Repubblica 27.11.18
La testimonianza
Il legame tra due grandi autori
"Bernardo e io, amici rivali divisi da politica e psicanalisi"
Il
ricordo di Marco Bellocchio: "Io descrivevo l’Italia, lui aveva uno
sguardo internazionale. Quando mi sorpassò provai una grande indivia"
intervista di Arianna Finos
Marco
Bellocchio per ricordare l’amico e rivale scomparso si appoggia a
Pasolini: «Bertolucci è il cinema di poesia, Bellocchio di prosa». Disse
quella frase al Centro di cultura sovietica di Roma: «Come ogni
definizione di Pier Paolo, è diventata un conio».
Il 79enne
regista piacentino è la migliore voce per restituirci un pezzo di storia
d’Italia vissuta con il maestro del nostro cinema.
Da giovani eravate rivali.
«Da molto tempo c’era un rapporto di grande affetto e stima reciproca.
Ma
senza la confidenza della grande amicizia. L’ultima volta ci siamo
visti a una cena per Novecento restaurato. Mi raccontava che avrebbe
voluto anche attori russi nel cast, ma l’Unione Sovietica si era
opposta. Mi era venuto in mente che mentre lui girava quella grande
produzione piena di divi, alloggiando al Maria Luigia di Parma, io ero
in un alberghetto sulle tracce dei Matti da slegare, per dire come le
due nostre due immagini fossero contrapposte».
Lui di Parma, lei di Piacenza.
«Sì. Io venivo dalla provincia più profonda, anche se aristocratica, penso ai Quaderni piacentini...
Lui in Partner mise la battuta "di Piacenza l’Italia ne fa senza".
C’era
rivalità, i piacentini avevano un certo tipo di moralismo, per certi
versi pasoliniano, mentre lui viveva al centro della società
cinematografica-letteraria romana.
In questo senso gli stili erano
diversi. Lo ricordo al mio saggio di diploma al Centro sperimentale, si
complimentò. Era di un’eleganza inglese e guidava una Triumph rossa
decapottabile. Dopo pochi anni, da primo sono diventato secondo.
Bernardo mi ha appaiato ed è diventato irraggiungibile, ha preso un volo
internazionale. Solo in quel sorpasso ho provato una forte invidia. Che
è negazione ma anche riconoscimento del valore dell’altro».
Che Italia avete raccontato nei vostri film?
«Bernardo
aveva con il Pci un rapporto dialettico e da simpatizzante, io ero su
posizioni più anarchiche, per un periodo maoiste. Lui il ’68 lo ha
visto, ma dagli spalti, lo ricordo a una manifestazione osservare
dall’alto al Palazzetto dello sport al Flaminio. Lui ha guardato quella
realtà, poi ha seguito — e ha fatto bene — la sua strada, mentre io mi
sono impelagato e in parte annullato nella politica finché ne sono
uscito nei Settanta. L’Italia che lui rappresentava è sofisticata,
elaborata stilisticamente, anche nel senso di un certo godardismo, che
era il suo manifesto e che poi però ha tradito. Prima della rivoluzione
racconta la crisi del Pci, la bellezza della vita prima della
rivoluzione, ma finisce alla Festa dell’Unità in modo tutt’altro che
irriguardoso.
Da questo punto di vista c’erano due atteggiamenti
diversi verso l’Italia: la sua visione poetica, la mia prosaica. Fofi
chiamò il mio La Cina è vicina "le mura di Imola". Io raccontavo il
perimetro intorno a me, lui andava oltre. Già nella Strategia del ragno,
elaborando in modo emiliano un testo internazionale. Poi con Il
conformista è uscito dai confini, il successo internazionale di Ultimo
tango subì quel gesto violento e pagliaccesco della censura. E con
Novecento
il ritorno in un’Italia, ma da grande romanzo americano, lontana dalla
povertà dell’Albero degli zoccoli. Il suo era lo sguardo del grande
artista che cerca la verità nel mondo. In viaggio con Il tè nel deserto,
la geniale intuizione dell’Ultimo imperatore: Anch’io ai tempi pensai a
un film su quel tema, lui riuscì a costruirlo. Io restavo in Italia e
raccontava la violenza nella famiglia e nell’educazione cattolica, un
altro tipo di ferocia, ecco.
Se devo pensare ai suoi racconti
d’Italia più che a Novecento penso a Prima della rivoluzione, per lo
stile originale, ispirato, letterario, che parlava di una borghesia in
cui lui si riconosceva».
E Bertolucci cosa amava del cinema di Bellocchio?
«Era sempre controcorrente. Mi scrisse un biglietto: gli era piaciuto
Il sogno della farfalla, che per tutti era l’epitaffio del mio cinema.
Lui invece lo aveva apprezzato.
Ci
divideva perfino la psicanalisi, lui freudiano e superortodosso, io
fagioliano. Eppure mi scrisse quel biglietto che conservo ancora».