giovedì 29 novembre 2018

Repubblica 29.11.18
Il fallimento della diplomazia
La grande ipocrisia di Stato che nasconde la verità su Giulio
Le visite di Salvini e Di Maio, il sostegno a Conte sulla Libia hanno convinto il regime a ignorare le richieste dei pm
di Carlo Bonini


ROMA La finzione è dunque caduta. E la decisione della Procura di Roma di procedere unilateralmente alle prime iscrizioni nel registro degli indagati per sequestro di persona di ufficiali dell’Intelligence egiziana, nel restituire l’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni alle regole del nostro processo penale, non segna affatto una svolta nell’accertamento della verità ma, piuttosto, mette a nudo la catastrofe della nostra diplomazia e della sua ipocrisia.
Fa giustizia di una cooperazione giudiziaria che, dal dicembre del 2017, al netto dei salamelecchi dei comunicati ufficiali «congiunti» , non si è mossa di un centimetro, fotografandola per quel che è diventata. Un simulacro, al riparo del quale, il governo dei triumviri Giuseppe Conte, Matteo Salvini, Luigi Di Maio e lo stesso presidente della Camera Roberto Fico, hanno di fatto firmato la nostra resa al Cairo.
È una verità che è possibile apprezzare se solo si sovrappongono il canovaccio della nostra interlocuzione con Al Sisi negli ultimi sei mesi e lo stallo della cooperazione giudiziaria. Un teatro avvilente.
Che apre le sue quinte nel luglio scorso. La famiglia Regeni viene ricevuta a Montecitorio, dove incontra il premier Giuseppe Conte, il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, il Presidente della Camera Roberto Fico. Paola e Claudio, i genitori di Giulio, vengono rassicurati sulla circostanza che il cambio di maggioranza politica nel Paese non segnerà alcun cambio di rotta nel complicatissimo rapporto con il Regime egiziano. Che Roma ha una dignità cui non abdicherà.
È una penosa bugia. O, comunque, presto si rivela tale. Il rapporto di forza tra Al Sisi e Roma, che già si era capovolto a vantaggio del primo nell’estate del 2017, quando, a Ferragosto, era stato deciso dal governo Gentiloni il rientro del nostro ambasciatore al Cairo, è infatti ancora più sbilanciato. La Farnesina ha bisogno come l’aria di Al Sisi per riguadagnare una qualche centralità nella partita che si gioca sugli assetti della Libia e per accedere a uno dei suoi protagonisti chiave. Quel generale Haftar che di Al Sisi è la longa manus nella Cirenaica.
Matteo Salvini ha bisogno come l’aria di un gendarme affidabile che metta in sicurezza (minaccia terroristica e migranti) la nostra frontiera nel Mediterraneo. E dunque non è un caso che, pochi giorni dopo quel colloquio con i Regeni, Salvini arrivi al Cairo per «negoziare» con Al Sisi un pacchetto di impegni che tenga insieme terrorismo, migranti e «la verità sull’omicidio di Giulio». Per giunta, alla presenza del ministro dell’Interno egiziano. Quel Majdi Abdel Ghaffar che del sequestro, tortura e omicidio di Giulio conosce e manipola la verità dal febbraio del 2016.
Del resto, nell’estate della nostra diplomazia prêt-à-porter, a Salvini, a fine agosto, segue Luigi Di Maio. Anche lui al Cairo.
Anche lui a colloquio con Al Sisi.
Un’apparizione che serve a guadagnare un titolo in cronaca: «Di Maio: "Al Sisi ha detto che Regeni è uno di loro. E la svolta arriverà entro l’anno"» .
Nell’enfasi di Di Maio — «svolta» è parola sconosciuta a chi soltanto abbia una nozione elementare della diplomazia in Medioriente — c’è tutto il dilettantismo di un Paese che si è appena definitivamente consegnato al regime egiziano. E la prova è nella cosiddetta cooperazione giudiziaria. Ibernata dal dicembre del 2017 in ragione del doppio appuntamento politico cui erano attesi i due Paesi in marzo (elezioni in Egitto e in Italia), in quell’estate viene aggiornata dal regime a "data da destinarsi". E salta, senza che il Cairo ne dia alcuna spiegazione, l’incontro previsto tra i magistrati dei due Paesi per tirare una linea rispetto alle responsabilità dell’Intelligence egiziana (così come documentata nel dicembre 2017 da Ros dei Carabinieri e Sco della Polizia).
L’autunno non inizia meglio. In settembre, al Cairo, si presenta alla porta di Al Sisi il presidente della Camera Roberto Fico. Dal colloquio, il presidente della Camera, esce con parole che, nella certezza dell’indicativo, accreditano una sorta di ultimatum che tuttavia suona eccentrico nella sua distanza dal canovaccio del Governo. «Ho tenuto molto a dire al presidente egiziano — spiega Fico — che su Regeni non arretreremo mai.
Senza la verità i rapporti tra Egitto e Italia resteranno tesi» .
Sarà. È un fatto che mentre Fico, in solitudine, fa la voce grossa, il nostro ministro degli Esteri Moavero lavori ventre a terra per portare alla Conferenza sulla Libia, prevista a Palermo in novembre, proprio Al Sisi e Haftar. È un fatto che il Regime si accanisca su Amal Fathy, donna strumentalmente detenuta perché moglie di uno dei consulenti legali dei Regeni al Cairo. È un fatto che a Conferenza di Palermo chiusa, l’incontro rinviato per sei mesi con i magistrati italiani si risolva in un’ennesima beffa. Con buona pace della «svolta» e della «verità» da cui non si vorrebbe recedere.