Il Fatto 27.11.18
La Resistenza è rinviata a data da destinarsi
Doppio flop di Repubblica. Senza risposte l’appello di Zagrebelsky e posti vuoti al Brancaccio
di Fabrizio D’Esposito
Un
tempo giornale-partito che dettava la linea alla sinistra e poi al
centrosinistra. Oggi giornale-propaganda come tanti altri. La differenza
è visibile a occhio nudo. Come i tanti spazi vuoti l’altra mattina, di
domenica, al teatro Brancaccio di Roma, dove ci si batteva per la
libertà di stampa nell’anno I di questo cupissimo regime gialloverde, un
filino peggio di quello berlusconiano.
Parliamo, ovviamente,
della gloriosa Repubblica di Mario Calabresi che in questo fine
settimana ha tastato il polso alla politica e alla società civile sul
grave rischio fascismo in Italia. E la crisi del fu giornale-partito si è
palesata tra silenzi notevoli e scarsa partecipazione democratica.
Eppure per mobilitare le masse anti-populiste, sabato scorso il
quotidiano fondato da Eugenio Scalfari ha festeggiato il ritorno tra gli
illuminati del costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, motore del No al
referendum renziano e sin da allora sospettato di collaborazionismo
filogrillino.
Zagrebelsky è tornato con un vigoroso appello alla
resistenza e alla disobbedienza civile, senza però specificare contro
chi (in realtà volava alto e citava Popper, contro le società chiuse
sognate da tanti politici italiani di oggi e di ieri). L’unico nemico
citato è il “tribalismo”. L’appello però è stato subito respinto da
alcuni potenziali nuovi partigiani del fronte anti-populista: Matteo
Renzi e Maria Elena Boschi e finanche un tranchant Giuliano Ferrara ieri
sul Foglio (“stupidità sostanziale” ornata con “preziosità
accademica”). Non solo. A far cadere nell’abisso delle cose perdute il
vigoroso appello è stata l’indifferenza del Pd, partito ombelicale
concentrato ormai solo su primarie, correnti, candidati e i consueti
tatticismi di palazzo.
E il mancato scuotimento adrenalinico del
Pd conduce al flop di domenica mattina al Brancaccio, dove nemmeno la
pletora di direttori ed ex direttori del gruppo debenedettiano è
riuscita a richiamare la folla delle grandi occasioni, per un nuovo
girotondo, stavolta contro il regime gialloverde. La crisi del
giornale-partito è infatti la crisi nera che continua ad attraversare il
Pd, sempre più avvitato in una logica perversa di ceto politico.
Sin
dalla catastrofe elettorale del 4 marzo scorso, Repubblica ha provato a
guidare il processo di rinnovamento (non andando oltre, però, la
riesumazione di Prodi e di Veltroni) per riguadagnare l’autorevolezza e
il prestigio degli anni Novanta ma il vuoto di consensi non si è affatto
fermato.
Il doppio flop Zagrebelsky-Brancaccio poggia però anche
su due altre gambe evidenti. Innanzitutto la rimozione del renzismo,
errore questo in cui è caduto persino Massimo Giannini, volto
“repubblicano” tra i pochi, da quelle parti, a criticare il Rottamatore
quando era premier e per questo epurato dalla Rai. Del resto la crisi di
Repubblica deve molto al fiancheggiamento acritico del renzismo.
Questa
rimozione è simmetrica al pregiudizio contro i Cinquestelle, ignorando
che buona parte dei girotondi e dell’élite antiberlusconiana dell’ultimo
ventennio ha scelto, da sinistra, il radicalismo dell’onestà grillina.
Ecco
perché in questo weekend non c’è stata alcuna ribellione di massa. E
l’annunciata Apocalisse finanziaria ancora latita, nonostante la
massiccia propaganda di Repubblica. L’ultima topica l’ha raccontata ieri
Dagospia: in Rete è stato chiesto a Federico Rampini, firma-guru del
quotidiano, dove avesse preso una frase attribuita a Merkel. Questa:
“Dobbiamo trattare l’Italia come la Polonia”. A smentirlo la collega di
Repubblica da Berlino, Tonia Mastrobuoni: “Non l’ha mai detto”.