giovedì 29 novembre 2018

Corriere 29.11.18
Inchiesta I pm al Cairo: collaborazione inadeguata
Regeni, Roma accusa gli 007 egiziani
di Giovanni Bianconi


Le pressioni sul governo di Al Sisi esercitate a più riprese dai governanti italiani per cercare la verità sulla morte di Giulio Regeni non hanno avuto risposte concrete. Così, ieri, dopo l’ennesimo nulla di fatto a seguito dell’incontro al Cairo tra la delegazione dei pm di Roma e il Procuratore generale d’Egitto, gli inquirenti italiani hanno fatto sapere che iscriveranno nel registro degli indagati gli 007 egiziani scoperti dai carabinieri del Ros e dallo Sco della polizia e sospettati di avere avuto un ruolo nel sequestro e nei successivi depistaggi.
ROMA Ufficialmente, il decimo summit tra inquirenti italiani e egiziani impegnati nell’inchiesta sul rapimento e l’omicidio di Giulio Regeni è servito a «riaffermare la determinazione a proseguire le indagini e incontrarsi nuovamente nel quadro della cooperazione giudiziaria, sino a quando non si arriverà a risultati definitivi nell’individuazione dei colpevoli». Come da rituale comunicato congiunto. Tuttavia la decisione della Procura della Repubblica di Roma di iscrivere sul registro degli indagati i nomi di alcuni ufficiali della polizia e dei servizi segreti locali per il reato di sequestro di persona, comunicata dal pubblico ministero Sergio Colaiocco ai colleghi del Cairo, sancisce l’insoddisfazione per i risultati raggiunti finora dalla magistratura egiziana. E il fallimento della via diplomatica all’accertamento della verità sulla morte del ricercatore friulano, scomparso il 25 gennaio 2016 e ritrovato cadavere una settimana più tardi.
Tutti i tentativi della politica italiana ai suoi più alti livelli di convincere il presidente egiziano Al Sisi a imprimere una svolta alle indagini — le ultime rassicurazioni fornite al premier Conte risalgono al 13 novembre scorso — si sono rivelati inutili. Gli ultimi elementi di novità sono datati agosto 2017, dopo i quali il governo di Roma decise di rispedire al Cairo l’ambasciatore ritirato l’anno precedente. Da allora non è cambiato niente, e la riprova s’è avuta l’altro ieri. All’ordine del giorno dell’incontro tra magistrati al Cairo c’era la risposta al quesito posto dalla Procura di Roma sui «buchi» rilevati a maggio nei nastri delle telecamere della stazione della metropolitana in cui Regeni entrò la sera in cui è sparito. Proprio negli orari d’interesse. Era un accertamento richiesto a maggio, ma gli egiziani l’hanno trasmesso ai tecnici della società russa incaricata solo il 23 novembre, una settimana fa. E la risposta dice, in estrema sintesi, che sono cose che capitano.
Troppo poco per non provocare uno strappo che il procuratore Giuseppe Pignatone ha giudicato inevitabile. Nel 2017 lui e il sostituto Colaiocco avevano affidato ai poliziotti del Servizio centrale operativo e ai carabinieri del Ros l’analisi dei tabulati telefonici e delle testimonianze ricevute dall’Egitto, attraverso la sovrapposizione dei movimenti di alcuni funzionari della Sicurezza egiziana con quelli di Regeni. Ne è scaturita un’informativa in cui si evidenzia il forte sospetto che il ricercatore sia stato sorvegliato e seguito da almeno cinque uomini della National Security (individuati con nome e cognome: il maggiore Magdi Abdlaal Sharig, il capitano Osan Helmy e altri tre), fino al 22 gennaio. E che avrebbero ricominciato il 25, data della scomparsa.
L’informativa degli investigatori italiani è stata consegnata agli egiziani, perché prendessero atto dei risultati e procedessero a ulteriori indagini. Fino all’eventuale incriminazione dei sospettati. Ma dopo un anno non è cambiato nulla, e nella riunione di due giorni fa i magistrati locali hanno ribadito che gli elementi raccolti non sono sufficienti per celebrare un processo. Affermazione plausibile, ma non sufficiente a giustificare il sostanziale immobilismo degli ultimi dodici mesi. Di qui la decisione dei pm romani di inquisire autonomamente quei cinque nomi secondo le regole del codice italiano, per provare a svolgere ulteriori verifiche che certo da qui non sono agevoli. Ma non c’è alternativa.
Il ruolo della Procura di Roma, in questa vicenda, è sempre stato di stimolo e super-visione su un’indagine condotta necessariamente dalle autorità egiziane; sia perché ne sono titolari in prima battuta, sia perché solo loro hanno gli strumenti tecnici e giuridici per agire nel proprio Paese. Oggi si può dire che quel controllo ha portato a un giudizio di insufficienza, quanto meno nella determinazione a raggiungere il risultato di accertare come si sono svolti i fatti. E la riposta giudiziaria assume inevitabilmente anche una valenza politica.
Dai giorni del sequestro, delle torture e dell’omicidio di Giulio Regeni in Italia si sono susseguiti tre governi, guidati da Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e Giuseppe Conte. Tutti — come pure altri rappresentanti istituzionali, da ultimo il presidente della Camera Roberto Fico — hanno sempre affermato di aver chiesto e ottenuto garanzie sull’impegno dell’Egitto a scoprire la verità. Promesse vane, secondo ciò che ha potuto certificare la magistratura. In attesa che la parola torni alla politica e alla diplomazia.