Repubblica 24.11.18
La Costituzione e il fantasma del fascismo
Basta con il silenzio è venuto il tempo della resistenza civile
A chi esalta la forza si opponga la mitezza, alla violenza la solidarietà, fino alla disobbedienza che può essere una virtù
di Gustavo Zagrebelsky
Un dato culturale assai significativo è che si discute oggi sempre meno di Costituzione e sempre più di fascismo. È uno spostamento dell’attenzione da una forma giuridica (la Costituzione) a una sostanza politica (un regime).
«Forza normativa del fatto», dicono i giuristi quando il «fatto compiuto», o che si sta compiendo, scalza il diritto o lo predispone alla resa.
Questo spostamento spiega il silenzio di tanti giuristi, fino a qualche tempo fa alquanto loquaci (tra i quali io stesso).
Cambia l’oggetto e cambiano gli interlocutori: occupano la scena i politologi, gli storici, i sociologi, i giornalisti, i politici, la gente comune. Tutti, insomma, meno che i costituzionalisti. Sembra che il loro oggetto stia evaporando. La loro voce, se è critica, si perde come un fruscio fastidioso nel rumore dominante. Per lo più, non merita neppure una risposta.
Restano per ora i “custodi”, il presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Essi sono organi della Costituzione, ma fino a quando e fino a che punto potranno resistere alla forza materiale che spinge all’omologazione?
Dunque, taceant iurisprudentes in munere alieno e aspettino semmai l’avvento di tempi nuovi, quando forse si richiederà la loro competenza per mettere in forma il fatto compiuto. Che cosa accade quando la forza del fatto insidia la forza della Costituzione?
Consideriamo che qualunque sistema di governo ha uno strato e un substrato.
continua a pagina 4
segue dalla prima pagina
Lo strato è la superficie, il substrato è la sostanza. Lo strato è fragile. Il substrato, invece, è molte cose pesanti: valori e interessi, rapporti di dominanza e sudditanza, interessi e bisogni, speranze e disperazioni, credenze e illusioni, miti e credulità, amicizie e inimicizie, altruismo ed egoismo, legalità e corruzione, sopraffazioni e violenze, cultura e ignoranza: insomma, è per così dire il sangue misto che scorre nelle vene della società, portando con sé forze diverse e contraddittorie. Per definire la costituzione, si può dire ch’essa è una selezione: promuove e condanna quanto nella società c’è di buono e quanto di male, secondo ideali di giustizia storicamente vincenti. Ma il progetto di selezione, per non essere campato per aria, deve essere sostenuto da una società che, almeno prevalentemente, ci si identifica, ci crede. A ogni regime politico deve corrispondere infatti un certo tipo di società; lo strato deve appoggiarsi su un substrato coerente. La costituzione democratica presuppone una società a sua volta democratica. Non esiste democrazia politica se non c’è democrazia sociale. Chi vuole destabilizzare la costituzione democratica, per poi rovesciarla e costruirne una nuova su altre basi, sa bene che deve incominciare dalla società. Si tratta per lui di amplificare il disgusto per le immancabili corruzioni, di diffondere veleni che alimentano paure, invidie, risentimenti, e giustificano così pulsioni autoritarie, sopraffazioni, intolleranze, discriminazioni e violenze.
Facilissimo: questo vaso di Pandora è molto più facile scoperchiarlo che chiuderlo.
Ma ciò che ne esce è fascismo? La controversia odierna su questo punto, per non essere un esercizio propagandistico, deve considerare, innanzitutto, che il fascismo è solo una tra le tante manifestazioni storiche di qualcosa di assai più profondo, costante e radicato nell’animo umano e nelle pulsioni sociali. Questo “ qualcosa” può assumere forme storiche le più varie, pur avendo radici comuni. Noi e l’Europa occidentale ne abbiamo conosciute alcune, non identiche ma fondate su principi similmente antidemocratici: fascismo italiano, nazismo, falangismo spagnolo, estado novo portoghese, ecc., sicché si spiega che ancora oggi per indicare ciò che contrasta con la democrazia si dica: fascismo!
Ma i nemici della democrazia sono proteiformi, non necessariamente fascisti nel significato ch’esso ha assunto storicamente. Si può essere antidemocratici senza essere fascisti. Non tutto ciò che non ci piace è fascismo.
Questo giornale, il 2 luglio 1995, ospitò uno scritto di Umberto Eco che parla di “ fascismo eterno” o di Urfaschismus ( il prefisso ur indica qualcosa di originario, primordiale). I suoi caratteri sono riassunti così: identità aggressiva e purismo etico; rifiuto della modernità e tradizionalismo reazionario; rigetto dei principi dell’ 89 e dei diritti individuali; irrazionalismo e primato dell’azione sulla riflessione e sulla discussione; decisionismo; culto della forza e “ machismo”, anti- parlamentarismo; ostilità nei confronti della libertà di scienza arte e stampa, sospette portatrici di germi critici; esaltazione dell’uomo medio e del senso comune; concezione del popolo come un tutt’uno indifferenziato; corporativismo; intolleranza nei confronti dei “ diversi” e dei “ non integrabili”; xenofobia variamente motivata e razzismo; pensiero unico e unanimismo; fantasmi di complotti; nazionalismo ripiegato su se stesso contro internazionalismo e, a maggior ragione, cosmopolitismo; complesso di unicità e di superiorità, unito a vittimismo che sfocia in aggressività. Il linguaggio, a sua volta, è l’ingrediente comunicativo pieno di sottintesi: parole nuove, parole antiche in significati nuovi; parlar violento e plebeo di cose difficili ed elevate; accarezzare l’ignoranza e la banalità di massa.
Non necessariamente tutti compresenti, questi sono aspetti delle “ società chiuse” o “ società organiche”, di cui il modello primordiale è, propriamente, la tribù.
Sebbene talora si abbia l’impressione di cose relativamente moderne, comparse nel secolo dei totalitarismi, sono invece antichissime. L’archetipo è il tribalismo da sempre riemergente in particolari situazioni storiche, ogni volta con caratteri propri, per esempio con quelli del fascismo. Ciò significa che tutti i fascismi sono tribalisti, ma non tutti i tribalismi sono fascisti. Donde la deduzione: per mettersi il cuore in pace non basta dire che, data l’incontestabile distanza della società odierna da quella del secolo scorso, ciò che bussa alle nostre porte non è fascismo; possono battere, uno dopo l’altro, gli ingredienti del tribalismo; ed è perfino peggio, perché è facile illudersi che ci si fermi lì. Invece, uno dopo l’altro, possono diventare una valanga. A forza di subire adeguandosi, si finisce per diventare qualcosa che non si sarebbe voluto e, all’inizio, nemmeno si sarebbe immaginato.
Resta la domanda: che fare?
Ritorniamo da capo. Si sarà notato che tutti gli elementi del tribalismo stanno anzitutto nel “ substrato” delle azioni e dei convincimenti sociali. Da lì occorre procedere. A chi pretende di parlare a nome degli “ italiani” e della loro “ identità”, si opponga il dissenso; a chi esalta la forza, si oppongano il rispetto e la mitezza; a chi burocratizza la scuola e l’università per trasformarle in avviamento professionale, si oppongano i diritti della cultura; alle illegalità, si reagisca senza timore con la denuncia; alla cultura della discriminazione e della violenza, si contrappongano iniziative di solidarietà. Agli ignoranti che usano la vuota e spesso oscena neo- lingua, si chieda: ma che cosa dici mai, come parli? eccetera, eccetera. Fino al limite della resistenza ai soprusi e della disobbedienza civile che, in casi estremi, come ha insegnato don Milani, sono virtù.
Repubblica 24.11.18
Il personaggio
“È Machiavelli l’unico antidoto ai Gattopardi”
Carlo Ginzburg ha scritto un saggio sul padre della teoria politica che ne esalta lo spirito rivoluzionario. “Il principe di Salina vuole cambiare tutto affinché nulla cambi, lui il contrario: conservare qualcosa per cambiare tutto”
Intervista di Antonio Gnoli
Ogni eccezione implica la norma.
Questo è ovvio.
Come pure che ogni norma che si rispetti ha la sua eccezione. Meno ovvio che tra i primi a occuparsene sia stato Machiavelli, con l’uso reiterato dell’avverbio “nondimanco”. Che è pure il titolo del nuovo libro di Carlo Ginzburg, una racconta di saggi (edita da Adelphi) dove centrale risulta essere la relazione tra Machiavelli e Pascal. Che cosa consente di pensarli insieme? La risposta, dice Ginzburg, è la teologia politica. Il che rinvia il lettore che sa di queste cose a Carl Schmitt. Il salto sembra enorme. «Nel mio libro Schmitt compare solo per spiegare l’accostamento tra Machiavelli e Pascal. Dimostro che Schmitt si è ispirato, senza mai nominarlo, a Pascal che ha letto Il Principe ».
Perché non lo nomina?
«Schmitt non citava quasi mai le fonti che utilizzava. La cosa qui notevole è che egli utilizzi un frammento dai Pensieri di Pascal per giustificare lo stato d’eccezione, il quale ha per il diritto un significato analogo al miracolo nella teologia».
Di qui il nesso tra teologia e politica?
«Indubbiamente, anche se chi non condivide questa prospettiva, che per Schmitt era strettamente legata al suo antisemitismo di matrice cattolica, dovrebbe a mio parere adoperare una diversa categoria analitica».
Quale?
«Anziché di teologia politica preferisco parlare di “secolarizzazione”, la quale è un processo tutt’altro che concluso e di esito non scontato, attraverso cui lo Stato si impadronisce delle armi della religione. In questa traiettoria, che ha radici molto antiche, Machiavelli ha avuto un’importanza decisiva. Ma in essa, come ho cercato di dimostrare, rientra anche il Pascal lettore di Machiavelli».
A proposito di lettori, la storia della ricezione di Machiavelli è stata un’alternanza di anatemi e di riabilitazioni. Perché uno scrittore come lui ha suscitato sentimenti così estremi?
«Machiavelli, come è noto, formulò senza mezzi termini affermazioni sommamente sgradevoli, suscitando reazioni polemiche che, in qualche caso, mascheravano un’adesione di fondo. È stato detto, giustamente, che Machiavelli non va identificato con gli stereotipi (ostili e non) associati al suo nome.
Ma in Nondimanco ho sostenuto, sulla base di analisi testuali precise, che la ricezione di Machiavelli può in certi casi aiutare a capire la sua opera: un punto che mi pare tutt’altro che scontato».
“Nondimanco”, si è detto, è l’avverbio con cui Machiavelli in qualche modo tiene insieme l’eccezione con la regola. Sullo sfondo c’è il problema della realtà morale e della realtà effettuale. Machiavelli non è il primo a entrare in questa logica argomentativa. Già la casistica medievale si era posta il problema.
«La casistica – cioè l’analisi delle circostanze, ossia dei casi, in cui la norma (teologica, morale, giuridica) può non essere applicata, ha una storia lunghissima e complessa.
Pascal nelle Provinciali screditò la casistica in maniera apparentemente definitiva. Salvo vederla risorgere inaspettatamente negli ultimi decenni nel contesto della bioetica».
In che modo?
«Per semplificare, direi che il ricorso a tecnologie costosissime messe a disposizione della medicina può implicare una scelta: e quindi una discussione preliminare sulle condizioni di salute dei pazienti oggetto di terapia, le loro abitudini (e quindi la possibilità di una ricaduta) eccetera. Come vede le argomentazioni grottesche della casistica, messe in ridicolo da Pascal in pagine indimenticabili, riemergono in un contesto doloroso».
Si è visto in Machiavelli uno dei padri del “realismo politico”.
Come va presa questa espressione?
«È un tema su cui sono state scritte intere biblioteche. Quando Machiavelli ragiona di politica dice che la realtà è quella che è, non quella che vorremmo che fosse.
Questo atteggiamento non esclude il giudizio morale: Machiavelli non era un cinico. Ma per lui il giudizio morale andava inserito, e questo per noi non è ovvio, nel rapporto tra norma e eccezione».
A quando risale il suo primo contatto con il suo pensiero?
«A un seminario che Arsenio Frugoni tenne nel 1957-58. Ne serbo ancora un bellissimo ricordo.
Leggemmo insieme Il Principe: degli studi su Machiavelli Frugoni parlò poco, anche se li aveva ben presenti. Ma della sua straordinaria originalità di studioso mi resi conto solo qualche anno dopo, quando lessi il suo lavoro su Arnaldo da Brescia nelle fonti del XII secolo».
Un’altra figura che balza fuori da questo suo testo su Machiavelli è un po’ sorprendente, mi riferisco a Francesco Orlando. Che tipo di studioso è stato?
«A chi non conosce Francesco Orlando segnalerei per cominciare tre libri: Lettura freudiana della Phèdre; Per una teoria freudiana della letteratura; infine Ricordo di Lampedusa. Orlando era uno studioso fortemente originale che amava il rischio. La sua lettura di Freud, a metà degli anni ’60, andava decisamente controcorrente.
Eravamo molto diversi, cosa che Orlando sottolineava spesso; siamo stati molto amici. Posso aggiungere che mi manca molto».
Orlando fu anche un acuto lettore de “Il Gattopardo”. Sul romanzo di Tomasi di Lampedusa lei torna nella parte finale del suo libro. Cosa c’entra con Machiavelli?
« Il Gattopardo indubbiamente è un bel libro, anche se non farebbe parte della mia biblioteca ideale.
Qualche anno fa mi sono reso conto che dietro la famosa frase “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” c’era, rovesciata, un’argomentazione avanzata da Machiavelli nei Discorsi: se vogliamo che tutto cambi, bisogna che qualcosa rimanga com’è. Il fine è opposto: rivoluzione nel caso di Machiavelli, conservazione (pronta a un cambiamento spregiudicato) nel caso de Il Gattopardo. In quest’ultimo il richiamo a Machiavelli è implicito; esplicito, invece, quello a Pascal».
A proposito di implicito, un maestro in tal senso fu Leo Strauss con la sua ermeneutica reticente. Si può leggere Machiavelli tra le righe?
«L’ermeneutica (non reticente) della reticenza che Leo Strauss propose nel saggio su Scrittura e persecuzione costituisce un contributo decisivo alla ricerca storica. Decisivo, anche se può essere stato usato a sproposito, magari dallo stesso Strauss, oppure dai suoi allievi. Ma di quelle considerazioni non si può fare a meno».
Si potrebbe considerare implicita perfino la giovinezza di Machiavelli, di cui sappiamo pochissimo. Come se una fitta nebbia avvolgesse quel primo periodo della vita. Non trova curioso che un autore celebre ovunque non abbia per noi un inizio?
«Questo silenzio non è strano: quella di Machiavelli fu una giovinezza priva di eventi. È l’originalità della sua opera che sollecita, nei lettori di oggi, domande sulla sua formazione.
Curiosamente non era stato utilizzato il Libro di ricordi redatto da suo padre Bernardo per capire quali testi Niccolò si era trovato in casa e come eventualmente li aveva letti».
Lei ne suggerisce alcuni.
«Ho cercato di lavorare in questa direzione a partire dalle Quaestiones mercuriales di Giovanni d’Andrea, un’opera a mio parere importantissima per la formazione di Machiavelli. Posso aggiungere che il mio interesse per il modo in cui la lettura di determinati libri può contribuire alla formazione di un universo mentale è nato dall’incontro con un lettore di tutt’altro genere: il mugnaio friulano Domenico Scandella, detto Menocchio, protagonista de Il formaggio e i vermi ».
La Stampa 24.11.18
Un adolescente su cinque ammette violenze sulle fidanzate
di Flavia Amabile
C’è tanta violenza nei rapporti di coppia anche durante l’adolescenza. E troppe ragazze alla fine tendono a perdonare. La violenza sulle donne all’epoca dei primi amori non è molto più gentile o romantica di quella degli adulti. Forse a quell’età si potrebbe essere ancora in tempo per intervenire e modificare alcune manifestazioni di possesso o dei sentimenti di amore malato ma secondo i dati raccolti dal portale Skuola.net su un campione di 11 mila studenti più della metà (il 52%) non ha mai parlato di violenza sulle donne in classe e il 55% non ha mai avuto una lezione di educazione sentimentale.
Dalla ricerca emerge che il 20% dei ragazzi ha alzato almeno una volta le mani su una ragazza durante una lite. Una cifra identica a quella dello scorso anno, a conferma del fatto che esiste un tasso di violenza difficile da sradicare senza un’azione culturale. Il 20 per cento si ottiene sommando il 7% che ha picchiato più volte la ragazza, il 4% ogni tanto e il 9% una volta. Una delle principali cause scatenanti della violenza sulle donne nel mondo degli adulti è l’incapacità di accettare un rifiuto. Anche nel mondo degli adolescenti la difficoltà è la stessa. Il 17% dei ragazzi non si è fatto fermare da un no della ragazza quando ha provato a darle un bacio o «ad avere di più». Un’altra causa delle violenze fra i grandi è la gelosia. Fra i ragazzi solo il 34% sostiene di non essere affatto geloso e il 44% accetta di non chiedere nulla per placare la sua gelosia perché la ragazza «è libera». Quindi il 56% non la considera libera. Quando un ragazzo viene lasciato solo il 48% va avanti «senza rancore». Il 10%, invece, gliela fa pagare e il 42% prova a «farle cambiare idea». Fargliela pagare vuol dire picchiarla (18%) oppure danneggiare qualcosa di suo (29%).
Di fronte alle violenze il 32% delle ragazze si dice disposta a perdonare e il 75% accetta le continue scenate di gelosia. È anche vero che l’82% delle ragazze ammettono di essere gelose, che per placare la gelosia solo il 38% non fanno nulla perché lui «è libero» e che la violenza inizia a farsi strada anche tra le ragazze, a indicare una difficoltà nei rapporti fin dall’adolescenza. Il 27% delle ragazze ha alzato le mani almeno una volta su un ragazzo durante un litigio (cifra sostanzialmente stabile, era il 28% lo scorso anno).
Secondo Daniele Grassucci , co-fondatore di Skuola.Net, dai dati emerge come «nonostante gli appelli e le campagne di sensibilizzazione, la violenza nei rapporti di coppia sia un fenomeno sempre più trasversale e in continua crescita. Iniziando a dare i suoi frutti malati sin dall’adolescenza. Preoccupante il fatto che tantissime ragazze non facciano nulla per tamponare questa escalation ma, al contrario, tendano a giustificarla. Loro stesse, poi, sempre più spesso si rendono protagoniste di episodi violenti. Un campanello d’allarme che ci dice come sia indifferibile intervenire sull’educazione all’affettività già dalla tenera età. Basterebbe seguire l’esempio di alcuni paesi europei (come la Danimarca) dove l’educazione emotiva è già materia d’insegnamento a scuola».
Le molestie, gli stereotipi di genere e il sexting sono stati l’argomento di un’indagine trattata anche da ScuolaZoo e Terre des Hommes sulla base dei dati dell’Osservatorio InDifesa. «Ragazzi e ragazze sono d’accordo sul fatto che la peggior forma di discriminazione sia il rischio di molestia sessuale a cui sono esposte le donne (lo crede l’82,9% dei ragazzi e l’82,4% delle ragazze)», è scritto nell’indagine . Ma hanno un’idea diversa delle molestie. «Per il 60,45% dei ragazzi si parla di molestia solo quando si è davanti a un vero e proprio tentativo di violenza; per le ragazze, invece, si parla di molestia già quando avviene un contatto fisico invadente e non desiderato (69,81%)».
Il 45,2% dei giovani italiani ritiene che quello che succede all’interno di una coppia sia sempre un fatto privato e che nessuno abbia il diritto di intromettersi. Questo, però, crea le condizioni per nascondere la violenza e fornire un alibi a chi la compie.
il manifesto 24.11.18
Le cifre da capogiro della prevaricazione patriarcale
Dal cielo alla terra. Pubblicata la prima indagine Istat sulla violenza maschile contro le donne. Una mappatura dei centri antiviolenza
di Alessandra Pigliaru
Nel mondo, una donna su tre, vive violenza fisica o sessuale da parte, principalmente, del proprio partner. L’Organizzazione mondiale della sanità la chiama «la più diffusa e meno segnalata delle violazioni dei diritti umani». L’analisi dell’Oms, seppure sia preziosa perché arriva alla vigilia della giornata internazionale contro la violenza maschile alle donne, conferma e solleva un problema più cogente. Non si tratta infatti di una contingenza storica bensì di una strutturale prevaricazione di un sesso su un altro.
Recuperare i dati relativi alle violenze è specchio drammatico del presente, ma dice anche la temperatura, sociale e politica, dell’umano. In questo caso, di un rapporto che è di dominio e di morte, nei casi di femminicidio. Ai dati dei vari rapporti, mondiali, europei e dei singoli paesi, si dovrebbe fare un distinguo su quelli ufficiali e gli altri forniti dalle associazioni e dalle numerose reti che lavorano alacremente e quasi senza un centesimo nelle varie zone del mondo. Infine, nonostante questi incroci, amaramente si può constatare che oggi nella manifestazione nazionale di Non Una Di Meno – che in queste ore attraverserà le strade di Roma, come le altre «sorelle» che andranno a sfilare in altri continenti – non si potrà mai rendere l’intero del fenomeno.
IN UN FONDO GRIGIO si muovono moltissimi episodi che per diverse ragioni non arrivano neppure alle statistiche. Va comunque riconosciuto che tutti i monitoraggi messi in atto, seppure imperfetti o da verificare e ulteriormente incrociare, sono espressione di un tentativo di sostegno per quante intendano uscire dalla violenza. Così succede nel caso delle linee previste dalla Convenzione di Istanbul in cui si inserisce, fra le altre cose, la «helpline» a cui ha aderito anche l’Italia con l’attivazione del numero verde 1522, strumento per sostenere e aiutare chi subisce violenza e stalking. Anche di questi dati, imponenti, si occupa la prima indagine Istat in collaborazione con il Dipartimento Pari Opportunità, Regioni e Cnr, a proposito dei servizi offerti dai centri antiviolenza alle donne vittime di violenza maschile. È un esordio importante che interroga una riflessione politica poiché a emergere dal corposo dossier reso fruibile da ieri tramite il sito dell’Istituto nazionale di statistica, è l’istantanea di un 2017 terribile.
COMPOSTO da diverse sezioni, l’indagine comprende una serie di relazioni, infografiche, tavole e tabelle che si spingono fino al 2018, là dove vengono forniti i primi report possibili; è il caso dei dati relativi al numero verde antiviolenza che da dicembre 2012 arrivano fino a maggio 2018. Di pochi giorni fa è il rapporto dei Centri antiviolenza Di.Re. (restituito sulle pagine di questo giornale il 16 novembre) da cui risultavano più di 20mila le donne che si sono rivolte nel 2017 alle oltre 85 strutture del network sparse sul territorio. Dal rapporto Istat sono 49152; si potrebbe arrotondare per eccesso o difetto, invece è bene, soprattutto in questo caso, avere contezza che si tratta di singole storie, di esperienze in cui a essere stata vissuta sulla propria pelle è una forma di violenza maschile. Più della metà delle donne ha poi cominciato un percorso di uscita dalla violenza.
A ESSERE interpellati dall’Istat, 281 centri antiviolenza di cui 253 hanno restituito il questionario completo. Un terzo dei Centri è presente al sud Italia, poco meno della metà del numero totale è invece al nord, al centro il 16% mentre Sicilia e Sardegna l’8%. Quasi il 70% delle strutture è reperibile h24 con un lavoro dunque importante svolto dalle operatrici che vengono formate appositamente, spesso da corsi interni alle stesse strutture, e che accolgono le prime telefonate. Le donne possono usufruire anche di supporto legale, psicologico, orientamento ad altri servizi insieme a quello molto prezioso al lavoro, un percorso di allontanamento, supporto alloggiativo e ai figli minori. Quando i Centri non hanno infatti risorse sufficienti la rete territoriale (l’86% dei Centri è in relazione con altre strutture) si occupa dei singoli punti. Il 56% delle operatrici (4400 nel 2017) ha svolto questi delicati compiti in forma volontaria. Se è giusto, oltre che rilevante, assumere la battaglia dell’antiviolenza come una forma della politica attiva, è pur vero che bisognerebbe domandarsi perché i Centri antiviolenza non siano supportati, avvantaggiati e finanziati con misure ulteriori. È un problema delle istituzioni che tuttavia ricade sulle vite delle donne. Quelle stesse donne che possono comunque contare su più salde alleanze relazionali, ogni volta che varcano la soglia di un Centro antiviolenza.
Il Fatto 24.11.18
Verona, donne in piazza contro la Vandea di FN
Oggi neofascisti a convegno nella giornata nazionale contro la violenza di genere
di Giuseppe Pietrobelli
Camerati e cattolici integralisti procedono spediti verso la meta, incuranti delle sale negate, delle proteste pubbliche e delle polemiche seguite alla mozione antiabortista del consiglio comunale scaligero contro la legge 194, votata qualche mese fa. Siamo o non siamo a Verona, la Vandea Bianca d’Italia, se non d’Europa come hanno pomposamente titolato i promotori del convegno di Forza Nuova che si terrà oggi sulle rive dell’Adige? Avevano già pronta una sala al Grand Hotel di Porta Nuova, ma un blitz antifascista e delle donne di “Mai una di meno”, ha denunciato la valenza politica dell’incontro.
E così la direzione dell’albergo ha ordinato il dietrofront. Le falangi non si sono arrese e nel giro di poche ore hanno trovato una nuova casa, questa volta molto vicina alla giunta di centrodestra del sindaco Federico Sboarina, che nel 2017 venne eletto anche grazie ai voti dell’estrema destra: “Confermiamo che il convegno “Verona Vandea d’Europa” si terrà regolarmente, nonostante tutto” ha annunciato Forza Nuova ieri pomeriggio. “E si terrà presso la Porta Palio, uno dei luoghi più importanti e simbolici dell’insurrezione antigiacobina veronese. Non poteva esserci miglior luogo per rilanciare attraverso questo convegno il messaggio di lotta e vittoria”.
A Porta Palio ha sede la Società di Mutuo Soccorso, la cui vicepresidente è l’assessore comunale Francesca Toffali. Insomma, un aiutino dalla giunta è arrivato. Non a caso Verona è città sensibile, per riferimenti storici e pratiche attuali. Le Pasque Veronesi nell’aprile 1797 furono una rara insurrezione contadina antibonapartista. I movimenti ultracattolici qui hanno sempre avuto casa. E adesso si intrecciano con l’estrema destra, in un convegno che sarà aperto da Luca Castellini, coordinatore per il Nord Italia di Forza Nuova. Seguiranno gli interventi di Fabio Marino del Dipartimento di Diritto Privato e Critica del Diritto dell’Università di Padova, di Marian Kotleba del Partito Popolare Nostra Slovacchia, di Damian Kita, del partito polacco Onr, di Fabio Tuiach, consigliere comunale a Trieste di Forza Nuova e di Roberto Fiore, Segretario Nazionale di Forza Nuova. Al pomeriggio una marcia antiabortista per le vie della città, promossa dal movimento No 194. “Sarà presente – annunciano gli organizzatori – anche Giuliano Castellino, responsabile romano di Forza Nuova, ex detenuto politico”.
Una polveriera ideologica in una città che da sempre ha due anime, anche se la seconda è minoritaria. In piazza Isolo, in coincidenza con la marcia anti-194 ci sarà una conferenza stampa con presidio e flash-mob animato dalle donne di “Non una di meno”: “Mostreremo cosa accadrebbe a medici, chirurghi e a tutte le donne se dovesse essere approvato il disegno di legge che introduce pene severissime per chi causa l’aborto per lesioni”, spiega Giulia.
E Valeria Mercandino aggiunge: “Verona è diventato un laboratorio politico e di sperimentazione, in cui l’estrema Destra, i cristiani estremisti e la destra istituzionale si saldano. Verona è al centro di un lavoro di tessitura, dove dopo la mozione del consiglio comunale contro la legge 194 il senatore leghista Simone Pillon è arrivato al punto di dire che le donne devono essere costrette a non abortire”. Tutto questo avviene nella città del ministro alla famiglia Lorenzo Fontana. E non può essere un caso.
Le voci che si sono alzate contro la calata neofascista lungo l’Adige sono numerose. “Bisogna sostenere la battaglia di ‘Non una di meno’ sulla rivendicazione dei diritti e contro le manovre oscurantiste del governo, sostenuto volentieri dai partiti neofascisti”, dichiara Giuseppe Civati, fondatore di Possibile. “Tutto avviene con l’approvazione del ministro Fontana. Attenti: non è solo un fenomeno locale, ma un progetto che si vuole riproporre su scala nazionale”.
Il Fatto 24.11.18
Landini parla per la Cgil: “Governo irresponsabile”
In corsa per la segreteria generale, l’ex Fiom si fa carico dello stato d’animo della sua organizzazione: “Qui non siamo ricevuti nemmeno dalle 8 alle 8: cogli l’attimo”
di Salvatore Cannavò
Maurizio Landini studia da segretario della Cgil e attacca il governo: “È da irresponsabili farsi sanzionare dall’Europa per qualche voto in più” è il giudizio secco espresso ieri, a conclusione del congresso regionale del Lazio, e riferito allo scontro con la Ue. Un giudizio finora non espresso con tanta nettezza, pur ribadendo come la Cgil sia comunque contraria al pareggio di bilancio in Costituzione o al Fiscal compact. Ma il governo, nella sua disputa con la Commissione, non convince perché “i parametri si possono forzare ma solo se metti al centro il lavoro e gli investimenti”. Che, spiega, al momento non si vedono.
L’ex segretario della Fiom punta il dito anche sulle relazioni con il sindacato: “Qui non siamo convocati nemmeno ‘dalle 8 alle 8, cogli l’attimo’”, dice citando la Tv delle ragazze. Il sindacato non è minimamente tenuto in considerazione dal governo “perché il suo raggio d’azione si svolge tutto all’interno del contratto di governo e chi è fuori non conta nulla”. Giudizi più duri rispetto a quando trattava sull’Ilva ed elogiava il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio.
Landini si fa ora portavoce di uno stato d’animo dell’intera Cgil che soffre l’azione del governo e soffre anche l’assenza di una sponda politica. Stato d’animo visibile ieri al Centro congressi Frentani dove si è chiuso un congresso regionale il cui segretario, Michele Azzola, si è schierato contro la candidatura di Landini e quindi in un ambiente “ostile” a differenza del congresso della Toscana che, sempre ieri, ha visto la segretaria generale appoggiarlo.
Landini ha trovato una sala colma, con voci e volti poco noti ma che rappresentano una realtà più vivace di quella che appare. Il segretario della Fp pubblica, della Filcams, della Fillea, quarantenni che hanno espresso le enormi difficoltà del sindacato a Roma ma anche la voglia di avere una confederazione più presente e una Cgil che si incarichi, nel vuoto della politica, di “contrastare la deriva che subisce il Paese”.
La Cgil che va a congresso è senz’altro stanca e vive il clima di rassegnazione a sinistra. Ne è prova lo scarto molto forte tra gli iscritti e i partecipanti al voto (non esistono cifre ufficiali, ma il dato è stato sottolineato dallo stesso Landini). Però negli interventi dei delegati si coglie la volontà di coprire il vuoto, sul piano sociale e sindacale, e di fare una battaglia più generale. A Roma, ad esempio, dove non sono mancate critiche nette alla giunta Raggi, ma anche all’amministrazione Zingaretti, la Cgil organizza per il 1 dicembre la manifestazione “Roma non sta a guardare” contro le disuguaglianze e “ogni forma di razzismo”.
A questa platea Landini ha saputo parlare con efficacia, soprattutto rivendicando una battaglia forte contro il sistema degli appalti e contro la frammentazione del lavoro che, in una città come Roma, è più che diffusa: “Pensate se in posti come l’aeroporto di Fiumicino o il Policlinico, dove esiste una miriade di contratti diversi, i lavoratori eleggessero rappresentanze unitarie”.
Ma a quella platea ha parlato anche il linguaggio dell’unità interna: “Se ci dividessimo ora faremmo un capolavoro”, ha detto riferendosi allo scontro interno con quella parte che lo ha contrastato. Dicendosi “emozionato” per l’incarico che gli è stato prospettato, però, Landini dichiara di volersi fare carico di tutta la Cgil, ad esempio insistendo sull’unità con Cisl e Uil.
Ieri è sembrato aver convinto molti anche se una certa diffidenza è rimasta visibile. Ad esempio nel Sindacato dei pensionati dove Ivan Pedretti, il segretario generale, seduto in prima fila non ha applaudito alcun passaggio dell’intervento di Landini. Ma chi lo conosce dice che essere presente è stato comunque un segnale di attenzione.
il manifesto 24.11.18
Medici senza contratto da dieci anni, ora la ministra promette
Ieri lo sciopero del personale sanitario, adesione massiccia. Da anni al sistema non arrivano risorse sufficienti. Protestano anche gli specializzandi
di Madi Ferrucci
Medici, veterinari, anestesisti e specializzandi di tutta Italia hanno protestato ieri con numerosi sit-in di fronte agli ospedali e alle sedi delle regioni. Secondo gli organizzatori l’adesione è stata dell’80-90 per cento del personale sanitario; molti gli interventi rinviati e le sale operatorie bloccate.
Il disagio ha interessato anche la filiera agro-alimentare; la sospensione dei servizi di ispezione dei veterinari delle Asl ha infatti bloccato parzialmente l’industria della macellazione. «Da anni non si vedeva una partecipazione così ampia, arrivando messaggi e foto di proteste da tutto il Paese», spiega Carlo Palermo, segretario di Anaao Assomed, che ieri mattina si trovava al San Camillo di Roma per una conferenza stampa con gli altri principali sindacati.
Lo sciopero è per i fondi per il rinnovo dei contratti dei medici e dei dirigenti sanitari, bloccati da dieci anni, e le borse di studio agli specializzandi. Più in generale la protesta è una denuncia dello stato drammatico in cui versa il sistema sanitario nazionale a cui da anni non arrivano le risorse necessarie a garantire un servizio efficace. È quindi una lotta che riguarda tutti i cittadini, hanno ribadito i sindacati. Quanto ai fondi destinati ai contratti, il sindacato dei medici (Cimo) ha chiesto un’indagine della Corte dei Conti su dieci regioni italiane, col sospetto che li abbiano utilizzati per altri fini. La verità però è che i finanziamenti da anni sono in diminuzione e il blocco del turn over, unito al tetto degli stipendi vincolato al 2004, non ha fatto altro che aggravare la situazione. Tra medici e infermieri mancano 50mila addetti, senza contare che nei prossimi 5 anni ci sarà un’ ulteriore uscita di 45mila professionisti. In mancanza di personale le liste di attesa si allungano, i giorni di ferie non goduti si accumulano e come ha dichiarato uno dei medici presenti alla conferenza stampa «capita di fare anche cinque notti di fila con ritmi impossibili». Tutti i sindacati concordano sulla necessità di rifinanziare il servizio sanitario pubblico; indebolirlo infatti ha favorito l’esternalizzazione dei servizi e il sistema delle cliniche private; accessibili solo a pochi privilegiati.
Anche gli studenti si sono uniti alla protesta. Nella notte di ieri gli specializzandi hanno chiuso gli ospedali per denunciare lo stato di crisi in cui versa la sanità pubblica. Riccardo Sala, rappresentante di Link area medica, ha raccontato di una generazione di «medici a gettone e neolaureati, che iniziano il percorso di formazione specialistica e vengono utilizzati come tappabuchi dei medici ordinari mancanti». Il governo ha infatti scelto di finanziare solo 800 borse per i posti di specializzazione, quando bastavano appena 100 milioni in più per garantire le 3mila borse necessarie. Nessuno sconto sul tema anche da parte di Andrea Filippi, segretario della CGIL Medici: «La sanità è diventato il bancomat con cui si aggiustano le finanziarie; da un lato si offre un modello assistenzialistico come il reddito di cittadinanza e dall’altro non si stanziano i fondi necessari ai servizi per l’assistenza di base».
Dal canto suo la ministra Giulia Grillo, al termine della conferenza stampa, ha chiesto di incontrare i sindacati per un tavolo di dialogo. Nel colloquio, ha riferito Carlo Palermo, «la ministra si è impegnata a studiare gli aspetti tecnici del rinnovo dei contratti e di trasferire nella nuova legge di bilancio gli emendamenti per la soluzione di questo problema. Lo stato di agitazione resta. E se non ci saranno risposte a dicembre ne indirremo un altro». Anche Andrea Piccinini vicepresidente di Cimo, preso atto dell’apertura, ha ribadito: «Dopo le dichiarazioni di intenti ora servono i fatti».
La Stampa 24.11.18
Medici in sciopero, ospedali in tilt
Rinviati quarantamila interventi
Adesione fino al 90 per cento quasi in tutta Italia. La ministra Grillo promette stanziamenti
di Paolo Russo
Corsie semideserte, porte degli ambulatori sbarrate, 40 mila interventi chirurgici rinviati a data da destinarsi. Il «Black Friday degli ospedali» ha visto i medici aderire allo sciopero con percentuali dell’80-90%.
I sindacati di categoria ieri minacciavano nuovi scioperi già dal prossimo mese, ma il successo della prima giornata di protesta sembra aver smosso un po’ le acque. Il ministro della Salute, Giulia Grillo, ieri ha ricevuto i rappresentanti dei camici bianchi assicurando che qualcosa in finanziaria entrerà per accogliere almeno in parte le loro richieste. Dovrebbero arrivare circa 60 milioni per l’indennità di esclusiva, che spetta ai medici che rinunciano a lavorare nel privato. E dovrebbe essere cancellata l’anacronistica disposizione, introdotta nel 2010, che obbliga le Regioni e non spendere per il personale della sanità più di quanto corrisposto nel lontano 2004, diminuito anche dell’1,4%. Una barriera invalicabile per chi volesse assumere forze nuove per compensare i pensionamenti passati e futuri.
«Già oggi -spiega Carlo Palermo, segretario nazionale dell’Anaao- la dotazione organica si è ridotta del 10% rispetto al 2009, facendo mancare novemila medici. Ma con la legge Fornero nei prossimi 5 anni andranno in pensione altri 45 mila tra medici, dirigenti sanitari e veterinari: numero che metterebbe in ginocchio qualsiasi sistema sanitario nazionale». Il problema è che, pur tolti i paletti sui limiti di spesa, non si sa dove trovare i soldi per le assunzioni, visto che il Fondo sanitario nazionale per il 2019 è aumentato del miliardo già programmato lo scorso anno, pari solo allo 0,88% dello stanziamento complessivo. E 560 milioni serviranno per pagare i 10 anni di aumenti arretrati ai medici, senza i quali la serrata della sanità è dietro l’angolo. Quei soldi, stabilisce la normativa, li avrebbero dovuti accantonare di anno in anno le regioni, che invece - quasi tutte - li hanno spesi per far sopravvivere un sistema sanitario che negli anni ha incassato oltre 30 miliardi in meno rispetto a quelli programmati dai vari governi.
Intanto il sindacato medico Cimo ha inviato una segnalazione alla Corte dei Conti perché valuti se aprire un’indagine nei confronti di 11 regioni che non avrebbero accantonato le somme per il contratto, prefigurando un danno erariale attribuibile alla loro condotta. Ma per evitare altre serrate ospedaliere occorrerà che la moral suasion della Grillo sul titolare dell’Economia, Giovanni Tria, faccia rimpinguare un piatto che per i medici continua a piangere.
Corriere 24.11.18
Il sondaggio
Lega ancora su: ora è al 36,2%
Calano 5 Stelle e Forza Italia
di Nando Pagnoncelli
La Lega continua a salire e nelle intenzioni di voto arriva al 36,2%. Aumenta così la distanza con i 5 Stelle che si attestano al 27,7%. Il Pd 16,8%. Forza Italia al 7,9%. Per quanto riguarda il governo, in flessione il gradimento di Conte e quello di Di Maio. In crescita Salvini.
N el mese di novembre tra le forze della maggioranza si sono alternati momenti di contrasto, soprattutto sui temi della giustizia e delle grandi opere, e momenti di coesione, in particolare dopo la bocciatura da parte dell’Ue della legge di Bilancio e la probabile apertura della procedura di infrazione nei confronti dell’Italia. Pertanto, in anticipo rispetto al consueto aggiornamento mensile, abbiamo voluto verificare «la temperatura» del consenso per il governo e i partiti. L’esecutivo fa segnare un arretramento: i giudizi positivi (53%) continuano a prevalere nettamente su quelli negativi (36%), ma l’indice di gradimento diminuisce di tre punti attestandosi a 60. La stessa tendenza si registra per il presidente Conte, in flessione di due punti (passa da 64 a 62) e per il vicepremier Di Maio (da 51 a 47), per il quale per la prima volta le valutazioni negative (46%) prevalgono su quelle positive (41%). Al contrario l’indice di gradimento di Salvini aumenta di due punti (da 58 a 60) e si avvicina a quello del premier (il divario scende da -6 a -2).
Quanto alle intenzioni di voto, a distanza di tre settimane dal precedente sondaggio registriamo un ulteriore aumento del vantaggio della Lega sul Movimento 5 Stelle (da 6% a 8,5%): la prima infatti si attesta al 36,2% delle preferenze (+1,5%), il secondo al 27,7% (-1%). A seguire il Pd, al 16,8% (+0,3%), e Forza Italia al 7,9% (-0,8%), quindi Fratelli d’Italia (2,6%), +Europa (2,1%) e Liberi e Uguali (1,5%) che abbiamo testato per l’ultima volta prima dell’assemblea prevista per oggi che dovrebbe decretare cambiamenti di rilievo.
Rispetto al voto del 4 marzo, la Lega ha quasi raddoppiato i consensi penetrando in aree territoriali un tempo assai distanti e aumentando significativamente tra le donne, le persone mature o anziane (al di sopra dei 50 anni), con scolarità elementare e, riguardo alla condizione occupazionale, tra ceti molto diversi tra loro (casalinghe e pensionati ma anche ceti imprenditoriali e dirigenti, nonché tra i dipendenti pubblici). Per non parlare della crescita nel mondo cattolico, in particolare tra coloro che partecipano alla messa tutte le domeniche. D’altronde, l’esibizione di rosario e vangelo da parte di Salvini una settimana prima delle elezioni ha rappresentato un messaggio molto più forte della famosa copertina di Famiglia Cristiana («Vade retro Salvini»).
Il M5S ha perso consenso soprattutto tra le donne, tra i più giovani (in particolare tra gli studenti), tra gli elettori più istruiti (laureati e diplomati), i ceti dirigenti e i dipendenti pubblici.
I dem arretrano tra gli uomini, tra le persone di età adulta (35-50 anni) e matura (oltre 65 anni), come pure tra quelle meno istruite (licenza elementare) e i ceti popolari, mentre fanno segnare una crescita tra i laureati e gli studenti e una sostanziale tenuta presso i ceti dirigenti.
Forza Italia si è significativamente indebolita presso i segmenti sociali che da sempre rappresentavano il suo elettorato più fedele, cioè le donne, le persone meno scolarizzate, casalinghe, pensionati e lavoratori autonomi.
La Lega quindi appare in salute, mentre il M5S fatica, per le ragioni più volte evocate: elettorato proveniente da aree politiche diverse (situazione ideale stando all’opposizione, ma molto complicata quando si hanno responsabilità di governo), ambiti di intervento molto complessi, minore esperienza, dissenso interno. Tutti aspetti estranei al partito di Salvini.
Dunque, la Lega è inarrestabile? Senza voler sminuire la portata del suo consenso — il raddoppio (sia pure virtuale) degli orientamenti di voto in pochi mesi è infatti un accadimento inedito — l’analisi dei dati sul totale degli elettori (quindi non sui voti validi), ridimensiona in parte il risultato. Infatti occorre fare i conti con un elemento di cui si parla poco: l’aumento dell’area grigia rappresentata da indecisi e astensionisti che oggi rappresentano il 36,2%, vale a dire quasi 3,2 milioni di elettori in più rispetto alle politiche. Al crescere dell’astensione la Lega aumenta il risultato grazie alla forte tenuta del proprio elettorato, a differenza delle altre forze politiche che fanno segnare un’uscita di elettori che in larga misura manifestano la loro delusione scegliendo di non scegliere, astenendosi dal voto.
Sulla totalità del corpo elettorale la Lega in 6 mesi (tra il 4 marzo e il 5 settembre) fa un balzo passando dal 12,3% delle Politiche al 22,1% (da 5,7 a 10,3 milioni di elettori), ma da inizio settembre a oggi aumenta di un solo punto. Si verifica quindi una sorta di «effetto ottico»: la Lega dalla fine della pausa estiva a oggi aumenta significativamente (quasi tre punti) in voti validi, ma il dato sull’intero corpo elettorale mostra una lieve crescita (400.000 elettori).
Intendiamoci, si tratta di un consenso di grande rilievo (10,7 milioni di elettori) che avvicina la Lega ai risultati ottenuti alle politiche del 2008 dal Pdl (13,6 milioni di voti) e dal Pd (12,1 milioni), nonché al successo renziano alle Europee del 2014 (11,1 milioni). Ma la scadenza elettorale del prossimo 26 maggio è ancora distante e gli atteggiamenti degli italiani nei confronti dell’Europa sono tutt’altro che univoci. Dunque, non è affatto da escludere che rispetto allo scenario odierno la campagna elettorale riservi qualche sorpresa. La paura di essere marginalizzati in Europa potrebbe indurre una parte degli elettori a scegliere partiti meno ostili nei confronti dell’Ue.
https://spogli.blogspot.com/2018/11/repubblica-24.html