La Stampa 30.11.18
Campaldino, se quel guerrier Dante fosse
La battaglia di Campaldino del 11 giugno 1289, gli affreschi del Palazzo Comunale di San Gimignano
di Alessandro Barbero
Sabato
11 giugno 1289, giorno di san Barnaba, l’esercito fiorentino che
marciava attraverso il Casentino per invadere il territorio di Arezzo
arrivò in vista del castello di Poppi, che sorge su uno sperone isolato
in un’ansa dell’Arno. L’esercito era partito da Firenze nove giorni
prima, al suono delle campane; s’era accampato fuori città ad attendere
l’arrivo degli alleati mandati dalle altre città guelfe, poi s’era mosso
e adesso era lì, a metà strada tra Firenze e Arezzo, dopo aver percorso
cinquanta chilometri su cattive strade di montagna, al passo lento dei
carri dei viveri, trainati da buoi. Davanti a Poppi la valle si allarga
formando una pianura, chiamata all’epoca Campaldino; era la prima
località che gli invasori incontravano, lungo quel percorso montuoso,
adatta per schierare e manovrare la cavalleria, e lì, puntualmente, li
aspettava il nemico, schierato a sbarrare il fondovalle, accanto a un
convento di francescani chiamato Certomondo.
Quando fu evidente
che quel giorno ci sarebbe stata battaglia, i comandanti cominciarono a
ordinare le loro truppe e a discutere il da farsi. La forza d’urto di un
esercito era formata dalla cavalleria, armata di lancia e spada e
coperta di ferro; l’esercito dei fiorentini e dei loro alleati guelfi
aveva 1300 cavalieri secondo il cronista Dino Compagni, che in quei mesi
era uno dei sei priori che governavano Firenze e doveva saperlo. Erano
molti: con duemila cavalieri, nel Medioevo, si conquistava un regno. Fra
loro, i fiorentini erano 600, tutti «cittadini con cavallate», scelti,
cioè, dal lungo elenco dei cittadini che per obbligo fiscale, avendone i
mezzi, dovevano mantenere un cavallo da guerra: «i meglio armati e
montati» che fossero mai usciti da Firenze, secondo l’altro grande
cronista cittadino, Giovanni Villani. Ma non tutti erano giovani o
volenterosi, e i capitani ne scelsero un quarto, 150 in tutto, che
schierarono davanti agli altri: sarebbero stati i primi a partire alla
carica se si fosse deciso di attaccare; i primi a subire l’urto, se ad
attaccare fosse stato il nemico.
Dal racconto del Villani
s’intuisce che la scelta di questi feditori, quelli col compito, cioè,
di colpire per primi il nemico – è questo il significato originario di
ferire, che i toscani storpiavano in fedire – provocò un certo
nervosismo: tutti capivano che era la posizione più pericolosa. Per
fortuna c’era tempo, le battaglie medievali cominciavano solo quando
tutti si erano schierati con comodo, a nessuno piaceva affrontare una
prova così pericolosa senza essersi preparato, consigliandosi sul da
farsi e pregando Dio per la vittoria. Siccome i volontari
scarseggiavano, un capitano per ogni sesto, cioè per ognuno dei sei
rioni in cui era divisa Firenze, fu incaricato di designare i feditori;
messer Vieri de’ Cerchi, capitano per il sesto di Porta San Piero, fece
scalpore designando se stesso, suo figlio e i nipoti.
Fra quei
feditori schierati in prima fila c’era anche Dante. Lo racconta
l’umanista Leonardo Bruni, che nel 1436, già anziano, scrisse una Vita
di Dante. Il ricordo di Campaldino era ancora vivissimo, perché quella
giornata aveva contribuito in modo decisivo all’egemonia di Firenze in
Toscana; e che Dante avesse combattuto lì, per il Bruni era molto
importante. E infatti ci torna con insistenza; non senza un certo
disagio, perché il Bruni era di Arezzo, e la sconfitta degli aretini un
po’ ancora gli bruciava, ma comunque con l’esplicita dichiarazione che
si tratta di una pagina cruciale della vita di Dante. Tanto che
rimprovera il suo predecessore, il Boccaccio, autore di una delle prime
biografie dantesche, di non averne parlato: avrebbe fatto meglio a
farlo, invece di scrivere tante sciocchezze sugli amori del poeta.
La
partecipazione alla battaglia serve al Bruni a dimostrare che Dante,
nonostante l’enorme impegno negli studi, non viveva fuori dal mondo,
anzi era un giovane come tutti gli altri – ed essere giovane significava
anche andare in guerra quando la patria lo richiedeva. È il Bruni a
dirci che Dante era «nella prima schiera»; a sceglierlo per far parte
dei feditori fu molto probabilmente messer Vieri de’ Cerchi, futuro capo
della parte bianca, e vicino di casa di Dante nel sesto di Porta San
Piero. Ma il Bruni, come faceva a saperlo? Perché aveva letto una
lettera di Dante, che noi oggi non abbiamo più, in cui raccontava la sua
esperienza a Campaldino. E dunque il poeta quel mattino era lì, ad
aspettare sotto il sole. I fanti, armati più alla leggera, potevano
sedersi, e attingere alla zucca piena di vino che portavano alla
cintura. I cavalieri potevano magari smontare, ma non era prudente
allontanarsi dai cavalli, e la maggior parte di loro saranno rimasti in
sella. Una volta indossata la cotta di maglia di ferro, pesante quindici
o venti chili, era impossibile togliersela fino alla fine dello
scontro; solo il grande elmo chiuso, caldo e soffocante, poteva restare
fino all’ultimo momento affidato a un servitore, insieme alla lancia,
allo scudo, e per i più ricchi a un cavallo di riserva. A noi fa un
certo effetto immaginare Dante non con la solita cappa rossa e gli
allori in testa, ma a cavallo con la cotta di maglia e la lancia, ma è
così che dobbiamo immaginarlo quel ragazzo di ventiquattro anni – e
dunque Campaldino è una delle poche battaglie che a buon diritto si sono
guadagnate un posto nella storia della letteratura italiana.