Il Fatto 29.11.18
Cinema e ’68, dopo 50 anni il tradimento è ancora vivo
di Roberto Faenza
Per
fortuna stanno per finire le celebrazioni del ’68. Come tutte le
commemorazioni il rischio è la retorica. Infatti a seguire l’apoteosi
dei ricordi di allora a volte sembra di sentire i reduci del Vietnam. Ho
partecipato a qualche ricorrenza e mi ha stupito non vedere mai un
giovane, ma solo attempati protagonisti del tempo che fu, alcuni ancora
con i capelli lunghi, come quando si dimostrava inneggiando a Mao e Ho
Chi Minh. Il secondo (il suo nome significa “portatore di luce”) è stato
un combattente eroico, quanto al primo la storia ha sollevato parecchi
dubbi. Oggi a guidare i giovani non ci sono maître à penser e neppure
ideologie. Ho appena visto sfilare per le vie di Milano ragazzini delle
scuole medie insieme ad alcune elementari, con tanto di tamburi gioiosi,
alzando striscioni per avere una mensa decente. A riprova che già da
piccoli oggi si lotta per cose concrete e non per utopie.
Nelle
varie rievocazioni non poteva mancare il cinema, che nel ’68 si è fatto
notare soprattutto per aver occupato il festival di Venezia, che poi si
tenne lo stesso in sordina, all’italiana. Di recente si è tenuto un
incontro organizzato da Felice Laudadio, presidente del Centro
sperimentale di Cinematografia, nonchè direttore del Festival di Bari,
forse la sola rassegna che ha fatto proprie le parole d’ordine di 50
anni fa, ovvero partecipazione, discussione, minimizzazione dei premi e
del divismo hollywoodiano. L’incontro ha avuto il merito di radiografare
cosa è stato il ’68 cinematografico, demistificandone l’aurea e
riconoscendo i limiti. Avendo partecipato ai “moti” veneziani (avevo
appena diretto il mio primo film, Escalation, proprio sulla
contestazione giovanile ed ero stato coerente rifiutandomi di portarlo
in concorso a Venezia), penso di essere in grado di parlare soprattutto
degli errori, non tutti commessi in buona fede.
Immagino che mi
attirerò le ire di qualche partecipante di allora allergico alle
critiche. Dirò subito che la mia opinione del ’68 è quella di un grande
tradimento. Nato come movimento spontaneo di studenti, lentamente è
degenerato, venendo presto assorbito dai partitini che poi si sono
lasciati egemonizzare dai gruppi armati. Il cinema non è stato meno
contraddittorio. Per emulare i colleghi del Festival di Cannes, i quali
sull’onda del “joli mai” avevano occupato e impedito che si svolgesse la
rassegna poco dopo essere iniziata, i cineasti italiani hanno pensato
di dover fare altrettanto. Ma mentre in Francia non erano i politici a
muoversi dietro le quinte, bensì autori del calibro di François
Truffaut, Jean Luc Godard, Louis Malle… da noi è stato soprattutto il
partito comunista a tenere le fila. Infatti si è subito palesata la
vocazione al compromesso. Posso sbagliarmi, ma di registi arrivati a
Venezia non in linea col Pci ne ho contati pochi. Di certo Pasolini, che
pochi mesi prima aveva manifestato a Valle Giulia il proprio dissenso
nei confronti del movimento studentesco. Era uno spirito troppo
indipendente per sentire il giogo di un partito seppure tanto presente.
E
infatti fu forse il solo capace di esprimere una posizione autonoma. Lo
ricordo come fosse oggi, visto che fui proprio io a metterlo in salvo
su un motoscafo per sottrarlo ai fascisti che lo volevano linciare,
accorsi al Lido per menar le mani. A differenza dei colleghi francesi i
cineasti italiani diedero prova di subordinazione e incoerenza. Volevano
impedire che si svolgesse il festival, ma lo lasciarono andare avanti,
volevano che si dimettesse il direttore Luigi Chiarini, ma lo lasciarono
al suo posto, volevano che gli autori italiani presenti in cartellone
si ritirassero, ma poi lasciarono correre. Insomma “non fu una cosa
seria”, come evidenzia il bel documentario Venezia 68, realizzato da
Steve Della Casa e Antonello Sarno. Non sapevo che Giuseppe Laterza,
capo della casa editrice, fosse nipote del povero Chiarini. L’ho
ascoltato ricordare con lucidità i giorni del tormento del nonno.
Tanto
ingiustamente contestato e indotto a lasciare la direzione del festival
appena terminato. Alla luce del senno di poi si dimostrò più libero di
molti che vennero dopo. La beffa fu quando i registi più vicini al Pci,
da Carlo Lizzani a Gillo Pontecorvo, nominati direttori, fecero
esattamente il contrario di ciò per cui si erano battuti. Rimisero i
film in competizione, riaccreditarono i vituperati premi, richiamarono
in massa gli americani, riaprirono i saloni al divismo. Povero ’68,
meglio che riposi in pace.