sabato 24 novembre 2018

Repubblica 24.11.18
Il personaggio
“È Machiavelli l’unico antidoto ai Gattopardi”
Carlo Ginzburg ha scritto un saggio sul padre della teoria politica che ne esalta lo spirito rivoluzionario. “Il principe di Salina vuole cambiare tutto affinché nulla cambi, lui il contrario: conservare qualcosa per cambiare tutto”
Intervista di Antonio Gnoli


Ogni eccezione implica la norma.
Questo è ovvio.
Come pure che ogni norma che si rispetti ha la sua eccezione. Meno ovvio che tra i primi a occuparsene sia stato Machiavelli, con l’uso reiterato dell’avverbio “nondimanco”. Che è pure il titolo del nuovo libro di Carlo Ginzburg, una racconta di saggi (edita da Adelphi) dove centrale risulta essere la relazione tra Machiavelli e Pascal. Che cosa consente di pensarli insieme? La risposta, dice Ginzburg, è la teologia politica. Il che rinvia il lettore che sa di queste cose a Carl Schmitt. Il salto sembra enorme. «Nel mio libro Schmitt compare solo per spiegare l’accostamento tra Machiavelli e Pascal. Dimostro che Schmitt si è ispirato, senza mai nominarlo, a Pascal che ha letto Il Principe ».
Perché non lo nomina?
«Schmitt non citava quasi mai le fonti che utilizzava. La cosa qui notevole è che egli utilizzi un frammento dai Pensieri di Pascal per giustificare lo stato d’eccezione, il quale ha per il diritto un significato analogo al miracolo nella teologia».
Di qui il nesso tra teologia e politica?
«Indubbiamente, anche se chi non condivide questa prospettiva, che per Schmitt era strettamente legata al suo antisemitismo di matrice cattolica, dovrebbe a mio parere adoperare una diversa categoria analitica».
Quale?
«Anziché di teologia politica preferisco parlare di “secolarizzazione”, la quale è un processo tutt’altro che concluso e di esito non scontato, attraverso cui lo Stato si impadronisce delle armi della religione. In questa traiettoria, che ha radici molto antiche, Machiavelli ha avuto un’importanza decisiva. Ma in essa, come ho cercato di dimostrare, rientra anche il Pascal lettore di Machiavelli».
A proposito di lettori, la storia della ricezione di Machiavelli è stata un’alternanza di anatemi e di riabilitazioni. Perché uno scrittore come lui ha suscitato sentimenti così estremi?
«Machiavelli, come è noto, formulò senza mezzi termini affermazioni sommamente sgradevoli, suscitando reazioni polemiche che, in qualche caso, mascheravano un’adesione di fondo. È stato detto, giustamente, che Machiavelli non va identificato con gli stereotipi (ostili e non) associati al suo nome.
Ma in Nondimanco ho sostenuto, sulla base di analisi testuali precise, che la ricezione di Machiavelli può in certi casi aiutare a capire la sua opera: un punto che mi pare tutt’altro che scontato».
“Nondimanco”, si è detto, è l’avverbio con cui Machiavelli in qualche modo tiene insieme l’eccezione con la regola. Sullo sfondo c’è il problema della realtà morale e della realtà effettuale. Machiavelli non è il primo a entrare in questa logica argomentativa. Già la casistica medievale si era posta il problema.
«La casistica – cioè l’analisi delle circostanze, ossia dei casi, in cui la norma (teologica, morale, giuridica) può non essere applicata, ha una storia lunghissima e complessa.
Pascal nelle Provinciali screditò la casistica in maniera apparentemente definitiva. Salvo vederla risorgere inaspettatamente negli ultimi decenni nel contesto della bioetica».
In che modo?
«Per semplificare, direi che il ricorso a tecnologie costosissime messe a disposizione della medicina può implicare una scelta: e quindi una discussione preliminare sulle condizioni di salute dei pazienti oggetto di terapia, le loro abitudini (e quindi la possibilità di una ricaduta) eccetera. Come vede le argomentazioni grottesche della casistica, messe in ridicolo da Pascal in pagine indimenticabili, riemergono in un contesto doloroso».
Si è visto in Machiavelli uno dei padri del “realismo politico”.
Come va presa questa espressione?
«È un tema su cui sono state scritte intere biblioteche. Quando Machiavelli ragiona di politica dice che la realtà è quella che è, non quella che vorremmo che fosse.
Questo atteggiamento non esclude il giudizio morale: Machiavelli non era un cinico. Ma per lui il giudizio morale andava inserito, e questo per noi non è ovvio, nel rapporto tra norma e eccezione».
A quando risale il suo primo contatto con il suo pensiero?
«A un seminario che Arsenio Frugoni tenne nel 1957-58. Ne serbo ancora un bellissimo ricordo.
Leggemmo insieme Il Principe: degli studi su Machiavelli Frugoni parlò poco, anche se li aveva ben presenti. Ma della sua straordinaria originalità di studioso mi resi conto solo qualche anno dopo, quando lessi il suo lavoro su Arnaldo da Brescia nelle fonti del XII secolo».
Un’altra figura che balza fuori da questo suo testo su Machiavelli è un po’ sorprendente, mi riferisco a Francesco Orlando. Che tipo di studioso è stato?
«A chi non conosce Francesco Orlando segnalerei per cominciare tre libri: Lettura freudiana della Phèdre; Per una teoria freudiana della letteratura; infine Ricordo di Lampedusa. Orlando era uno studioso fortemente originale che amava il rischio. La sua lettura di Freud, a metà degli anni ’60, andava decisamente controcorrente.
Eravamo molto diversi, cosa che Orlando sottolineava spesso; siamo stati molto amici. Posso aggiungere che mi manca molto».
Orlando fu anche un acuto lettore de “Il Gattopardo”. Sul romanzo di Tomasi di Lampedusa lei torna nella parte finale del suo libro. Cosa c’entra con Machiavelli?
« Il Gattopardo indubbiamente è un bel libro, anche se non farebbe parte della mia biblioteca ideale.
Qualche anno fa mi sono reso conto che dietro la famosa frase “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” c’era, rovesciata, un’argomentazione avanzata da Machiavelli nei Discorsi: se vogliamo che tutto cambi, bisogna che qualcosa rimanga com’è. Il fine è opposto: rivoluzione nel caso di Machiavelli, conservazione (pronta a un cambiamento spregiudicato) nel caso de Il Gattopardo. In quest’ultimo il richiamo a Machiavelli è implicito; esplicito, invece, quello a Pascal».
A proposito di implicito, un maestro in tal senso fu Leo Strauss con la sua ermeneutica reticente. Si può leggere Machiavelli tra le righe?
«L’ermeneutica (non reticente) della reticenza che Leo Strauss propose nel saggio su Scrittura e persecuzione costituisce un contributo decisivo alla ricerca storica. Decisivo, anche se può essere stato usato a sproposito, magari dallo stesso Strauss, oppure dai suoi allievi. Ma di quelle considerazioni non si può fare a meno».
Si potrebbe considerare implicita perfino la giovinezza di Machiavelli, di cui sappiamo pochissimo. Come se una fitta nebbia avvolgesse quel primo periodo della vita. Non trova curioso che un autore celebre ovunque non abbia per noi un inizio?
«Questo silenzio non è strano: quella di Machiavelli fu una giovinezza priva di eventi. È l’originalità della sua opera che sollecita, nei lettori di oggi, domande sulla sua formazione.
Curiosamente non era stato utilizzato il Libro di ricordi redatto da suo padre Bernardo per capire quali testi Niccolò si era trovato in casa e come eventualmente li aveva letti».
Lei ne suggerisce alcuni.
«Ho cercato di lavorare in questa direzione a partire dalle Quaestiones mercuriales di Giovanni d’Andrea, un’opera a mio parere importantissima per la formazione di Machiavelli. Posso aggiungere che il mio interesse per il modo in cui la lettura di determinati libri può contribuire alla formazione di un universo mentale è nato dall’incontro con un lettore di tutt’altro genere: il mugnaio friulano Domenico Scandella, detto Menocchio, protagonista de Il formaggio e i vermi ».