Non Allineati, quasi tutte dittature, falsificando i dati oppure non raccontando degli straordinari successi che questi paesi avevano raggiunto. Una cosa ridicola, specie se si considera che nessuno di quei Paesi aveva una stampa libera. Nel 2003, è stato George W. Bush a far rientrare gli Stati Uniti nell’organizzazione, mentre nel 2011 Barack Obama non è riuscito a fermare l’automatismo, previsto da una legge americana, secondo cui gli Stati Uniti non possono finanziare agenzie Onu che riconoscono la Palestina come membro pieno.
L’Unesco ha una solida tradizione di iniziative anti-occidentali e soprattutto anti israeliane, grazie anche al fatto che non è soggetta al potere di veto dei Paesi permanenti del Consiglio di Sicurezza. Gli ultimi sono di due anni fa e dell’anno scorso: quando, tra la tutela di un muretto a secco e la vigilanza sulla pizza Margherita, ha negato i legami con la tradizione ebraica del Muro del Pianto e del Tempio del Monte a Gerusalemme, e poi anche della tomba dei patriarchi a Hebron, luoghi sacri per la religione ebraica ma che per l’Unesco lo sono soltanto per l’Islam. L’America, questa volta con Donald Trump, è uscita dall’Agenzia e anche il precedente governo italiano, dopo un iniziale tentennamento, si è opposto alle risoluzioni antisemite. Ora l’Unesco ha una nuova presidente, l’ex ministro francese Audrey Azoulay, che sta provando a restituire credibilità. Il reggae va certamente nella direzione giusta, ma forse non guasterebbe dichiarare una volta per tutte che anche Israele è un patrimonio dell’umanità.

Il Fatto 30.11.18
Parola di Unesco: il reggae diventa Patrimonio “immateriale” dell’Umanità
di Stefano Mannucci


Stadio di Kingston, 22 aprile 1978. Marley è alle prese con l’ipnotica Jammin’, la canzone che invita i giamaicani alla riconciliazione nazionale. Bob chiama sul palco Michael Manley ed Edward Seaga, i leader dei due partiti che alimentano la guerra civile sull’isola. Li costringe a darsi la mano: il passo verso la pacificazione non sarà indolore, ma quello è il giorno in cui una musica “regionale” cambia le sorti di un angolo di mondo.
Ieri l’Unesco, l’agenzia culturale delle Nazioni Unite, ha dichiarato il reggae Patrimonio (“immateriale”) dell’Umanità. La motivazione? Ha sollecitato le coscienze sui temi “dell’ingiustizia, della resistenza e dell’amore”. Dagli emarginati dei Tropici a una consapevolezza globale. Il riconoscimento dell’Unesco è qualcosa di più di una simbolica onorificenza: è, tra l’altro, la conferma che nel ritmo sensuale del reggae vi sia una “missione” politico-spirituale, ispirato com’è al “rastafarianesimo”, la religione che vedeva in Hailé Selassie, imperatore d’Etiopia, l’incarnazione del Messia. Grazie a Marley, ma anche a Peter Tosh o Jimmy Cliff e alla divulgazione di Eric Clapton, il reggae è uscito per sempre dal pittoresco recinto in cui i detrattori vedevano solo dreadlock, marijuana ed esotico sballo.
E il rock? Due anni fa a tentare l’Unesco (interpellando Franceschini) fu il governatore della Lombardia Maroni, musicista a tempo perso. All’Onu non registrarono segnali: un altro fiasco istituzionale italiano. Bisognerà alzare di nuovo il volume. In nome di Elvis.

Repubblica 30.11.18
Il genere
Dreadlock e libertà il reggae va protetto
di Ernesto Assante


Il ritmo nato nei Caraibi di Bob Marley diventa patrimonio immateriale dell’Unesco. Un culto sempre coltivato anche in Italia, da De Gregori alla Bertè
Il reggae è libertà». Ci dice una cosa semplice e chiara Loredana Bertè, grande appassionata della musica giamaicana, e interprete di uno dei classici italiani del genere, E la luna bussò. «Sono onorata di aver portato in Italia una musica divenuta poi Patrimonio dell’Umanità», aggiunge, celebrando la scelta fatta dall’Unesco, che ha deciso di inserire il reggae nella sua lista di patrimoni mondiali immateriali dell’umanità, quindi non solo meritevole di promozione ma anche di protezione. Ha ragione l’Unesco, il reggae è qualcosa di speciale, di diverso da tutte le altre musiche: ha un ritmo rallentato, tutt’altro che ansiogeno, in contrasto con i ritmi quotidiani della vita occidentale, un ritmo in “levare” che sembra essere fatto apposta per mettere in sintonia il respiro e il battito del cuore, un ritmo “naturale” che vuole essere filo conduttore di energia positiva tra corpo e cervello. Ed è una musica dai contenuti forti che, come dice l’Unesco, ha contribuito alla presa di coscienza internazionale “sui temi dell’ingiustizia, della resistenza, dell’amore e dell’umanità”. «Io penso che sia cosa buona e giusta», dice Nina Zilli, da sempre appassionata di reggae, musicista e cantante che ha un ricco repertorio legato alla musica giamaicana, «il reggae è unico e importante, come il blues, il rock, il soul, e non lo è solo per le “buone vibrazioni” di Marley ma perché ha saputo diffondere messaggi positivi attraverso tanti artisti in tutto il mondo».
Sì, il reggae è giamaicano, erede naturale di calypso, mento, ska, ma dopo l’avvento di Bob Marley, prima grande star internazionale ad arrivare dal Terzo Mondo, si è trasformato in una lingua senza confini: c’è reggae in Inghilterra e in America, c’è reggae in Africa e in Europa, c’è reggae, tanto, in Italia. «Sono cresciuta nel Salento, chiamata anche “piccola Giamaica”, perché il reggae è vissuto come musica della nostra terra», dice Alessandra Amoroso, cresciuta a pane e reggae con il padre, grande frequentatrice di dancehall salentine, «questa notizia non può che farmi piacere. Il reggae è nato per diffondere parole di giustizia e di amore, è musica che unisce i popoli al di là del colore della pelle e vuole dimostrare che può esserci un mondo di uguaglianza e che la pace può esistere. In Redemption song di Marley il messaggio è chiaro: la redenzione è possibile, siamo liberi di poter scegliere».
Per i salentini il reggae è musica popolare, la si suona nei paesi e nelle città, nelle feste e nei concerti, e la si esporta in tutto il mondo come fanno i Sud Sound System: «Per noi è una doppia vittoria», tiene a sottolineare Nandu Popu, «perché oltre al reggae l’Unesco nell’ultima lista di cose da trasformare in Patrimonio dell’Umanità ha inserito anche i muretti a secco del Salento.
Muretti che sono stati primi testimoni delle nostre dancehall». Dal 1979, quando Loredana Bertè portò al successo E la luna bussò (ma già l’anno prima Rino Gaetano aveva introdotto la parola in Nuntereggae più), di musica reggae in Italia se n’è fatta tanta e bella, con band come gli Africa Unite, Pitura Freska, Casino Royale, Bluebeaters, 99 Posse, Almamegretta e il sound system romano One Love Hi Powa, solo per citare i più famosi di una scena ricchissima. Ma il reggae è stato frequentato dai cantautori, come De Gregori e Vecchioni, e ha scalato le classifiche in forma di pop, fino ad arrivare ad oggi con i Boomdabash, sempre salentini, e soprattutto Alborosie, diventato una delle stelle della scena reggae internazionale, partendo dalla Sicilia. «Ricordo ancora la prima volta che ho ascoltato Bob Marley, nella cameretta della mia migliore amica, a otto anni», dice ancora Nina Zilli, «fu un illuminazione e a 14 anni avevo già i dreadlock».
Oggi li portano in tanti, come in tanti hanno conosciuto per mezzo del reggae la religione rastafariana, o hanno apprezzato la profonda spiritualità di molti artisti, primo fra tutti Marley, in grado di mettere sullo stesso spartito musicale carnalità e spiritualità. «Il segreto?
È che il reggae è come il latino che si parla e si studia ancora dopo millenni», dice ancora Nandu Popu, «è un modo di comunicare, è uno stile di vita, è rivoluzione e, lo diciamo noi da pronipoti di tarantati, è medicina. In parole povere, il reggae è realtà».

La Stampa 30.11.18
Campaldino, se quel guerrier Dante fosse
La battaglia di Campaldino del 11 giugno 1289, gli affreschi del Palazzo Comunale di San Gimignano
di Alessandro Barbero


Sabato 11 giugno 1289, giorno di san Barnaba, l’esercito fiorentino che marciava attraverso il Casentino per invadere il territorio di Arezzo arrivò in vista del castello di Poppi, che sorge su uno sperone isolato in un’ansa dell’Arno. L’esercito era partito da Firenze nove giorni prima, al suono delle campane; s’era accampato fuori città ad attendere l’arrivo degli alleati mandati dalle altre città guelfe, poi s’era mosso e adesso era lì, a metà strada tra Firenze e Arezzo, dopo aver percorso cinquanta chilometri su cattive strade di montagna, al passo lento dei carri dei viveri, trainati da buoi. Davanti a Poppi la valle si allarga formando una pianura, chiamata all’epoca Campaldino; era la prima località che gli invasori incontravano, lungo quel percorso montuoso, adatta per schierare e manovrare la cavalleria, e lì, puntualmente, li aspettava il nemico, schierato a sbarrare il fondovalle, accanto a un convento di francescani chiamato Certomondo.
Quando fu evidente che quel giorno ci sarebbe stata battaglia, i comandanti cominciarono a ordinare le loro truppe e a discutere il da farsi. La forza d’urto di un esercito era formata dalla cavalleria, armata di lancia e spada e coperta di ferro; l’esercito dei fiorentini e dei loro alleati guelfi aveva 1300 cavalieri secondo il cronista Dino Compagni, che in quei mesi era uno dei sei priori che governavano Firenze e doveva saperlo. Erano molti: con duemila cavalieri, nel Medioevo, si conquistava un regno. Fra loro, i fiorentini erano 600, tutti «cittadini con cavallate», scelti, cioè, dal lungo elenco dei cittadini che per obbligo fiscale, avendone i mezzi, dovevano mantenere un cavallo da guerra: «i meglio armati e montati» che fossero mai usciti da Firenze, secondo l’altro grande cronista cittadino, Giovanni Villani. Ma non tutti erano giovani o volenterosi, e i capitani ne scelsero un quarto, 150 in tutto, che schierarono davanti agli altri: sarebbero stati i primi a partire alla carica se si fosse deciso di attaccare; i primi a subire l’urto, se ad attaccare fosse stato il nemico.
Dal racconto del Villani s’intuisce che la scelta di questi feditori, quelli col compito, cioè, di colpire per primi il nemico – è questo il significato originario di ferire, che i toscani storpiavano in fedire – provocò un certo nervosismo: tutti capivano che era la posizione più pericolosa. Per fortuna c’era tempo, le battaglie medievali cominciavano solo quando tutti si erano schierati con comodo, a nessuno piaceva affrontare una prova così pericolosa senza essersi preparato, consigliandosi sul da farsi e pregando Dio per la vittoria. Siccome i volontari scarseggiavano, un capitano per ogni sesto, cioè per ognuno dei sei rioni in cui era divisa Firenze, fu incaricato di designare i feditori; messer Vieri de’ Cerchi, capitano per il sesto di Porta San Piero, fece scalpore designando se stesso, suo figlio e i nipoti.
Fra quei feditori schierati in prima fila c’era anche Dante. Lo racconta l’umanista Leonardo Bruni, che nel 1436, già anziano, scrisse una Vita di Dante. Il ricordo di Campaldino era ancora vivissimo, perché quella giornata aveva contribuito in modo decisivo all’egemonia di Firenze in Toscana; e che Dante avesse combattuto lì, per il Bruni era molto importante. E infatti ci torna con insistenza; non senza un certo disagio, perché il Bruni era di Arezzo, e la sconfitta degli aretini un po’ ancora gli bruciava, ma comunque con l’esplicita dichiarazione che si tratta di una pagina cruciale della vita di Dante. Tanto che rimprovera il suo predecessore, il Boccaccio, autore di una delle prime biografie dantesche, di non averne parlato: avrebbe fatto meglio a farlo, invece di scrivere tante sciocchezze sugli amori del poeta.
La partecipazione alla battaglia serve al Bruni a dimostrare che Dante, nonostante l’enorme impegno negli studi, non viveva fuori dal mondo, anzi era un giovane come tutti gli altri – ed essere giovane significava anche andare in guerra quando la patria lo richiedeva. È il Bruni a dirci che Dante era «nella prima schiera»; a sceglierlo per far parte dei feditori fu molto probabilmente messer Vieri de’ Cerchi, futuro capo della parte bianca, e vicino di casa di Dante nel sesto di Porta San Piero. Ma il Bruni, come faceva a saperlo? Perché aveva letto una lettera di Dante, che noi oggi non abbiamo più, in cui raccontava la sua esperienza a Campaldino. E dunque il poeta quel mattino era lì, ad aspettare sotto il sole. I fanti, armati più alla leggera, potevano sedersi, e attingere alla zucca piena di vino che portavano alla cintura. I cavalieri potevano magari smontare, ma non era prudente allontanarsi dai cavalli, e la maggior parte di loro saranno rimasti in sella. Una volta indossata la cotta di maglia di ferro, pesante quindici o venti chili, era impossibile togliersela fino alla fine dello scontro; solo il grande elmo chiuso, caldo e soffocante, poteva restare fino all’ultimo momento affidato a un servitore, insieme alla lancia, allo scudo, e per i più ricchi a un cavallo di riserva. A noi fa un certo effetto immaginare Dante non con la solita cappa rossa e gli allori in testa, ma a cavallo con la cotta di maglia e la lancia, ma è così che dobbiamo immaginarlo quel ragazzo di ventiquattro anni – e dunque Campaldino è una delle poche battaglie che a buon diritto si sono guadagnate un posto nella storia della letteratura italiana.

Repubblica 30.11.18
Rai 3, la Lega vuole tornare all’assalto della direzione
Il capogruppo in Vigilanza su Coletta: lo cambiamo. Poi rettifica Mentre Report indaga sui fondi al Carroccio
di Giovanna Vitale


Roma Che la Lega avrebbe preferito sostituirlo, non è un mistero per nessuno. Nel valzer dei direttori di rete e di Tg inaugurato a Viale Mazzini dalla maggioranza gialloverde, l’unico a resistere all’ondata sovranista è stato il capo di Rai3 Stefano Coletta. Nominato nell’estate 2017, e confermato a dispetto del cambio di governo. Salvo scoprire che il disegno salviniano di mettere le mani sull’ultimo avamposto rimasto fuori dalla spartizione è tutt’altro che archiviato.
Palazzo San Macuto, interno giorno. È lì che ieri mattina si ritrovano il capo della Vigilanza Barachini e gli altri componenti dell’Ufficio di presidenza per decidere il calendario delle audizioni dei nuovi direttori di rete. « Coletta lasciamolo per ultimo, inutile sentirlo, tanto non durerà a lungo » , se ne esce il leghista Capitanio, lasciando interdetti i colleghi. ( come svelato da Repubblica. it). «Forse è stata una battuta » , sdrammatizza il forzista Mulè. Fatto sta che la voce comincia a circolare e a sera Capitanio è costretto a correggere il tiro: «Mai parlato di sostituzione, mi sono solo limitato a dire che era meglio sentire prima i direttori di Rai1 e Rai2, che sono stati appena nominati » . Ma ormai la frittata è fatta e il piano svelato. Non l’unico, almeno secondo la senatrice dem Monica Cirinnà. « Sembra che Report abbia pronta una puntata “ bomba” sui fondi della Lega e i suoi rapporti con la criminalità organizzata al Sud e che la trasmissione sia stata bloccata da un ordine dei piani alti della Rai. L’ad Salini chiarisca » . Stavolta tocca a Sigfrido Ranucci, autore e conduttore di Report, smentire: « Mai ricevuto pressioni su nessuna inchiesta, in questa azienda mi sento libero » . La messa in onda è prevista il 10 dicembre. Basta aspettare.


https://spogli.blogspot.com/2018/11/repubblica-30.html

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