venerdì 30 novembre 2018

Il Fatto 30.11.18
Parola di Unesco: il reggae diventa Patrimonio “immateriale” dell’Umanità
di Stefano Mannucci


Stadio di Kingston, 22 aprile 1978. Marley è alle prese con l’ipnotica Jammin’, la canzone che invita i giamaicani alla riconciliazione nazionale. Bob chiama sul palco Michael Manley ed Edward Seaga, i leader dei due partiti che alimentano la guerra civile sull’isola. Li costringe a darsi la mano: il passo verso la pacificazione non sarà indolore, ma quello è il giorno in cui una musica “regionale” cambia le sorti di un angolo di mondo.
Ieri l’Unesco, l’agenzia culturale delle Nazioni Unite, ha dichiarato il reggae Patrimonio (“immateriale”) dell’Umanità. La motivazione? Ha sollecitato le coscienze sui temi “dell’ingiustizia, della resistenza e dell’amore”. Dagli emarginati dei Tropici a una consapevolezza globale. Il riconoscimento dell’Unesco è qualcosa di più di una simbolica onorificenza: è, tra l’altro, la conferma che nel ritmo sensuale del reggae vi sia una “missione” politico-spirituale, ispirato com’è al “rastafarianesimo”, la religione che vedeva in Hailé Selassie, imperatore d’Etiopia, l’incarnazione del Messia. Grazie a Marley, ma anche a Peter Tosh o Jimmy Cliff e alla divulgazione di Eric Clapton, il reggae è uscito per sempre dal pittoresco recinto in cui i detrattori vedevano solo dreadlock, marijuana ed esotico sballo.
E il rock? Due anni fa a tentare l’Unesco (interpellando Franceschini) fu il governatore della Lombardia Maroni, musicista a tempo perso. All’Onu non registrarono segnali: un altro fiasco istituzionale italiano. Bisognerà alzare di nuovo il volume. In nome di Elvis.