Repubblica 30.11.18
Il genere
Dreadlock e libertà il reggae va protetto
di Ernesto Assante
Il
ritmo nato nei Caraibi di Bob Marley diventa patrimonio immateriale
dell’Unesco. Un culto sempre coltivato anche in Italia, da De Gregori
alla Bertè
Il reggae è libertà». Ci dice una cosa semplice e
chiara Loredana Bertè, grande appassionata della musica giamaicana, e
interprete di uno dei classici italiani del genere, E la luna bussò.
«Sono onorata di aver portato in Italia una musica divenuta poi
Patrimonio dell’Umanità», aggiunge, celebrando la scelta fatta
dall’Unesco, che ha deciso di inserire il reggae nella sua lista di
patrimoni mondiali immateriali dell’umanità, quindi non solo meritevole
di promozione ma anche di protezione. Ha ragione l’Unesco, il reggae è
qualcosa di speciale, di diverso da tutte le altre musiche: ha un ritmo
rallentato, tutt’altro che ansiogeno, in contrasto con i ritmi
quotidiani della vita occidentale, un ritmo in “levare” che sembra
essere fatto apposta per mettere in sintonia il respiro e il battito del
cuore, un ritmo “naturale” che vuole essere filo conduttore di energia
positiva tra corpo e cervello. Ed è una musica dai contenuti forti che,
come dice l’Unesco, ha contribuito alla presa di coscienza
internazionale “sui temi dell’ingiustizia, della resistenza, dell’amore e
dell’umanità”. «Io penso che sia cosa buona e giusta», dice Nina Zilli,
da sempre appassionata di reggae, musicista e cantante che ha un ricco
repertorio legato alla musica giamaicana, «il reggae è unico e
importante, come il blues, il rock, il soul, e non lo è solo per le
“buone vibrazioni” di Marley ma perché ha saputo diffondere messaggi
positivi attraverso tanti artisti in tutto il mondo».
Sì, il
reggae è giamaicano, erede naturale di calypso, mento, ska, ma dopo
l’avvento di Bob Marley, prima grande star internazionale ad arrivare
dal Terzo Mondo, si è trasformato in una lingua senza confini: c’è
reggae in Inghilterra e in America, c’è reggae in Africa e in Europa,
c’è reggae, tanto, in Italia. «Sono cresciuta nel Salento, chiamata
anche “piccola Giamaica”, perché il reggae è vissuto come musica della
nostra terra», dice Alessandra Amoroso, cresciuta a pane e reggae con il
padre, grande frequentatrice di dancehall salentine, «questa notizia
non può che farmi piacere. Il reggae è nato per diffondere parole di
giustizia e di amore, è musica che unisce i popoli al di là del colore
della pelle e vuole dimostrare che può esserci un mondo di uguaglianza e
che la pace può esistere. In Redemption song di Marley il messaggio è
chiaro: la redenzione è possibile, siamo liberi di poter scegliere».
Per
i salentini il reggae è musica popolare, la si suona nei paesi e nelle
città, nelle feste e nei concerti, e la si esporta in tutto il mondo
come fanno i Sud Sound System: «Per noi è una doppia vittoria», tiene a
sottolineare Nandu Popu, «perché oltre al reggae l’Unesco nell’ultima
lista di cose da trasformare in Patrimonio dell’Umanità ha inserito
anche i muretti a secco del Salento.
Muretti che sono stati primi
testimoni delle nostre dancehall». Dal 1979, quando Loredana Bertè portò
al successo E la luna bussò (ma già l’anno prima Rino Gaetano aveva
introdotto la parola in Nuntereggae più), di musica reggae in Italia se
n’è fatta tanta e bella, con band come gli Africa Unite, Pitura Freska,
Casino Royale, Bluebeaters, 99 Posse, Almamegretta e il sound system
romano One Love Hi Powa, solo per citare i più famosi di una scena
ricchissima. Ma il reggae è stato frequentato dai cantautori, come De
Gregori e Vecchioni, e ha scalato le classifiche in forma di pop, fino
ad arrivare ad oggi con i Boomdabash, sempre salentini, e soprattutto
Alborosie, diventato una delle stelle della scena reggae internazionale,
partendo dalla Sicilia. «Ricordo ancora la prima volta che ho ascoltato
Bob Marley, nella cameretta della mia migliore amica, a otto anni»,
dice ancora Nina Zilli, «fu un illuminazione e a 14 anni avevo già i
dreadlock».
Oggi li portano in tanti, come in tanti hanno
conosciuto per mezzo del reggae la religione rastafariana, o hanno
apprezzato la profonda spiritualità di molti artisti, primo fra tutti
Marley, in grado di mettere sullo stesso spartito musicale carnalità e
spiritualità. «Il segreto?
È che il reggae è come il latino che si
parla e si studia ancora dopo millenni», dice ancora Nandu Popu, «è un
modo di comunicare, è uno stile di vita, è rivoluzione e, lo diciamo noi
da pronipoti di tarantati, è medicina. In parole povere, il reggae è
realtà».