venerdì 30 novembre 2018

La Stampa 30.11.18
La sfida per l’Unesco è dichiarare Israele patrimonio dell’umanita’
di Christian Rocca


Il reggae è patrimonio dell’umanità, secondo l’insindacabile giudizio dell’Unesco, l’Organizzazione culturale e scientifica delle Nazioni Unite che per l’occasione si è riunita nell’isola di Mauritius per una settimana (sul sito trovate anche un elenco dei resort consigliati). Il mondo se ne rallegra, del resto chi non ha cantato nella sua vita No Woman No Cry o ballato su Jammin’ (per etichetta, qui non si fa nessun cenno a sostanze psicotrope). Già meno entusiasmo suscitano le ultimissime tradizioni culturali che, sempre secondo l’Unesco, necessitano di una salvaguardia urgente da parte della comunità internazionale, tipo la lotta georgiana, la danza matrimoniale della Giordania, un paio di riti del Kazakistan e del Giappone, e poi l’hurling, una specie di hockey celtico (l’Italia, all’asciutto a questo giro, è già tutelata sull’arte della pizza napoletana, sul canto a tenore sardo, sulla dieta mediterranea, sui muretti a secco, sui maestri liutai di Cremona, sulla coltivazione della vite a Pantelleria e sull’opera dei pupi: no, non è il nuovo organigramma del governo).
Il summit di Mauritius pone alcune questioni, anche sovraniste volendo: per esempio perché il reagge sì e la taranta no? E il liscio romagnolo o gli stornelli romani? Perché l’Onu non tutela la grande tradizione della canzone napoletana, compreso lo spin off neomelodico? Forse è solo questione di tempo, magari arriverà anche il tempo della salvaguardia del trap, degli youtuber e probabilmente un giorno celebreremo l’arte di Fedez e dei fashion blogger, #IntangibleHeritage è un hashtag favoloso, quali primari patrimoni immateriali del mondo intero.
La seconda considerazione è più seria. L’Unesco è una delle più screditate agenzie delle Nazioni Unite, negli Anni Ottanta è stata al centro di incredibili e grotteschi scandali per spreco di denaro, corruzione, nepotismo e inefficienza. Nel 1984, gli Stati Uniti ne sono usciti, col presidente Reagan, dopo una serie di scontri con il padre-padrone dell’Organizzazione, il senegalese Amadou-Mahtar M’Bow, il quale d’accordo con le dittature di mezzo mondo aveva approvato il New World Information and Communication Order secondo cui la stampa capitalista e occidentale tendeva a distorcere le notizie provenienti dai Paesi Non Allineati, quasi tutte dittature, falsificando i dati oppure non raccontando degli straordinari successi che questi paesi avevano raggiunto. Una cosa ridicola, specie se si considera che nessuno di quei Paesi aveva una stampa libera. Nel 2003, è stato George W. Bush a far rientrare gli Stati Uniti nell’organizzazione, mentre nel 2011 Barack Obama non è riuscito a fermare l’automatismo, previsto da una legge americana, secondo cui gli Stati Uniti non possono finanziare agenzie Onu che riconoscono la Palestina come membro pieno.
L’Unesco ha una solida tradizione di iniziative anti-occidentali e soprattutto anti israeliane, grazie anche al fatto che non è soggetta al potere di veto dei Paesi permanenti del Consiglio di Sicurezza. Gli ultimi sono di due anni fa e dell’anno scorso: quando, tra la tutela di un muretto a secco e la vigilanza sulla pizza Margherita, ha negato i legami con la tradizione ebraica del Muro del Pianto e del Tempio del Monte a Gerusalemme, e poi anche della tomba dei patriarchi a Hebron, luoghi sacri per la religione ebraica ma che per l’Unesco lo sono soltanto per l’Islam. L’America, questa volta con Donald Trump, è uscita dall’Agenzia e anche il precedente governo italiano, dopo un iniziale tentennamento, si è opposto alle risoluzioni antisemite. Ora l’Unesco ha una nuova presidente, l’ex ministro francese Audrey Azoulay, che sta provando a restituire credibilità. Il reggae va certamente nella direzione giusta, ma forse non guasterebbe dichiarare una volta per tutte che anche Israele è un patrimonio dell’umanità.