Repubblica 29.11.18
Dramma
La speranza di Panahi è nella riscossa delle donne
Le
immagini del nuovo film del regista iraniano Jafar Panahi Tre volti,
vincitore del premio per la miglior sceneggiatura a Cannes
di Emiliano Morreale
Jafar Panahi è diventato una specie di simbolo dell’opposizione culturale al regime di Teheran.
Imprigionato,
poi liberato ma colpito dal divieto di girare altri film, il regista ne
ha però realizzati clandestinamente ben quattro, che è riuscito a
mostrare all’estero (dove non può recarsi). Quest’ultimo ha vinto il
premio per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes: premio in
effetti meritato, perché (come in molti film iraniani recenti)
l’impressione di verità quasi documentaristica nasconde in realtà una
costruzione complessa e astuta.
Una costruzione che però si mostra
anche nel suo artificio e che viene quasi sciolta a contatto con i
luoghi reali, trasformandosi in apologo sulla creazione artistica. E a
sua volta la riflessione su verità e finzione si carica di significati
politici: era questa, in fondo, la lezione del compianto Abbas
Kiarostami, di cui Panahi è allievo. Anche qui si possono trovare forse
alcuni omaggi al cinema del maestro, dalla struttura del lungo viaggio
in auto alla donna che si sistema in una tomba, che evoca Il sapore
della ciliegia.
Il film comincia aggiornandosi ai moderni
dispositivi di comunicazione: una ragazzina si riprende col telefonino
prima di impiccarsi. La famiglia l’ha data in sposa a un uomo
impedendole la carriera di attrice, lei ha invocato invano l’aiuto della
celebre attrice Behnaz Jafari, ora ha deciso di farla finita. Jafari
(che recita nei panni di se stessa) lascia il set del film che sta
girando, per scoprire se si tratta di un video autentico o di uno
scherzo.
Accanto a lei, al volante dell’auto, c’è Panahi, che fa
anche da interprete (il viaggio si svolge in un paesino di confine in
cui parlano turco). Gli incontri (che spesso hanno a che fare con la
messa in scena del reale: gente che chiede autografi, una vecchia
attrice emarginata e amareggiata) si susseguono con un’aria
apparentemente svagata da road movie, ma in realtà compongono un’accorta
suspense su toni da commedia, con gli incontri e scontri tra la
protagonista e la sua "spalla".
Alla fine è evidente, da parte di
un regista prigioniero in patria, la metafora della reclusione e anche
una satira precisa del maschilismo: un fratello maggiore bruto viene
chiuso fuori di casa, una donna chiede di consegnare un prepuzio
portafortuna, un toro da monta ostruisce la strada ai protagonisti. Tra
questi simboli, più ridicoli che minacciosi, sta salda e affascinante la
protagonista, con uno sguardo inquieto ma saggio, nel quale il regista
sembra riporre le proprie speranze.